«Tra il 1992 e il 1995 lo smantellamento dell’Unione Sovietica è del suo apparato produttivo porta a un vero e proprio crollo del tenore di vita. Ma dal 2000 in avanti il reddito pro capite riprende a crescere e oggi si attesta al 70% circa di quello dell’Europa occidentale, a parità di potere d’acquisto, mentre scende a un livello due volte più basso se lo si calcola in base al tasso di cambio corrente, data la debolezza del rublo. Nel complesso, se è vero che la situazione è mediamente migliorata dopo la fine del comunismo, di fatto il bilancio complessivo appare estremamente modesto, tanto più che le disuguaglianze sono drammaticamente aumentate. (…)
Questo si deve soprattutto alla scelta, operata dai governi prima di Eltsin e poi di Putin, di lasciar crescere a dismisura l’elusione della normativa fiscale nazionale mediante strutture offshore e asset localizzati nei paradisi fiscali. Oltretutto, questa situazione è aggravata dal fatto che il regime post comunista ha rinunciato a ogni ambizione non solo in fatto di redistribuzione del reddito, ma anche in fatto di registrazione dei redditi e dei patrimoni. Nella Russia post comunista, per esempio, non esiste alcuna imposta sulle eredità per cui, non sono disponibili neppure le statistiche pubbliche sui trasferimenti successori. Esiste un’imposta sul reddito ma è strettamente proporzionale, e dal 2001 l’aliquota applicata è pari ad appena il 13% (che si abbia un reddito di 1000 rubli o di 100 miliardi di rubli).
Nessun paese si è spinto così lontano nello smantellare l’idea stessa di imposta progressiva. Negli Stati Uniti (…) i tassi applicati ai redditi più bassi sono rimasti inferiori a quelli riservati ai redditi più elevati; inoltre, quando ne hanno avuto l’occasione, le amministrazioni repubblicane hanno ridotto le aliquote sui redditi più elevati al 30-35%, ma non al 13%. Una flat tax (tassa piatta, o imposta proporzionale) al 13% scatenerebbe una forte opposizione negli Stati Uniti, ed è difficile immaginare quale maggioranza elettorale e ideologica potrebbe mai approvare una misura del genere (almeno per il prossimo futuro). Il fatto che una simile politica fiscale sia stata adottata in Russia dimostra come il post-comunismo rappresenti l’apice dello strappo ultraliberista fondato sulla disuguaglianza, verificatosi negli anni ottanta-novanta del Novecento. (…)
La rapidità della transizione verso una situazione di disuguaglianza osservata nella Russia post-comunista tra 1990 e 2000 – del tutto inedita a livello mondiale, come testimonio i dati storici raccolti nel database WIDworld – attesta alla peculiarità della strategia economica seguita per passare dal comunismo al capitalismo. (…)
La Russia ha optato per la famosa “terapia d’urto”: con il sistema dei voucher istituito tra il 1991 e il 1995, ha privatizzato in pochi anni la quasi totalità dei beni pubblici (con espressione inglese, questa fu definita voucher privatization). In linea di principio, ogni cittadino Russo aveva a disposizione un “buono di privatizzazione” che gli avrebbe permesso di diventare azionista di un’impresa a sua scelta. Ma in pratica, in un contesto di iperinflazione (nel 1992 si ebbe un aumento dei prezzi di oltre 2500%) in cui i salari e le pensioni avevano un potere d’acquisto pressoché nullo, migliaia di persone anziane o disoccupate si videro costrette a vendere loro effetti personali sui marciapiedi di Mosca per tirare avanti. Per contro, il governo Russo offriva condizioni vantaggiose a un nocciolo duro di azionisti che si proponevano di acquistare grossi pacchetti di azioni dagli altri cittadini. A quel punto successe quello che c’era da aspettarsi in una situazione del genere. In pochi anni, gran parte delle imprese russe, soprattutto nel settore dell’energia, cadde nelle mani di quei pochi e abili azionisti che erano riusciti ad acquisire a basso prezzo i voucher di milioni di russi, diventando così in breve tempo i nuovi oligarchi del paese.
Secondo le classifiche pubblicate dalla rivista Forbes, in pochi anni la Russia divenne il leader mondiale dei “miliardari” di ogni categoria. All’inizio degli anni novanta del secolo scorso, il paese naturalmente non ne contava nessuno, in quanto la proprietà era solo pubblica. Nel corso del decennio 2000-2010, la ricchezza totale dei miliardari russi (almeno di quelli analizzati da Forbes) ha raggiunto all’incirca l’equivalente del 30 40% del reddito nazionale russo, un livello tre-quattro volte superiore a quello osservato negli Stati Uniti, in Germania, in Francia e in Cina. Sempre secondo la vista Forbes, questi miliardari risiedono per la stragrande maggioranza in Russia, dove negli ultimi vent’anni si sono arricchiti, soprattutto dopo l’avvento al potere di Vladimir Putin. (…)
La particolarità della Russia nel periodo 2000-2020 è data dal fatto che il paese e le sue ricchezze sono in gran parte nelle mani di un piccolo gruppo di proprietari molto facoltosi, residente in Russia o in possesso di una doppia residenza (divisa tra Russia e Londra, Monaco, Parigi o Svizzera). Le loro proprietà sono organizzate in strutture giuridiche (società di comodo, trust ecc.) localizzate in vari paradisi fiscali, in modo da poter eludere eventuali modifiche del sistema legale e fiscale Russo (peraltro poco attento alla questione) (…)
La portata macroeconomica delle fughe di capitale ha fatto della Russia un caso a sé.
