L’Unione economico-monetaria, perfezionata dal PSC nel 1997, si sarebbe dovuta ancorare ai codici normativi dell’integrazione attraverso il diritto, il “credo” ordoliberale. Un’Unione vincolata a un sistema di norme giuridiche sovranazionali giustiziabili, preordinate a compensare il vuoto di solidarietà tra gli Stati membri (Joerges-Giubboni, 2013). La politica monetaria veniva in tal modo federalizzata e, al contempo, depoliticizzata, immunizzandola da possibile “derive” keynesiane nella gestione macroeconomica (Ciocca, 2024).
Il credo ordoliberale e le sue aporie
La “fedeltà” del PSC al paradigma dell’integrazione attraverso il diritto è dubbia già solo guardando alla sua incerta base giuridica. Senza giungere alla tesi radicale di Guarino, è indubbio che le disposizioni dei trattati riconoscevano al legislatore europeo il potere di precisare le modalità procedurali della sorveglianza multilaterale (art. 121, 6 TFUE), non di introdurre regole contenutistiche nuove: quale il vincolo di conseguire «a medio termine, un saldo di bilancio vicino al pareggio o positivo» (art. 3 Regolamento CE 1466/1997).
La pretesa di gestire la politica fiscale europea attraverso una “regola aurea” valida per tutti gli Stati membri si è dimostrata illusoria. Il PSC si è rivelato un abito confezionato su misura. Quando nel 2003 Germania e Francia non si attennero alle regole del PSC e la relativa procedura d’infrazione per deficit eccessivo iniziata dalla Commissione cadde nel nulla, il PSC fu modificato prevedendo un’attenuazione dei vincoli di bilancio condizionata a riforme strutturali dei sistemi laburistici e previdenziali, riforme che fotografavano l’agenda dell’allora Governo Schröder. Gli apologeti tedeschi dell’euro si sono allora auto-incolpati del “peccato”, in maniera strumentale alla richiesta di perfezionare l’ordine giuridico violato, rafforzandone l’efficacia sanzionatoria (cosa che si è realizzata con la modifica del PSC nel 2011 (Six Pack).
Secondo il credo ordoliberale, la violazione delle regole del PSC avrebbe richiesto sanzioni efficaci e, tendenzialmente, automatiche. Eppure, la procedura di deficit eccessivo non è mai giunta neppure all’erogazione di una multa. Nella gran parte dei casi la procedura iniziata dalla Commissione è stata archiviata per una decisione politica del Consiglio. Questo non significa che il PSC sia sprovvisto di un enforcement, ma esso è prima di tutto affidato alla disciplina dei mercati finanziari di cui si postula l’intrinseca razionalità.
La sospensione del PSC, un ripensamento della governance economica
L’emergenza pandemica ha richiesto il superamento della “Comunità di stabilità” con l’allentamento dei vincoli di bilancio, al fine di dotare l’Unione di un’autonoma capacità fiscale diretta a stabilizzare nel breve periodo l’economia europea e a rilanciarla nel medio. Al suo posto si è prefigurata una Comunità che ha messo al centro della sua agenda politica l’obiettivo della crescita sostenibile ed equilibrata, prima di tutto sul piano ambientale e sociale.
La sospensione del PSC nel suo braccio preventivo (tramite l’applicazione della “general escape clause”) poteva essere l’occasione per un ripensamento complessivo della governance economico-monetaria. Il PSC era stato architettato nell’epoca d’oro della globalizzazione neoliberale in cui era funzionale ad una ricetta di politica economica incentrata sul binomio austerità fiscale e salariale per contenere la domanda interna e riforme strutturali per stimolare la competitività esterna. La pandemia e poi il ritorno della guerra, non solo in Europa, hanno mutato lo scenario internazionale in direzione se non proprio di una de-globalizzazione, quanto meno di una sua ridefinizione su basi geopolitiche (Galli, 2023), in cui riaffiorano politiche protezionistiche (friend-shoring, de-coupling).
Sennonché nel momento in cui le altre potenze mondiali (Stati Uniti e Cina in testa) non pongono limiti al ricorso al debito pubblico per finanziare i propri obiettivi politici strategici, l’Unione europea ha deciso di ri-attivare il PSC e i relativi vincoli di bilancio alla spesa pubblica, perseverando nella sua subordinazione ai mercati finanziari.
