IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il doppio declino dell’economia italiana

Il primo storico declino dell’economia italiana prende forma tra il Cinquecento e il Seicento, il secondo negli ultimi decenni dello scorso secolo. Ad accomunare i due declini, il tradimento della borghesia e la debolezza delle classi dirigenti.

Due crisi economiche, di diversa natura e molto distanti tra di loro nel tempo, ma che riguardano comunque l’Italia. La prima, che si manifesta tra Cinquecento e Seicento, avrà effetti duraturi per parecchi secoli. La seconda, che si è dispiegata negli ultimi decenni, speriamo che duri molto di meno. Appare complicato trovare degli elementi comuni tra i due accadimenti, se non il cumularsi e il legarsi di ragioni economiche e politiche, esterne ed interne al paese, la debolezza persistente delle classi dirigenti del paese, quel “tradimento della borghesia” di cui parlano alcuni storici.

Il Medioevo, il Rinascimento e il primato italiano

Come è noto, è stato soprattutto il grande storico francese Fernard Braudel a mettere in rilievo come il capitalismo e la borghesia, due fenomeni comunque inseparabili, siano sostanzialmente nati ed abbiano compiuto i loro primi passi in Italia. È in particolare dai secoli XII e XIII in poi che in alcune località del nord del paese, da Firenze a Venezia, a Genova, a Milano, si sviluppa una classe di mercanti e banchieri dalle più varie origini sociali. Non mancherà anche qualche elemento proto industriale (con connessi problemi ambientali); si pensi soltanto ai 60.000 addetti del tessile a Firenze e dintorni o alle migliaia di operai che facevano funzionare l’Arsenale di Venezia, mentre Milano si avvicinava a quella che avrebbe potuto essere una vera e propria rivoluzione industriale. Le città italiane, insomma, sia pure alternandosi tra di loro nel tempo come importanza relativa, sono per alcuni secoli al centro dei traffici commerciali e finanziari che si svolgono in Europa e nel Mediterraneo, in collegamento con l’Asia e la via della seta.

Un colonialismo precoce

La borghesia italiana si sviluppa rompendo lentamente e progressivamente, i tradizionali equilibri di una società aristocratico-agraria, di cui pure ambirà sempre di far parte, e questa sarà la prima tappa di un lungo percorso di crescita dell’economia occidentale che vedrà alla guida dei suoi sviluppi ulteriori di seguito nel tempo l’Olanda, poi la Gran Bretagna, infine gli Stati Uniti. Questo processo di sviluppo centrato sull’Italia si svolgerà, oltre che avendo l’Europa come mercato di base, anche in stretto collegamento con il lontano Oriente (Cina ed India in particolare), area di origine fondamentale delle merci per quasi tutti i tempi della Storia.
La borghesia italiana anticipa, d’altra parte, in nuce quei caratteri negativi che caratterizzeranno in seguito tutti i paesi occidentali. In particolare, essa sfrutta senza pietà i piccoli artigiani e i lavoratori dipendenti, come esemplarmente mostra la spietata repressione a Firenze della rivolta dei Ciompi del 1378. A tali moti parteciparono soprattutto i dipendenti dell’arte della lana che chiedevano il diritto di associazione e di partecipazione alla vita pubblica. Intanto, oltre a combattersi in lotte intestine, veneziani e genovesi inventano inoltre una sorta di “colonialismo precoce”, come lo definirà una storica francese, Catherine Otten-Froux. Occupano militarmente delle isole dell’Adriatico e del Mediterraneo Orientale e le sfruttano economicamente in maniera spietata, tanto che quando arriveranno qua e là i turchi saranno accolti come liberatori dalle popolazioni locali.

