Il “fascismo” è all’ordine del giorno? Dobbiamo temere il ritorno o l’avvento di regimi definibili come “fascisti”? Una domanda alla quale si può tentare di rispondere solo fornendosi di una definizione di “fascismo” e, su questa base, conducendo un’analisi dei processi in corso nel mondo, in una prospettiva storica sufficientemente ampia. Insomma, tutto il contrario o comunque qualcosa di molto diverso da ciò che si legge e si ascolta spesso in discorsi che in maniere più o meno affannate ed esagitate lanciano allarmi e definiscono “fascista” il proprio avversario. Anche George W. Bush presentava Al-Qaeda come «islamo-fascismo» (F. Finchelstein, From Fascism to Populism in History, University of California Press, 2017, p. 7) e da qui a definire l’avversario non solo come fascista, ma come il “Male Assoluto”, il passo è breve.
Pensiero critico versus “Male assoluto”
Dato che la storia ci insegna, ma non apprendiamo, i politici hanno sempre buon gioco nell’utilizzare questa carta, quando si tratta di giustificare in qualche modo una decisione discutibile. Benedetto Croce aveva esposto, con un cinismo non privo di arguzia, questo meccanismo nei suoi Elementi di politica del 1925. Del resto, come annotò poi Gramsci, Croce aveva tratto questa idea – distorcendola e impoverendola non poco – proprio dal concetto marxista di ideologia. Così, il “Male Assoluto”, l’“asse del Bene” e quello “del Male”, tornano periodicamente a manifestarsi, e spesso le due parti si definiscono reciprocamente come tali. Il pensiero critico dovrebbe però possedere strumenti sufficienti per mettere a nudo la fallacia del procedimento.
Il fascismo eterno di Umberto Eco
Ma il fascismo, si dirà, non gode dello statuto metastorico del “Male Assoluto”. Dipende. Nel 1995 Umberto Eco parlò di Fascismo eterno, ovvero di quel fascismo-struttura o invariante, sottostante a tutti i possibili fascismi storici, che, mettendo o togliendo qualche caratteristica, dà luogo a ogni e ciascuno di essi. Eco identificò inoltre il sostrato storico (il “supporto” reale) di questa invariante in quel «modo di pensare e di sentire», in quella «serie di abitudini culturali», in quella «nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni» che rimangono identiche nel variare di ideologie, regimi, culture. È come se si utilizzasse la longue durée per fare analisi della congiuntura. Data la sproporzione, l’invarianza trionfa sempre: togli un pezzo di qua, aggiungilo di là, il fascismo tornerà sempre a mostrare il suo volto, o meglio il suo non-volto, l’Ur-struttura invincibile.
La “non morte” del fascismo di Canfora. Dov’è il nocciolo?
Così, in un libriccino da poco uscito, che nel titolo riprende quello della conferenza di Eco (che viene ricordata), Il fascismo non è mai morto (Bari, Dedalo, 2024), Luciano Canfora ripete a suo modo questa tesi. A suo modo: mentre Eco argomenta come un illuminista, con chiarezza e gusto delle distinzioni, Canfora conduce il lettore in un gran numero di giravolte storiche e geografiche, di cui si fatica (almeno, chi scrive ha faticato) a intendere il significato. Da una parte si afferma che il «“nòcciolo” del fascismo può ritenersi, al di là di altri caratteri contingenti, il suprematismo razzistico, in quanto punto terminale della costante esaltazione della propria nazione avvertita come comunità “naturale”» (p. 13), ma dall’altra si riconduce a questa categoria di fascismo il peronismo (pp. 30-31), che francamente di razzista ebbe poco. Da una parte si afferma l’unità del concetto di fascismo (al di sotto dell’«incessante movimento storico» che spinge a variare «le parole e le ricette», p. 37), ma dall’altra si distinguono tre fasi diverse del fascismo italiano – il diciannovismo, la presa del potere nel 1922-1926 e la fase totalitaria successiva. A che scopo questa distinzione? per mostrare che il fascismo-movimento non è diverso dal fascismo-regime? il repubblicano dal monarchico e filo-cattolico? O per sbattere in faccia a Meloni, come si allude nelle appendici, la natura di sinistra di un certo fascismo? Qui starebbe la sua “non morte”? E cosa ha tutto ciò a che fare col razzismo e il suprematismo come tratto di fondo, invariabile, se il fascismo repubblicano e anche quello degli anni Venti di razzismo ne esibisce molto poco, e comunque non più di quello abituale nelle società europee dell’epoca?
Più avanti, si ricorda che Mussolini era molto stimato e amato dalle classi dirigenti inglese, francese e statunitense, e si motiva ciò col fatto che il fascismo aveva salvato l’Europa dal bolscevismo. Verissimo. Ma poi si ricorda che anche Gandhi e Bose simpatizzarono per Mussolini e si motiva tutto ciò con «l’ambiguità», «un carattere strutturale del fascismo» (p. 53), capace di offrire prospettive a destra e a sinistra, dimenticando che il filo di connessione degli indiani con Mussolini era l’avversione all’Inghilterra e l’acceso nazionalismo. Altri capitoli sono polemiche di natura giornalistica (la strage di Bologna, la svolta di Fiuggi) e li possiamo saltare.
