Il più tormentato e sofferto dei numeri di fuoricollana.it. La sofferenza che deriva dal privilegio di essere una pubblicazione non periodica, non sottoposta alla ‘dittatura’ del dovere di stare sulla notizia. Il privilegio di essere liberi. Ci siamo avvalsi di questo privilegio, nel tentativo – non sappiamo se riuscito, giudicheranno i lettori – di misurare le “parole” di fronte all’enormità delle “cose” che accadono davanti ai nostri occhi. Che accadono nella ‘martoriata’ Israele, che accadono nella ‘martoriata’ striscia di Gaza.
Le “cose”, per avere un senso, hanno bisogno delle giuste “parole”, come recita una delle sezioni del nostro web magazine (le cose e le parole) alla quale siamo particolarmente affezionati. Abbiamo alla fine convenuto, dopo una tutt’altro che chiusa riflessione collettiva, che l’espressione giusta per non parlare a vanvera di quanto stava accadendo davanti ai nostri occhi fosse guerre d’odio. E che il balbettio dell’Unione europea di fronte alle tragedie in corso meritasse di essere qualificato per quello che è. Un silenzio colpevole, la cui ultima ‘tappa’ è l’esito sostanzialmente fallimentare anche della c.d. Conferenza umanitaria per Gaza convocata, la scorsa settimana, da Emmanuel Macron (le precedenti ‘tappe’ sono analiticamente ricostruite da Ilenia Massa Pinto).
Il vento dell’odio, come sottolineato nei contributi di Luigi Alfieri, Antonio Cantaro e Isidoro Mortellaro, ha radici recenti e remote nel Vecchio continente. Torneremo ad approfondire il tema già nei prossimi numeri (ne parlano già, da diversi punti di osservazione, i contributi di Vincenzo Comito e Andrea Guazzarotti). Ma c’è un sentimento di stupore che ci inchioda da subito alle nostre responsabilità storiche e alle nostre odierne complicità di europei.
È lo stupore raccontato dall’ebreo Amos ‘Oz alla fine della sua prima lezione Contro il fanatismo: «all’epoca in cui mio padre era un giovanotto in Lituania – veniva dalla Russia, la sua famiglia si era rifugiata in Lituania, che allora era parte della Polonia – poterono dirsi fortunati per essere stati cacciati via e dopo mille peripezie, nei primi anni trenta, essere approdati alla Palestina sotto mandato britannico. A quel tempo l’Europa era tappezzata di graffiti: ebrei, andatevene in Palestina. Quando, molti decenni dopo, mio padre tornò in Europa per un viaggio, la trovò coperta di altre scritte: ebrei, fuori dalla Palestina.
Anche oggi siamo tutt’altro che spettatori innocenti del vento d’odio che miete vittime innocenti. Da una parte e dall’altra. Non tutti apprezzeranno questa nostra (auto)critica denuncia, alcuni sentiranno offesa la loro sensibilità, i loro buoni sentimenti. Ce ne faremo una ragione, ospiteremo volentieri e doverosamente repliche, precisazioni, altri punti di vista. Non è nostra intenzione alimentare ulteriormente il “vento dell’odio”. Ma, al contrario, contribuire, con i nostri modesti strumenti, a spegnerlo. Con le giuste parole, con i giusti comportamenti.
Ci vorrebbe un sabatico, nel senso dei Dizionari biblici. “Al pari dei giorni, anche gli anni presso gli Ebrei erano divisi in cicli di sette. Ogni settimo anno si chiama sabatico. In esso era prescritto il riposo del suolo; i prodotti spontanei erano lasciati ai poveri e al bestiame”. Una legge che “mirava a ricordare il dominio di Dio sul suolo, che doveva riposare in suo onore, ed una completa uguaglianza fra gli uomini, che in tale anno avevano uguale diritto sui mezzi necessari alla sussistenza”.
Il nome oggi di questo sabatico è un cessate il fuoco immediato e immediatamente dopo la convocazione di una Conferenza internazionale di pace sulla questione israelo-palestinese. Sotto l’egida dell’Onu, sotto l’egida di tutti gli stati europei e di tutti gli Stati dell’area mediorientale coinvolti, direttamente e indirettamente, nell’odierna guerra d’odio. La benzina sul fuoco dell’Unione geo-politica, cioè neo-atlantica, la lasciamo volentieri all’ineffabile, irresponsabile, signora Ursula von der Leyen. Alla sua cattiva coscienza.
Non ci piace nemmeno la cattiva coscienza di coloro che prefigurano risposte dal sapore neocoloniale alla questione israelo-palestinese. Prima o poi, le Idf (Israel Defense Forces) dovranno ritirarsi da Gaza e passare la mano a qualcun altro. Già, ma a chi e con quali modalità? L’ipotesi ventilata in questi giorni da parte statunitense di un’amministrazione fiduciaria ad interim che si occupi di gestire la transizione tra l’occupazione israeliana e l’assunzione di una diretta responsabilità da parte dell’Anp non può funzionare. Si tratta – ha scritto persino Vittorio Emanuele Parsi su Le Grand Continent– di un’ipotesi lunare. Se Abu Mazen accettasse di prestarsi a una simile iniziativa perderebbe qualunque residua credibilità agli occhi del suo popolo.
Arduo ma più rispettoso della realtà è lavorare per un governo (legittimo) congiunto tra Hamas e Fatah nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Ciò esige certamente un’assunzione di responsabilità da parte di tutte le forze della Regione che da troppo tempo hanno colpevolmente e opportunisticamente ignorato la questione palestinese. A partire dai c.d. paesi arabi moderati, fra tutte le monarchie del Golfo che in questi anni si erano avvicinati a Israele attraverso gli Accordi di Abramo. Ma tutto questo non basta se non si mette da subito nero su bianco l’approdo della questione israelo-palestinese.
Se si vuol fare uscire la regione dal lungo cono d’ombra di una irrisolta decolonizzazione e di un irrisolto reciproco riconoscimento al diritto di esistere tra i due contendenti, è necessaria una chiara assunzione di responsabilità dell’Onu e, soprattutto, dell’Europa. Questa deve riconoscere le sue responsabilità remote e prossime e mettere contestualmente a disposizione le risorse migliori di cui dispone in termini di tradizione giuridica e civile per porre la parola fine alle guerre d’odio. Ultima chiamata per l’Europa, per pulire il suo lungo, complice, silenzio. Ponendo fine da parte di tutti – ma proprio tutti, a sinistra e a destra – a qualsivoglia ambiguità su (neo)colonialismo e (neo)antisemitismo.