Per paradossale e contro intuitivo che possa sembrare lo sguardo esclusivamente illuministico sulla guerra e, più in generale, intorno al “negativo” espone la razionalità al più catastrofico dei suoi scacchi. Se ne erano accorti gli esponenti di punta della “teoria critica” della Scuola di Francoforte, M. Horkheimer e T. Adorno, che nel loro capolavoro Dialettica dell’Illuminismo (1947) provvedono a fissarne i passaggi argomentativi chiave.
Dialettica dell’illuminismo
Da un punto di osservazione non invidiabile, siamo tra il 1942 e il 1944, ma ricco di suggestioni teoriche, espongono in quel libro dai tratti profetici e visionari la tesi che il nazifascismo non era stata una «parentesi», come il mondo liberale da lì a poco si sarebbe affrettato a liquidare, piuttosto la scaturigine stessa della intera civiltà moderna, il suo esito più probabile, frutto avvelenato di quell’inevitabile rovesciamento dialettico dell’approccio solo formalistico e dunque debole della ragione illuministica. Il difetto strutturale di quel filone culturale è rintracciato in un eccesso di soggettivismo che impedisce all’io di entrare fino in fondo in relazione con l’oggetto. Con due conseguenze, se riferite al mondo storico e sociale, entrambe nefaste: che i rapporti di forza e di dominio in esso contenuti, a partire dal macro fenomeno della guerra, non vengono neppure scalfiti e meno che mai imbrigliati e che la soggettività, concepita da Kant in termini solo formalistici e astratta, è destinata all’inevitabile scacco conoscitivo e al conseguente rispecchiamento narcisistico. Esito nichilistico fra l’altro già precocemente annunciato nella riflessione del Marchese de Sade, ampiamente richiamato dagli autori, illuminista e contemporaneo di Kant, che non fa mistero nei suoi scritti di porsi come il suo “doppio”. Con chiarezza adamantina, così si esprimono: «Gli scrittori “neri” della borghesia non hanno cercato, come i suoi apologeti, di palliare le conseguenze dell’illuminismo con dottrine armoniose. Non hanno dato ad intendere che la ragione formalistica sia in rapporto più stretto con la morale che con l’immoralità. Mentre i chiari o sereni coprivano, negandolo, il vincolo indissolubile di ragione e misfatto, società borghese e dominio, gli altri esprimevano senza riguardi la verità sconcertante». (Dialettica, p.128)
Dialettica hegeliana
Dunque, un guadagno teoretico decisivo da parte dei maestri francofortesi che andava custodito gelosamente e se del caso riaffermato. Invece è stato disperso al pari di buona parte del patrimonio critico novecentesco. Esso così si può condensare nella formula sintetica adoperata dagli autori: «Elementi soggettivi sono ciecamente introdotti nella datità solo apparente dell’oggetto. Solo il lavoro autoconsapevole del pensiero (secondo l’idealismo leibniziano e di Hegel: la filosofia) può tornare a sottrarsi a questa allucinazione». (ibidem, p.207). E in effetti, da sponde diametralmente opposte a quelle del Marchese de Sade, Hegel non avrebbe comunque mai potuto concepire un libretto come il kantiano Per la pace perpetua (1795). Anche se andrebbe comunque di molto attenuata quell’immaginetta iconica da filosofo morale a tutto tondo, quel testo resta in ogni caso una prestazione di pensiero, per dirla con le stesse grammatiche hegeliane, attribuibile all’«intelletto astratto» o «regno del dover essere» che dir si voglia. Nondimeno, in quell’aureo libretto non è difficile imbattersi in autentiche perle di realismo come quando il filosofo di Königsberg afferma che rispetto alla «monarchia universale», secondo la ragione, è mille volte da preferire un assetto di «Stati vicini e indipendenti», sia pure in tensione fra loro. Difatti un’unica potenza che «soverchi le altre» è sempre sul punto di rovesciarsi in «dispotismo senza anima» e finire per cadere «in preda all’anarchia». Per ritornare ad Hegel, ciò che glielo avrebbe impedito sono i due cardini del suo filosofare. Il carattere intrinsecamente dialettico della realtà che non permette di espungere dal suo processo l’«immane potenza del negativo» che la guerra in massimo grado rappresenta. E poi più di fondo la storicità che esige di stare dappresso al fenomeno anzi, meglio, all’effettività storica («Wirklichkeit») della guerra con la controindicazione tassativa di non vagheggiare astratte paci, per giunta perpetue.