I tradimenti della borghesia

È soprattutto in Italia che si sviluppa il primo di quei “tradimenti della borghesia” evidenziato dagli storici nel corso dei secoli. Da noi, infatti, la rottura degli equilibri tradizionali lascia presto il passo ad un’integrazione sempre più spinta e regressiva con le vecchie classi aristocratiche, i legami con la quale non si erano mai rotti del tutto, mentre nel Nord Europa c’era indubbiamente più distacco dagli elementi agrari. Il punto di riferimento, di gravitazione dell’assetto sociale e il riferimento fondamentale dei processi di ascesa sociale lo troviamo nel periodo nella condizione nobiliare. Da un certo punto in poi l’importante costruzione delle città italiane non regge più alla dinamica degli eventi. L’ultima resistenza si concentra in particolare a Genova, città il cui grande ruolo nell’economia e soprattutto nella finanza di quel tempo è stato anch’esso messo in rilievo da Braudel. Intorno al 1620 i banchieri genovesi che avevano controllato per molti decenni i circuiti finanziari europei (e, in particolare i movimenti dell’oro e dell’argento americani, metalli che, incidentalmente, per i giochi dello scambio andranno poi a finire per la gran parte in Cina ed in India), davanti all’ennesima bancarotta della Spagna, il loro principale cliente, si ritirano dal mercato internazionale del denaro. Nei decenni successivi essi offrono ormai soldi in prestito localmente all’1% di tasso di interesse, ma nessuno li vuole più. E quando dopo qualche tempo sempre i genovesi armeranno di nuovo alcune navi per tentare di ravviare i traffici con l’Oriente, esse, appena uscite dal porto, saranno distrutte dalla flotta olandese, da quel paese che nel frattempo teorizzava con Grozio la libertà dei mari.

Le cause del primo declino economico

Il declino economico italiano è il frutto di diversi concomitanti fattori. Oltre allo sviluppo di altri paesi, a partire dall’Olanda, contribuiranno a provocare il crollo delle esportazioni italiane, che pesavano per tanta parte nella prosperità dell’area, anche le bancarotte spagnole e francesi, nonché le difficoltà della Germania. Parallelamente agisce la crisi dei mercati dei beni di lusso, nei quali il paese è specializzato e l’affermarsi di prodotti di minore qualità, ma a prezzi più contenuti. V’è poi l’apertura delle rotte atlantiche che mettono tendenzialmente in secondo piano, con il tempo, il Mediterraneo; mentre per altro verso, la rivoluzione dei prezzi innescata dalla scoperta dell’America svaluta il capitale dei vecchi finanzieri e fa salire i salari nel mondo latino più rapidamente che non nei paesi del Nord. I cantieri italiani non reggono più la concorrenza di quelli del Nord ed anche le tecniche di navigazione non seguono le novità. E poi v’è l’affermarsi della potenza turca, che compromette gravemente il traffico commerciale tramite la vecchia via delle Indie, dalla quale venivano i preziosi beni che gli italiani commercializzavano, con o senza ulteriori lavorazioni (spezie, seta, pietre preziose, e così via.). A questo desolante quadro, va aggiunta la perdita del peso politico delle città, con l’eccezione almeno in parte di Venezia, con l’Italia diventata ormai campo di lotta tra le potenze e monarchie europee, di fronte alla quali le città-Stato italiane appaiono ormai di dimensioni molto ridotte, poco dinamiche e capacità di rinnovare le strutture economiche interne.
Braudel ha parlato, a proposito del declino dell’economia in Italia e in Spagna nel Seicento, di tradimento della borghesia anche in un altro, anche se complementare, senso; in particolare viene messo l’accento sul fatto che i figli dei mercanti ne disdegnano la professione e pensano piuttosto a diventare gentiluomini, mentre altri privilegiano le rendite ai profitti (ma in realtà forse, più semplicemente, gli avvenimenti furono più grandi di loro ed era molto difficile dominarli). Per spiegare la crisi italiana altri studiosi hanno impiegato il cosiddetto modello della Path dependency. Esso fa riferimento al fatto che con il tempo i processi e le istituzioni di un paese, soprattutto quando esso ha successo, diventano rigidi ed inalterabili. Un fenomeno che Kindleberger definisce come “arteriosclerosi”. L’incapacità di trasformare le proprie strutture economiche, sociali, politiche, può diventare così con il tempo un handicap insormontabile. Alcuni storici hanno messo in rilievo come il declino italiano sia stato comunque abbastanza lento e come l’Italia abbia continuato ad essere ricca almeno sino alla metà del Seicento. Anche se il quadro è certamente peggiore per l’Italia Meridionale che perde gran parte dei suoi legami con le grandi città del Nord, prima abbastanza intensi e fruttuosi.

