La Commissione europea ha presentato, a inizio novembre 2022, una proposta informale di revisione delle regole fiscali (Patto di stabilità e crescita), ampiamente commentata in questo numero di Fuoricollana.it dai contributi di Salmoni e D’Antoni. Nella proposta troneggia un vuoto imbarazzante: il ruolo della politica monetaria e della BCE, di cui nulla si dice, se non con un minimo accenno in una breve nota a piè pagina. Il che vale a confermare l’impostazione vigente dei trattati, che è anche il tallone d’Achille del modello di Maastricht: la netta separazione tra politica monetaria e politiche economiche e di bilancio, con la prima affidata a una Banca centrale assolutamente indipendente e le seconde ai singoli Stati membri (Dani).
Il figurino sempre più logoro della separazione tra politica monetaria ed economica
Le politiche economiche e, soprattutto, quelle fiscali sono, in realtà, sottoposte al coordinamento delle istituzioni europee, ma si tratta di un coordinamento sbilanciato sul versante del rigore di bilancio imposto agli Stati. Questi ultimi non possono perseguire politiche autenticamente espansive – di stampo keynesiano –, pena l’interferenza con l’obiettivo primario della politica monetaria, cioè la stabilità dei prezzi. La BCE, in altri termini, non deve essere influenzata dalla necessità di fiancheggiare politiche di bilancio “deficit-spending”, posto che una crescita eccessiva del debito pubblico in alcuni Stati la costringerebbe a fiancheggiare questi ultimi con politiche monetarie espansive e, così, a deviare dal suo obiettivo primario di lottare contro l’inflazione, privandola sostanzialmente della sua autonomia di scelta. L’esito dell’assetto attuale è quello della c.d. “monetary dominance”, ossia di un predominio della politica monetaria su quella fiscale (Chessa).
Questo figurino della politica monetaria indipendente e votata al rigore, come noto, si è assai deformato durante la crisi dei debiti sovrani (il Quantitative easing lanciato nel 2015 da Mario Draghi) e, ancor di più, durante la crisi pandemica (il Pandemic Emergency Purchase Programme del 2020), quando la BCE ha acquistato ingenti quantità di debito pubblico degli Stati più esposti sui mercati finanziari. Ne è derivato un inevitabile sconfinamento della politica monetaria in quella economica, cui ha reagito con crescente virulenza il Tribunale costituzionale tedesco, fino alla dichiarazione di guerra del noto caso Weiss del 5 maggio 2020, con cui i giudici costituzionali tedeschi hanno apertamente accusato la BCE (e la Corte di giustizia che l’ha fin qui supportata) di violare i trattati e la Legge fondamentale tedesca. Sconfinare nella politica economica, sia pure al dichiarato fine di preservare la stabilità finanziaria dell’intera eurozona, infatti, comporta per la BCE l’invasione della sfera decisionale rimessa al circuito democratico dei singoli Stati, in assenza di qualsiasi responsabilità politica. L’assunto è, invero, controvertibile, posto che anche le scelte rigoriste della BCE comportano delle pesanti ricadute asimmetriche sulle economie nazionali, avvantaggiando gli Stati “creditori” e penalizzando i “debitori” (come accadde con la BCE di Trichet e del primo Draghi: Modi). Ma si tratta di un dilemma irrisolvibile nell’attuale assetto dei trattati europei.