Alla fine, una definizione complessiva: «Il fascismo ebbe (e pretende tuttora di avere) come obiettivo dichiarato una politica sociale-nazionale: non aliena – all’occorrenza – da comportamenti facenti leva su di un diffuso e tenace “razzismo istintuale e profondo”. Ha un orizzonte soprattutto nazionale e fa affidamento sui ceti medi» (p. 76). Il tratto invariante del razzismo suprematista bianco l’abbiamo perso per strada: s’è convertito in un accessorio da usare «all’occorrenza». Mentre al centro è scivolato il social-nazionalismo: una caratteristica, si badi, comune a molte altre ideologie oltre al fascismo e al nazismo, dal socialismo ottocentesco di un Pascoli (colonialista, anche: “la grande proletaria”) al laburismo australiano degli anni Venti.
L’identità del fascismo italiana, presa sul serio
A proposito di razzismo e social-nazionalismo: in un articolo pubblicato su «Gerarchia» (la rivista ufficiale del fascismo-regime) da Camillo Pellizzi nel settembre 1930, si criticava «la gelosia di razza: fenomeno barbarico, nordico, per fortuna ignoto agli italiani, i quali sanno di rappresentare una cultura, una storia, una civiltà, ma non certo una razza». E si aggiungeva: «E altre volte, forse più spesso, è un cosiddetto socialismo, o laburismo, che si concreta nella difesa a oltranza, anche contro le stesse ragioni dell’economia, degli interessi immediati di una popolazione operaia ristretta in rapporto alle possibilità di produzione che potrebbero venire sfruttate in un dato paese, e che pertanto beneficia di salari sproporzionati. Caso tipico è quello dell’Australia…». Ma, si dirà, Pellizzi era un frondista, e comunque nel 1938 si emaneranno le leggi razziali. Ciò appunto rende necessaria un’analisi storica ben più approfondita e una differenziazione all’interno di ciascuna delle tre “fasi” distinte da Canfora, e una riflessione sul senso del loro succedersi. A meno che non si ragioni come Eco, per il quale c’è un fascismo eterno.
Ma parliamo di social-nazionalismo, ideologia e pratica, ho ricordato, di non esclusivo appannaggio del fascismo. In che cosa il social-nazionalismo fascista si distingue da altri tipi di social-nazionalismo? Canfora sfiora solamente il tema in un paio di passaggi, senza cogliere il punto: si tratta del corporativismo, elemento derivante dalla fusione con il nazionalismo. L’orizzonte nazionalistico e corporativistico, unito all’idea di un’unità organica del popolo, della gerarchia e dello Stato forte, ma anche alla cultura futurista, pragmatista e volontarista e al peculiare populismo del sindacalismo rivoluzionario: l’insieme di tutto ciò costituisce l’identità del fascismo italiano. E si potrebbe facilmente mostrare come tale mescolanza, a suo modo unica perché creatasi nel contesto di una storia nazionale particolare, nel processo di irradiazione internazionale del fascismo si tradusse nell’accentuazione di una o altra componente a scapito delle restanti, anche in questo caso in base ai contesti nazionali di arrivo.
E oggi? Riprendere la gramsciana “rivoluzione passiva”
Riprendiamo il tema iniziale: è il “fascismo”, così definito, all’ordine del giorno? Dipende. Molti elementi che caratterizzarono la crisi seguita alla fine della Grande guerra ricorrono anche oggi, mentre altri sono assai differenti. Assistiamo oggi a una formidabile crisi della democrazia e del liberalismo (che non sono la stessa cosa), alla crescita in tutto l’Occidente di modelli di democrazia autoritaria, di populismo antidemocratico, di nazionalismo a sfondo razzista. Ma tutto ciò va letto storicamente e politicamente, non come il riemergere di un torbido insieme di nuclei valoriali di base che non vengono mai estinti, ma in quanto mette a nudo un’analogia di reazioni da parte di ceti popolari, minacciati nel loro presente e nel loro futuro, a una crisi sistemica che, analogamente a quella del secolo scorso, segnala uno spostamento a livello mondiale dell’egemonia.
Dovremmo chiederci, per fare qualche passo in avanti, se il cosiddetto “neo-liberismo”, cioè un neoconservatorismo feroce e privo di qualsiasi immagine di futuro, sia mai stato un modello egemonico o al contrario la manifestazione iniziale di quella crisi sistemica; se la parola “democrazia” abbia un solo significato, e se quando parliamo di “democrazia autoritaria” non stiamo semplicemente dicendo che, dopo la morte della democrazia liberale che abbiamo conosciuto, abbiamo oggi davanti agli occhi una democrazia oligarchica in Europa e USA, e uno o più modelli alternativi di democrazia totalitaria in altre parti del mondo. Gramsci scrisse che il fascismo italiano rappresentava un modello internazionale di reazione creativa a quella crisi, una reazione che, al di là delle apparenze, ha fruttificato nella seconda metà del secolo e per certi aspetti persiste ancora oggi (soprattutto in ciò che ha a che fare con la gestione della popolazione). Si tratterebbe allora di capire qual è oggi questo modello di reazione creativa, se esiste, e come funziona; come elabora i lineamenti di una nuova “rivoluzione passiva”. Questo ci aiuterebbe a intravvedere la seconda metà di questo secolo, molto più della condanna di qualcosa che, sì, nella sua configurazione complessiva è morto qualche decennio fa