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cultura politica e costituzionale

IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

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IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il declino del modello tedesco e il Rapporto Draghi

Secondo D’Angelillo e Paggi, senza un’analisi critica delle politiche Ue, le proposte del rapporto Draghi rischiano di diventare pura demagogia intellettuale e politica. Le vie dello sviluppo passano necessariamente per la pace, la cooperazione e un nuovo potere contrattuale del lavoro

Draghi si conferma parte di una classe dirigente europea alla quale i risultati storici della seconda guerra mondiale, resi ancora più cogenti dalla sparizione dell’Unione sovietica, impediscono tuttora di avere un pensiero politico autonomo sui destini del nostro continente (…)

Venendo al cuore della questione, ossia l’origine della stagnazione della produttività, Draghi sceglie di rimanere sostanzialmente all’ interno dell’ottica dell’impresa, assumendo la prospettiva dell’offerta come cifra esclusiva della sua proposta. Il Rapporto si apre indicando di punto in bianco l’intelligenza artificiale, l’energia intesa come decarbonizzazione e la tecnologia digitale come componente essenziale dell’industria della difesa, come “tre aree di intervento per rilanciare la crescita”. Manca il quadro di riferimento macroeconomico all’interno del quale si pensa che la ripresa della produttività debba avvenire. Da qui un contrasto che pervade tutto il testo: da un lato l’affermazione giustamente allarmata che in discussione sia il mantenimento stesso dei risultati storici conseguiti, dall’altro il suggerimento di rimedi volti esclusivamente a migliorare l’efficienza tecnologica vista come una sorta di dato esogeno rispetto al sistema economico.

La rimozione delle cause sociali e politiche della caduta della produttività

Non si capisce la caduta della produttività che si sviluppa ininterrottamente in Europa nel corso dell’ultimo trentennio se non si pone al centro la contrazione della domanda aggregata (consumi + investimenti) quale avanza lungo due direttrici: a) una progressiva riduzione della massa salariale come risultato di un attacco frontale alla forza di contrattazione del lavoro, che prende corpo all’inizio degli anni Ottanta per proseguire poi anche attraverso una legislazione rivolta esplicitamente ad incentivare la precarizzazione. La mancanza di qualsiasi pressione del salario sul profitto che ne è scaturita ha cancellato uno dei più importanti incentivi al progresso tecnologico (come aveva argomentato Nicholas Kaldor già negli anni Cinquanta esponendo il suo modello di crescita); b) la crescente diminuzione degli investimenti pubblici causata dal libero movimento dei capitali che toglie agli stati nazionali il controllo dei flussi finanziari e quindi del debito. Il fenomeno è istituzionalizzato da Maastricht che stabilisce un rapporto obbligato tra debito e Pil mentre la missione fondamentale della Bce, a differenza della Fed americana, non è la crescita economica, ma la lotta all’inflazione. L’obiettivo della stabilità, frutto in questo caso di un’autonoma volontà europea, è stato raggiunto, ma pagando il prezzo della stagnazione e della retrocessione dei sistemi di stato sociale.

(…)

L’utopia reazionaria del mercato autoregolato

Del resto, sembra che la cultura economica mainstream non riesca ancora a realizzare che la sconfitta subita dall’insieme della economia occidentale nel processo di globalizzazione, con ripiegamenti su posizioni esplicitamente protezioniste, ha la sua origine principale nella debolezza propulsiva del modello liberista. Non è stato retto il confronto con modelli fortemente dirigisti vigenti in “altre” parti del mondo, capaci di garantire un alto flusso di investimenti  indirizzati con criteri strategici nei settori volta a volta più idonei a realizzare aumenti impetuosi della produttività e della competitività.

L’economia europea era- fino all’inizio della guerra russo-ucraina- ben rappresentata da quella tedesca caratterizzata da un basso contenuto della domanda interna controbilanciato da un volume abnorme delle esportazioni pari al 50% del Pil. È stato questo il modello che si è voluto imporre a tutto il continente provocando in contesti più fragili, il nostro paese ne ha fatto diretta esperienza, restrizione ingiustificata della base produttiva e polverizzazione del sistema delle imprese. Qui deve essere ricercata l’origine prima di quella crescente diseguaglianza sociale che Draghi paventa, ma che invece di essere una temibile prospettiva futura è una realtà già consolidata

Insufficienza della domanda aggregata, dovuta sia alla contrazione del volume della massa salariale che alla progressiva diminuzione dell’investimento pubblico, e produttività decrescente, sono insomma legati tra loro in un nesso indissolubile che è indispensabile cogliere se si vuole delineare lo spazio di una riflessione di lungo periodo e aprire il dibattito sul futuro sempre più incerto della nostra vecchia Europa.