Stagnazione secolare, il miracolo finisce presto

Veniamo ora, con un salto, ai tempi nostri. Altri contributi, su questo stesso numero, analizzano con ricchezza di informazioni le ragioni del declino economico italiano degli ultimi decenni. Noi facciamo qui riferimento ad una sola semplice ipotesi, peraltro contestabile e contestata, quella della “stagnazione secolare”, fenomeno che non riguarderebbe peraltro soltanto l’Italia.
Una possibilità che ha in effetti in qualche modo affascinato diversi studiosi, in particolare anglosassoni, è quella che un virus diverso dal Covid si aggiri da tempo nei paesi ricchi e metta in crisi in modo duraturo le loro economie. Si tratterebbe, appunto, del virus della cosiddetta stagnazione secolare che avrebbe toccato progressivamente nel tempo prima il Giappone, poi l’Italia, mentre ora sarebbe il turno della Gran Bretagna. Tale virus apparirebbe particolarmente efficace, come il Covid, se coniugato con altre malattie pregresse.
Nel 1939 l’economista Halvin Hansen, indagando sulle ragioni della grande crisi del ‘29, si convincerà che essa era dovuta per la gran parte a quella che egli chiamò la tendenza alla stagnazione secolare delle economie avanzate, ovvero alla presenza di una spinta ad una loro bassa crescita economica di lungo periodo. Tale ipotesi verrà ripresa più recentemente da diversi autorevoli esponenti dell’establishment economico statunitense, tra i quali Ben Bernanke, già presidente della Federal Reserve statunitense e, soprattutto, in maniera molto convinta, da Larry Summers, già ministro nel governo Clinton, che più di recente si è fregiato del merito di avere predetto, inascoltato, la forte crescita del tasso di inflazione negli Stati Uniti.
Nella sua essenza la teoria afferma che i paesi ricchi tenderebbero a soffrire di un’alta propensione al risparmio e di una bassa propensione agli investimenti e che ciò deprimerebbe le prospettive di sviluppo di lungo termine dei vari paesi. Questo per molte ragioni, quale in particolare l’invecchiamento della popolazione. Noi aggiungere inoltre che tra gli investimenti, pur in generale depressi, prevalgono in Occidente sempre di più quelli di tipo finanziario a scapito di quelli più produttivi, come sottolineato recentemente anche dall’ultimo rapporto annuale dell’Unctad sugli investimenti esteri mondiali.
Un’altra e parallela dimensione dell’ipotesi della stagnazione secolare, con riguardo sempre agli investimenti, è stata messa in rilievo da un altro importante economista, Robert Gordon. Egli ha sottolineato come tale stagnazione sia prodotta dal fatto che negli ultimi decenni gli investimenti nelle nuove tecnologie ottengano dei risultati mediocri, dal momento che la crescita della produttività da essi indotta è vistosamente ridotta se confrontata con quella generata dalle invenzioni del XX secolo. Alla fine tale virus si starebbe, comunque, diffondendo lentamente ma progressivamente nei paesi avanzati.

All’inizio, il Giappone

Cominciamo da un paese asiatico. Tra il 1950 e il 1973 l’economia giapponese era cresciuta ad un tasso medio annuo dell’8,0%; e anche se successivamente tale dinamica di sviluppo si ridurrà in parte essa rimarrà sostenuta anche successivamente, tanto che negli anni ottanta quella giapponese appariva comunque l’economia più dinamica del pianeta, mentre si cominciava a pensare che essa avrebbe superato con il tempo anche quella americana. Ma poi arriva la grande crisi della fine degli anni ottanta, con un crollo verticale dell’economia e si può dire che essa, sia pure tra alti e bassi, non si riprenderà più veramente; così tra il 1992 e il 1999 la crescita media era scesa allo 0,8% annuo (nel 1997 la situazione si complica ancora con la crisi asiatica), tanto che si parlerà di un “decennio perduto” per il paese. Gli anni duemila si possono considerare ancora un periodo di difficoltà, anche se la situazione migliora un poco tra il 2002 e il 2007; ma poi viene la crisi del 2008-09. Per il periodo dal 2011 in poi il tasso di crescita annuo non supererà mai il 2,0%, mentre in certi anni esso sarà parecchio inferiore. Il 2021 si chiude certo in territorio positivo, al 1,7% di crescita, ma i tre anni precedenti erano risultati negativi. I primi mesi del 2022 indicano infine delle nuove difficoltà, mentre lo yen è sceso al suo valore più basso degli ultimi ventiquattro anni.