Paradigmi in lotta
Il guadagno speculativo è indubbio e consiste nel non considerare la guerra come qualcosa di esterno e staccato ma tutto interno al piano del reale che nel suo insieme va scandagliato e compreso. Non così l’approccio kantiano, il quale portatore di una logica a suo modo stringente ma della “scoperta scientifica”, soltanto fenomenica, non riesce a misurarsi fino in fondo, dovendo tener fermo il principio d’identità, con la lacerazione del reale in quanto tale. In particolare, quando trasla il suo impianto discorsivo e categoriale al mondo storico e sociale, da quello della natura, accade che questo mostra tutta le sue crepe. Il «noumeno» quale fondo inconoscibile del mondo naturale trasposto nel mondo della storia ne va a costituire, come detto sopra, quel nucleo oscuro e inattingibile che si cerca poi di aggirare con la retorica talvolta da «anime belle» e comunque sempre sterile del «dover essere.» Il paradigma kantiano non è in grado di concepire e, dunque, di pensare l’unità di soggetto ed oggetto perché il suo terreno di elezione è la natura, con la sua irriducibile alterità, e non ancora coerentemente la storia. Non così per Hegel, che utilizza il paradigma dell’unità di soggetto e oggetto; esso se gli procura più di qualche equivoco ed incomprensione con gli scienziati del tempo, dispiega tutta la sua potenza euristica sul terreno che più gli interessa, ovvero quello della storia come processo. Lo spartiacque manco a dirsi risiede nella «splendida aurora» della rivoluzione francese, appresa nel pensiero, che Hegel non smetterà mai di esaltare. Era stata la dimostrazione più clamorosa e plastica di quella identità soggetto-oggetto poi adottata. Di una soggettività che mediante la prassi rivoluzionaria si era oggettivata nelle nuove istituzioni della Repubblica. Lo spirito del mondo aveva cosi compiuto un altro balzo in avanti nel suo processo di progressiva autocoscienza umana all’insegna della libertà.
Un approccio di metodo che Hegel programmaticamente assume e rivendica nell’Introduzione ai Lineamenti. Quel reale che si fa razionale e viceversa, rivendicato in esplicito, è la metafora più compiuta di quella identità di soggetto ed oggetto che Hegel aveva concepito come paradigma nella Fenomenologia e mai più dismesso, pure al cospetto di un clima di caccia alle streghe che dal 1817 si era fatto rovente all’Università di Berlino. Certo gli esiti del Terrore che ne erano scaturiti da quella rivoluzione, con le teste che venivano mozzate come cavoli, facevano dubitare Hegel su di una perfetta trasparenza e rispecchiamento dei due termini nell’immediato e lo inducono a porre al culmine della sua architettura, il sapere filosofico e non certo la prassi rivoluzionaria. In ogni caso il metodo dialettico è salvaguardato. Ed è salvato il principio che la sostanza, ovvero la realtà del mondo storico e sociale, è il soggetto: il risultato consapevole dell’agire trasformativo dell’essere umano mosso dall’urgenza di rendere il mondo sempre più coincidente con la sua essenza di essere libero (che si porta dietro necessariamente l’uguaglianza). Un guadagno speculativo in termini di concretezza e realismo difficilmente rinunciabili anche nel presente.
L’Unione europea e il ritorno del rimosso
Non sottrarre la guerra dall’orizzonte storico vuol dire anche esercitare ancora una qualche forma di controllo su di essa e non solo sul piano teorico. Vuol dire porsi in uno schema di ragionamento di tipo dialettico e non manicheo, che tende viceversa a separare, rimuovere la guerra confinandola in un luogo non meglio precisato dell’irrazionale. Ma come ammonirà Freud più tardi non c’è cosa più rovinosa per il singolo e per la comunità che essere esposti al «ritorno del rimosso». È quanto, ad esempio, sta succedendo all’Unione Europea in questi ultimi anni, che avendo espulso kantianamente dal proprio orizzonte di pensiero colpevolmente il tema della guerra e non dotandosi di alcun pensiero strategico al riguardo, adesso se la ritrova in casa senza possibilità alcuna di saperla interpretare adeguatamente e comprenderla. Ed allora si assumono pose francamente macchiettistiche che poco si addicono alla gravità del momento.
Kant, Hegel, Marx
Ma vediamo più da vicino il diverso approccio alla guerra, rispetto a Kant, di Hegel. Ogni Stato tende a entrare in conflitto con gli altri Stati e purtroppo per risolvere le loro contese non c’è un giudice al di sopra dei singoli Stati: «La concezione kantiana di una pace perpetua, mediante una lega degli Stati, la quale appiani ogni controversia, e, in quanto potere riconosciuto da ogni singolo Stato, componga ogni dissenzione, e quindi renda impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone l’umanità degli Stati, che dipende da ragioni e riguardi morali, religiosi o di qualsiasi natura, in generale, sempre da una volontà sovrana particolare, e, quindi, resta affetta da accidentalità». (Hegel, Lineamenti, par. 333, aggiunta). E poco sopra si legge: «Il principio del diritto internazionale, in quanto diritto universale, che deve valere in sé e per sé fra gli Stati, a differenza del contenuto particolare dei trattati positivi, è che i trattati, come quelli dai quali dipendono le obbligazioni degli Stati fra loro, devono essere osservati». Dunque, il fondamento del diritto internazionale è il rispetto dei trattati: «Ma poiché il rapporto tra essi ha per principio la loro sovranità, essi sono, pertanto, nello stato di natura gli uni di fronte agli altri, e i loro diritti hanno la loro realtà non in una volontà universale costruita a potere al di sopra di essi bensì in una loro volontà particolare». Marx avrà gioco facile ad individuare nel modo capitalistico della produzione in vorticosa ascesa la causa prima di questa dissociazione, tra la vocazione del popolo alla pace e la trasformazione degli Stati in «comitati d’affari della borghesia». Il superamento di Hegel consisterà nel sostituire la parola Stato con quella di classe e la parola guerra con quella di rivoluzione, tendenzialmente mondiale.