Maastricht è però anche, in quanto realizzazione effettiva della utopia reazionaria del mercato autoregolato, istituzione della governance secondo regole precostituite e liquidazione radicale della politica, senza la quale non si vede come possa essere affrontato, ad esempio, quel problema della decarbonizzazione su cui il rapporto si sofferma a lungo. Ormai è chiaro che nessuna industria automobilistica europea (inclusa Volkswagen con i suoi milioni di vetture vendute in tutto il mondo) è in grado da sola di produrre un’auto elettrica. C’è in primo luogo un problema di reperimento di materie prime estremamente rare come il litio che non può essere prerogativa delle imprese. Ma c’è anche un problema di progettualità comune, di cooperazione politica tra culture, esperienze e saperi nazionali- quella pluralità che ha fatto la forza dell’Europa, di cui Maastricht vieta persino la menzione.

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La guerra e la crisi del modello tedesco

Il decano degli economisti tedeschi Hans WernerSinn, una delle poche voci fuori dal coro, ha parlato dell’embargo alla Russia come di una “trappola”. La crisi in cui versa oggi l’economia tedesca ha posto fine a ogni discussione. Ma la cultura economica tedesca ha impiegato molto tempo per realizzare la profondità del vulnus inferto al paese, reso plasticamente evidente dal sabotaggio dei due gasdotti. Si è intrattenuta anzi per mesi con l’idea che la guerra avesse creato nuove possibilità, mentre nella cultura anglosassone si è parlato a lungo della Germania, come “malato d’Europa”, con un evidente compiacimento per la cattiva sorte di un modello organizzativo sentito come irriducibilmente diverso. Persino il recente volume che la rivista Limes ha dedicato al problema, La Germania senza qualità, sembra non realizzare appieno la profondità e l’estensione della cesura che la guerra ha introdotto nella vita dell’economia tedesca ed europea.

Abbiamo già ricordato il limite profondo del modello tedesco e del condizionamento sull’insieme della economia europea che esso ha esercitato. E tuttavia non si può nemmeno dimenticare che nel contesto di mercato autoregolato imposto da Maastricht, che esclude preventivamente qualsiasi politica di domanda, un alto flusso di esportazioni è l’unico modo per garantire crescita economica. Colpire la competitività delle esportazioni e ridurre drasticamente i suoi spazi di mercato ha significato nella situazione attuale mettere a rischio l’insieme della economia tedesca, insostituibile centro di raccordo di quella europea, toccandola nel suo punto più debole.

A questo proposito stupisce come il Rapporto, che focalizza esclusivamente sulla relazione tra economia UE e economia Usa, non faccia nemmeno parola della Cina, che in virtù della sua economia a differenza di quella Usa prevalentemente manifatturiera, rappresenta il nostro più temibile competitore. Per noi europei, a cui non è dato schierare portaerei nei mari del Pacifico, il confronto con la Cina può essere affrontato e risolto solo in termini di struttura produttiva. L’indebolimento della forza competitiva dell’economia europea provocata dalla guerra deve dunque essere visto anche alla luce dei grandi rischi impliciti in un duello commerciale aperto almeno da un ventennio.

Conclusa la fase della subfornitura la Cina investe ormai massicce risorse in ricerca e sviluppo, e laurea annualmente un milione di ingegneri, oltre tre volte quelli che si laureano in Usa (circa 300mila) e più di quindici volte quelli che si laureano in Germania (circa 60 mila). L’Europa ha già ceduto alla Cina la leadership nelle tecnologie delle energie pulite (fotovoltaico e eolico), nei droni ad uso civile, nella produzione di acciaio, alluminio e rame, nella cantieristica, nelle auto elettriche, negli smartphone, ecc. E’ un ritmo di crescita che crea per l’Europa il rischio di passare da una posizione di fornitore e partner ad una di follower.

L’assenza di materie prime e il calo demografico (che tocca certamente anche la Russia e la Cina) sono due fattori strutturali che rendono ancora più fragile la competitività della manifattura europea.