Dopo, l’Italia.

Nel secondo dopoguerra, l’economia italiana, dopo qualche problema iniziale, mostra per alcuni decenni una forte dinamica. Ancora negli anni sessanta il tasso medio di aumento del pil reale era superiore al 7%, quindi su livelli “giapponesi”; siamo ancora nel periodo del cosiddetto miracolo economico. Poi, nel decennio successivo, il tasso di crescita scenderà al di sotto del 4% e negli anni ottanta diminuirà ancora, collocandosi intorno al 2,5%. Negli anni novanta siamo ormai solo all’1,25%. Il paese si rivelerà poi quello a più basso sviluppo economico dal 1999 ad oggi tra i 19 Stati che hanno aderito alla moneta unica ed uno degli ultimissimi a livello mondiale.

Infine il Regno Unito.

La crescita media annua del pil in Gran Bretagna nel decennio precedente alla crisi del 2007-09 era stata del 2,7%; dopo, la nuova normale si collocherà intorno all’1,7%. Il paese sta declinando in misura rilevante rispetto agli altri grandi Stati europei e agli Stati Uniti, a parte ovviamente l’Italia. La Gran Bretagna è indietro da decenni per quanto riguarda gli investimenti sul pil rispetto a Stati Uniti, Francia, Germania; lo stesso si può dire per quanto riguarda il rapporto tra le spese di ricerca e il pil, come per il rapporto pil/ore lavorate.
Mentre l’inflazione nel paese è ormai salita al 9,1% su base annua (dati di fine maggio), per l’anno prossimo l’Ocse prevede una crescita pari a zero, la peggiore performance dei G-20. E le stime sembrano ancora ottimistiche.

La stagnazione secolare non spiega tutto

Non è possibile tuttavia spiegare tutto soltanto con la teoria della stagnazione secolare il declino dei tre paesi sopra citati.
Ci sono anche delle ragioni specifiche per ognuno dei casi. Nel caso del Giappone ha pesato la pesante interferenza politica degli Stati Uniti che, ad un certo punto, di fronte alla minaccia di una crescita che metteva in discussione alla lunga il loro primato, impongono al paese, nella seconda metà degli anni ottanta, delle misure drastiche, quali la rivalutazione del 50% dello yen, nonché la cessione alle imprese Usa di molte tecnologie avanzate. Da allora il paese è sostanzialmente fermo, sia pure tra alti e bassi.
Nel caso della Gran Bretagna si può fare certamente riferimento, per gli anni più recenti, alla Brexit, di cui si cominciano solo ora a percepire veramente gli effetti negativi (segnaliamo in proposito il numero del 10-17 giugno 2022 di The Economist), mentre infine in quello italiano si può guardare alla inadeguatezza complessiva delle classi dirigenti del paese e sul fronte economico, all’ennesimo atto di tradimento di larga parte della borghesia nazionale, che preferisce collocare i capitali e il governo dei propri affari all’estero piuttosto che investire in patria.
Si può, infine, rilevare che i tre paesi sono tra quelli in cui l’invecchiamento della popolazione è più pronunciato nel mondo (Giappone e Italia in particolare hanno il primato mondiale su tale fronte). Se, comunque, l’ipotesi della stagnazione secolare funzionasse, quale sarebbe il prossimo paese ad essere toccato dal morbo? La Francia? Ci sono ‘buone speranze’

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