Kant ha sì elaborato l’ipotesi di una pace perpetua, ma questo progetto, dice Hegel, è astratto. La legge vale tra gli individui perché c’è un’autorità superiore, ma nei rapporti tra gli Stati, chi punirà chi viola il diritto internazionale, come si farà a ristabilire il diritto? Non è da una pur volenterosa lega degli Stati che può venire la risoluzione delle controversie internazionali. Kant non avendo ipotizzato una sovranità sovranazionale, limitandosi ad una molta ipotetica Lega fra Repubbliche ha reso, ad avviso di Hegel, velleitario, l’ha relegato nel campo del dover essere: che per il filosofo berlinese equivale ad una bestemmia. Occorre però evidenziare anche che nel sistema hegeliano la trattazione dei rapporti fra gli Stati ha luogo all’apice dello spirito oggettivo, quello dell’eticità, che fa seguito a diritto e morale, e ne costituisce la sintesi. In un filosofo sistematico non può essere casuale. L’esistenza di una pluralità di Stati è condizione anche del loro reciproco riconoscimento. Come l’individuo non si umanizza davvero se non entra in rapporto con gli altri individui, così il singolo Stato non è veramente tale senza un rapporto con gli altri Stati. Certo, tale rapporto è una lotta per il riconoscimento e in qualsiasi momento può degenerare in un conflitto anche armato. Ma come per il singolo individuo può evolvere positivamente, per l’individuo grande, che è lo Stato, può magari sfociare in una federazione fra due o più Stati che per la pace comune decidono di dotare di forza sufficiente un arbitro terzo sovranazionale. È utile a tale riguardo, nell’ottica del contenimento della guerra, richiamare il paragrafo 338: «Nel fatto che gli Stati si riconoscono reciprocamente per tali, resta, anche nella guerra – condizione di non giuridicità, di violenza e accidentalità – un vincolo, nel quale essi valgono, l’un per l’altro, come qualcosa che è in sé e per sé; sì che, nella guerra stessa, la guerra è determinata come qualcosa che deve essere transitorio. Essa contiene, quindi, la determinazione di diritto internazionale, per cui in essa è conservata la possibilità della pace, e, quindi, per esempio, sono rispettati gli ambasciatori, e, per cui, più in generale, essa non è fatta contro le istituzioni interne e la vita pacifica di famiglia privata, né contro le persone private».
Il tribunale della storia
Ma con la Prima e poi la Seconda guerra mondiale questo residuo di ottimismo espresso da Hegel è venuto definitivamente a mancare i processi materiali fattisi nel frattempo sempre più pervasivi e le ideologie come «potenze materiali» di completamento (G. Lukacs) hanno squarciato quell’ultimo velo di Maya. Le popolazioni inermi nel Novecento e in questo scorcio di secolo attuale sono state deliberatamente prese di mira e sterminate, senza compassione alcuna.
Dunque, le piste di emancipazione possibili contenute in embrione nei Lineamenti sono state disattese e in parte rovesciate. Le due principali indicazioni di conferire più poteri agli organismi internazionali e più contenuto etico e dunque umano agli Stati sono stati clamorosamente smentiti dall’unico vero tribunale, quello della storia. Gli Stati oggi nella migliore delle ipotesi governano per il mercato, come candidamente asserito dall’allora cancelliere Angela Merkel, nelle sue sempre più accentuate proiezioni mercatiste globali. Riguardo poi gli organismi internazionali, sarebbe dovuto essere il destino dell’Onu, che per certi versi e fino ad un certo punto ha beneficiato della guerra fredda e della suddivisione in blocchi ideologici contrapposti; per essere relegata dopo la caduta dell’URSS e il varo della globalizzazione a trazione statunitense ad un ruolo via via sempre più marginale, quasi di solo magistero etico-morale. Ne abbiamo una ennesima riprova in queste ultime ore con una dichiarazione che ne certifica l’impotenza (ONU: «L’umanità è sul filo del rasoio»). Uno Stato universale, unico, è poi per Hegel oltreché un’aberrazione concettuale, essendo lontano anni luce dal suo concetto di «universale concreta», una impossibilità sul piano operativo. In quanto lo Stato è un grande individuo, «e quindi è esclusivo». Ogni Stato è geloso custode della propria sovranità, in quanto in essa ritrova con giusta ragione la propria ragion d’essere e di esistere.
Il mondo multipolare che sia pure fra mille contraddizioni e travagli sta prendendo forma potrebbe segnare paradossalmente fuori tempo massimo il rilancio dell’ONU che senza assurgere a distopico Stato mondiale avrebbe il compito, su mandato dei circa duecento Stati che lo compongono, di emettere sentenze e comminare pene in grado di far rispettare con l’uso necessario sia pur proporzionato della forza. Di una forza autonoma e superiore a quella esercitabile dai singoli Stati in un quadro di crescente disarmo multilaterale.