La crisi dell’asse franco-tedesco e il successo del populismo di destra

La guerra sta tuttavia colpendo anche la dimensione politica dell’Unione. L’aumento del senso di precarietà e di incertezza sul futuro rende sempre più attraente l’agenda demagogica del populismo di destra che si espande a macchia d’olio rendendo sempre più complicata e incerta la vita dell’Unione ostinatamente ferma al principio della unanimità nelle votazioni. In particolare è entrato definitivamente in crisi l’asse franco-tedesco che per decenni ha rappresentato una garanzia di continuità ordinata del processo europeo. E’ venuta meno quella divisione di poteri per cui la Germania curava in modo particolare la sua presenza nell’Europa orientale e la Francia nel Mediterraneo. La fine improvvisa del modello economico tedesco sta determinando una vistosa delegittimazione della direzione politica del paese. Lo stesso fenomeno si presenta in Francia, dove è invece la protesta sociale creata dalla politica di austerità che ha fatto saltare il compromesso moderato di Macron, con effetti che si riverberano ora sullo stesso funzionamento istituzionale della V Repubblica.

Il gioco al massacro dell’Europa

In questa situazione il pervicace perseguimento Usa di una politica muscolare di potenza, con la creazione di una nuova cortina di ferro che oltre la Russia coinvolge tutto il mondo non occidentale, si traduce in un gioco al massacro dei più vitali interessi economici dell’Europa, strutturalmente bisognosa di interlocuzione e coesistenza, e accelera la crisi dei sistemi democratici già messi a dura prova dalla austerità di Maastricht. Gli Stati Uniti, che sono stati dopo la seconda guerra mondiale un fattore essenziale della trasformazione della economia e della società europea, sembrano oggi remare alacremente in direzione contraria ai più fondamentali interessi del suo principale alleato.

La mancata analisi degli effetti economici e politici della guerra si riflette negativamente nel modo in cui viene impostato il problema della difesa europea cui il rapporto dedica ampio spazio. In proposito bisogna distinguere l’aspetto politico dall’aspetto economico. Per quanto riguarda il primo, il Rapporto riecheggia il tema diffuso di un presunto nuovo protagonismo militare europeo che la guerra dovrebbe suscitare, aprendo imprecisati nuovi spazi alla iniziativa Ue. Dal 1949, la difesa europea è saldamente garantita dalla Nato, alleanza militare sorta per fronteggiare la minaccia rappresentata dalla Unione sovietica, ma che proprio dopo la sua sparizione ha conosciuto uno sviluppo impetuoso sia come reclutamento di sempre nuovi paesi sia come estensione del sistema delle basi militari. Solo per fare un esempio, al bombardamento Nato di Belgrado del 1999 fece immediatamente seguito la costruzione in Kossovo di quella che è oggi la più grande base militare in Europa, la cui sola presenza ha trasformato i Balcani in un luogo ad alta sensibilità strategico- militare.

Quello che allora la nuova situazione geopolitica creata dalla guerra ci chiede (lo ha detto più volte Trump, che è forse improprio pensare come un isolazionista) è un aumento del contributo che l’Europa deve versare agli Usa per la propria protezione, inevitabilmente tanto più costosa quanto più aspro sarà il livello dello scontro internazionale. E’ quello che stiamo già ampiamente facendo decurtando ulteriormente i bilanci pubblici già resi magri dalla politica di austerità.

L’aumento delle tensioni internazionali, allora, ben lungi dall’aumentare lo spazio di un protagonismo europeo (si pensi alla affermazione di una nuova improrogabile necessità di una difesa UE) accentua visibilmente la dipendenza e la subalternità del vecchio continente quale si è storicamente determinata con i risultati della seconda guerra mondiale. Da due anni la politica estera della UE è annunciata nei briefing del segretario della Nato e ripetuta con convinta enfasi dai presidenti della Commissione e del Consiglio europei.

Il miraggio dello sviluppo trainato dalla spesa militare

Per quanto riguarda l’aspetto economico è indubbio che la spesa militare, che non è acquisto di armi progettate e costruite altrove, è sempre foriera di progresso tecnologico. L’intelligenza artificiale fa la sua prima apparizione con la cibernetica nella industria bellica della seconda guerra mondiale. Internet nasce come Arpanet alla fine degli anni Settanta come circuito di comunicazione alternativo nel caso di attacco atomico. Per non parlare della bomba atomica. Ma per tutto questo ci vogliono i grandi investimenti pubblici, ci vuole la vecchia onnipotenza dello stato, così caduta in disuso nella retorica politica liberista, ma non per questo venuta meno nella prassi dei grandi Leviatani che decidono delle sorti del mondo. Nemmeno le grandi imprese americane sarebbero capaci di progresso tecnologico senza il continuo input del bilancio e della ricerca federale.