Da un lato, per la consistenza delle distrazioni di fondi; dall’altro, per il fatto che il paese ha realizzato nel corso del periodo 1993-2018 enormi eccedenze commerciali: in media circa 10% del prodotto interno lordo annuo nei 25 anni in esame, per un totale di circa 250% del PIL (due anni e mezzo di produzione nazionale). In altre parole, dall’inizio degli anni novanta del secolo scorso, le esportazioni russe – soprattutto di gas e petrolio – hanno superato massicciamente le importazioni di beni e servizi. In linea di principio, ne consegue che il paese avrebbe dovuto accumulare enormi riserve finanziarie, indicativamente del medesimo ordine di grandezza. Invece, nel 2018 le riserve ufficiali della Russia risultano inferiori al 30% del PIL russo. Manca perciò qualcosa come il 200% del PIL russo, senza tener conto del reddito prodotto da questi beni. (…)
Le altre fonti che consentono di comprendere (e di confermare) l’entità delle distrazioni di fondi russe – e, a un livello più generale, lo sviluppo senza precedenti dei paradisi fiscali su scala planetaria a partire dagli anni ottanta-novanta del secolo scorso – sono rappresentate dalle incoerenze nelle statistiche finanziarie internazionali. Le bilance dei pagamenti dei paesi permettono, in teoria, di misurare i flussi finanziari in entrata e in uscita, e soprattutto i flussi in entrata e in uscita dei redditi da capitale (dividendi, interessi, profitti di ogni genere). In linea teorica, a livello mondiale il totale dei flussi in entrata e in uscita dovrebbe bilanciarsi ogni anno. La complessità di queste operazioni statistiche potrebbe ovviamente comportare alcuni piccoli scarti, che tuttavia si dovrebbero compensare tra loro e annullarsi nel tempo. A partire dagli anni ottanta e novanta del secolo scorso, i flussi in uscita dei redditi da capitale superano i flussi in entrata. Anomalie che consentono di valutare che, all’inizio degli anni dieci del Duemila, gli asset finanziari detenuti nei paradisi fiscali e non registrati negli altri paesi raggiungevano quasi il 10% del totale degli asset finanziari mondiali. Inoltre, tutto indica che tale quota abbia continuato a crescere. Utilizzando i dati resi pubblici dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) e della Banca Nazionale Svizzera (BNS), si può stimare la quota approssimativa degli asset offshore detenuti nei paradisi fiscali rispetto al totale degli asset finanziari (legali e illegali)in possesso dei residenti per ogni singola nazione. La percentuale è “soltanto” del 4% negli Stati Uniti, del 10% in Europa, del 22% in America Latina, del 30% in Africa, del 50% in Russia e del 57% nelle monarchie petrolifere. (…)
Torniamo ai motivi che hanno portato la Russia post-comunista a diventare il paese degli oligarchi e della cleptocrazia, dopo essere stata la terra di soviet e dell’uguaglianza monetaria. (…)
La scelta della “terapia d’urto” nella transizione post Sovietica fu oggetto all’inizio degli anni novanta del secolo scorso – momento in cui il paese si trovava in una situazione di estrema debolezza – di un conflitto breve mai intenso. Tra i fautori della “terapia d’urto” vi erano numerosi esponenti dei governi occidentali (in particolare quello statunitense) e delle agenzie e organizzazioni internazionali con sede a Washington, a cominciare dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. L’idea di base era che una rapidissima privatizzazione dell’economia russa fosse l’unico modo di garantire l’irreversibilità dei cambiamenti in corso e impedire un possibile ritorno al comunismo. (…) Sarebbe tuttavia eccessivo attribuire queste scelte politico-ideologiche unicamente alle influenze provenienti dall’estero. In realtà, furono anche (e soprattutto) l’esito di conflitti interni alla società russa. Negli anni ottanta del Novecento, Gorbacev aveva tentato – senza successo – di promuovere un modello economico che tutelasse valori del socialismo, pur favorendo una certa apertura sia alle cooperative, sia a forme regolamentate (e spesso mal definite) di proprietà privata. Ma altri gruppi all’interno della struttura di potere russa – specie quelli provenienti dall’apparato di sicurezza –, erano di tutt’altra opinione. Sotto questo aspetto, le analisi presentate da Vladimir Putin nell’intervista-documentario realizzata nel 2017 dal regista Oliver Stone (peraltro molto “putiniano”) sono particolarmente rivelatrici. Putin schernisce le “manie” egualitarie di Gorbacev e la sua ossessione di salvare il socialismo negli anni ottanta (…)
Putin conclude che solo una rinuncia senza riserve a qualsiasi forma di egualitarismo e di socialismo avrebbe permesso di ristabilire la grandezza della Russia, che esige innanzitutto una struttura di tipo verticale fondata sulle gerarchie, sia sul piano politico sia su quello finanziario e azionistico. (…)
Ora, se guardiamo al futuro, ci si può chiedere perché i paesi dell’Europa occidentale non sembrino troppo interessati all’origine della ricchezza degli oligarchi russi, e perché siano tanto tolleranti verso un volume così enorme di distrazioni di fondi. Una possibile spiegazione è che questi paesi sono da un lato (almeno in parte) all’origine della “terapia d’urto” e dall’altro hanno beneficiato delle fughe di capitali dei ricchissimi oligarchi russi (attraverso investimenti nei settori immobiliare, finanziario, sportivo e, talvolta, in quello dei media). È il caso del Regno Unito, ma anche della Francia e della Germania».
[estratto da Thomas Piketty, Capitale e ideologia, La Nave di Teseo, 2020]