Rimane allora da considerare la spesa per armi come componente della domanda effettiva, che è quanto Draghi propone quando afferma: “L’industria della difesa necessita di investimenti massicci per recuperare il ritardo. Come riferimento se tutti gli stati membri dell’UE che sono membri della NATO e che non hanno ancora raggiunto l’obbiettivo del 2% lo facessero nel 2024, la spesa per la difesa aumenterebbe di 60 miliardi euro”. Figuriamoci, aggiungeremmo noi, se andasse avanti la proposta di arrivare al 5% del PIL, come richiesto da Trump! Indubbiamente lo sviluppo Usa si è intrecciato strettamente per anni con la continua produzione di armi richiesta dalla prassi della deterrenza che ha guidato tutta la guerra fredda. La spesa per armi è in effetti una componente eccezionalmente dinamica della domanda per la sua continua ripetibilità dovuta alla rapida obsolescenza tecnologica e alla necessaria reintegrazione del materiale distrutto.

Ma ancora una volta torna il carattere decisivo del quadro macroeconomico di riferimento. La spesa militare è inserita nella cornice di Maastricht ed è quindi soggetta ad uno stringente vincolo di pareggio dei conti pubblici anche se pare che la tradizionale avversità della Germania e dei paesi frugali potrebbe sbloccarsi con la emissione di un grande prestito europeo destinato a finanziare il riarmo della UE.

In assenza di una autonomia strategica militare europea, e quindi anche di una politica industriale che pianifichi (come negli Usa o in Cina) le ricadute delle tecnologie militari sulle applicazioni industriali, quali effetti avrebbe questo straordinario programma per il riarmo? Probabilmente solo quello di generare una gigantesca domanda per i sistemi d’arma americani, e in minima parte per quella dei pochi paesi europei (Germania in primis) dotati di alcune tecnologie di punta. La mobilitazione di risorse finanziarie europee a favore delle importazioni contribuirebbe a deprimere ulteriormente la domanda interna.

Una sfida da raccogliere per opporsi allo stato di cose esistente

Detto tutto questo, il Rapporto Draghi rappresenta una provocazione e una sfida per tutte le forze che in Italia e in Europa si oppongono allo stato di cose esistente. La lunga campagna elettorale per le elezioni europee è stata una somma di dibattiti nazionali privi di qualsiasi comunicazione.

Draghi cerca di disegnare a suo modo i confini di un interesse strategico europeo e indica nel rapporto con gli Usa un termine di confronto ineludibile. Lo fa assumendo come irreversibile lo stato di guerra che si è determinato in Europa orientale e Medio Oriente, che gli Stati uniti hanno voluto almeno fino ad oggi protrarre e legittimare con il profluvio delle loro armi. A noi tocca contro argomentare che proprio l’esperienza del passato sta a dire che le vie dello sviluppo sono quelle della pace e dell’interscambio economico con il maggior numero possibile di paesi, che le risorse create dalle armi sono infinitamente minori e più aleatorie di quelle che possono scaturire dalla soddisfazione dei bisogni più elementari dell’umanità, dalla costruzione di ospedali e di scuole, all’aumento della nostra ricerca scientifica, al miglioramento del livello professionale della nostra forza lavoro.

I vuoti di analisi del rapporto che abbiamo cercato di mettere in evidenza, e quindi la fragilità delle alternative che esso intende prospettare, ricordano ancora una volta che l’unica opzione possibile è quella di riaprire il discorso su Maastricht, prendendo nello stesso tempo piena coscienza dei disastri creati in economia e in politica dall’azzeramento di ogni potere contrattuale del lavoro.

[Il saggio di Massimo D’Angelillo e Leonardo Paggi è apparso in due puntate nel Menabò (13 e 28 dicembre 2024)  del sito Eticaeconomia: https://eticaeconomia.it/menabo/menabo-n-227-2024/  ; https://eticaeconomia.it/menabo/menabo-n-228-2024/]

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