La riforma “gattopardesca” del PSC
A fine aprile di quest’anno è entrato in vigore il “nuovo” PSC, al termine di un iter legislativo defatigante che ha visto l’iniziale proposta della Commissione, contenente alcuni elementi di ragionevolezza, riscritta dal Consiglio Ecofin.
Il PSC riformato avvalora il metodo di governance consolidatosi nell’ambito del NGEU e dei relativi PNRR, un metodo improntato alla “condizionalità” (un’eredità della crisi dei debiti sovrani) e alla valutazione quantitativa degli obiettivi di politica economica e di bilancio degli Stati membri (Bartolucci 2024). Il vincolo esterno all’indirizzo politico-economico degli Stati membri è persino più pervasivo rispetto al passato, poiché il parametro chiave per la valutazione della “performance” economica è la spesa primaria netta: definita come «la spesa pubblica al netto della spesa per interessi, per sussidi di disoccupazione, per sovvenzioni dell’UE e per misure discrezionali sul lato delle entrate». L’art. 5 del PSC riformato stabilisce che quando il debito pubblico è superiore al 60 % del PIL o il disavanzo al 3 % del PIL, la Commissione trasmette allo Stato membro interessato una “traiettoria di riferimento” per aggiustare la spesa netta. Questa traiettoria concordata copre, inizialmente, un periodo di quattro anni ma può essere estesa a sette anni, qualora lo Stato membro interessato si impegni ad implementare investimenti e riforme strutturali nei settori considerati strategici per il futuro dell’Unione: a tal proposito l’obiettivo della «transizione verde e digitale» sembra equiparato a quello dello «sviluppo di capacità di difesa» (il “funzionalismo bellico”, Losurdo, 2023).
Le clausole di salvaguardia quantitative, opportunamente eliminate nella proposta della Commissione, sono state reinserite nella versione definitiva dell’Ecofin. Da una parte è richiesto il mantenimento di un deficit strutturale annuale al di sotto del 1,5% (un numero più “tollerante” rispetto a quello previsto dal Fiscal compact, 0,5%). Dall’altra i paesi con un debito superiore al 90% dovranno ridurlo almeno dell’1% ogni anno, mentre quelli con un debito tra il 60% e il 90% dovranno ridurlo dello 0,5%. La logica ricalca quella del passato: regole inflessibili che finiscono per cristallizzare i divari esistenti tra Stati creditori e Stati debitori.
In prospettiva, l’aspetto più preoccupante, anche per le finanze del nostro paese, è la conferma dell’indicatore del prodotto interno potenziale, un criterio che in quanto calcolato sulla base del PIL di breve periodo al netto cioè degli investimenti di lungo periodo, finisce per avere un effetto pro-ciclico: un’irragionevole ricetta di austerità in tempo di recessione (Brancaccio 2023). L’indicatore in questione condiziona la definizione del rapporto debito PIL, il saldo strutturale, nonché l’entità della spesa primaria netta.
Come finanziare i beni pubblici europei?
Risulta, dunque, difficile comprendere appieno il senso del PSC riformato nel mutato scenario geopolitico in cui le richiamate sfide della transizione ecologica e digitale e della difesa comune europea richiedono grandi investimenti pubblici che mal si conciliano con i rinnovati vincoli di bilancio.
Che lo scenario globale sia in profonda evoluzione lo dimostra anche il recente rapporto sulla competitività nel mercato interno presentato da Enrico Letta: “Much more than a market – Speed, Security, Solidarity”. Il rapporto muove dalla constatazione che la competitività rivolta all’interno non ha prodotto i risultati auspicati. Per dirla con le parole sincere di Mario Draghi (pronunciate in occasione della Conferenza sul Pilastro europeo dei diritti sociali): «abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale pro-ciclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale» (Draghi, 2024).
Secondo il Rapporto Letta, l’Unione europea deve oggi competere con due giganti, Cina e USA, che tendono a non rispettare più le regole del OMC e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva [quali l’Inflation Reduction Act]. Nella migliore delle ipotesi, queste politiche sono progettate per reindirizzare gli investimenti verso le loro economie e, nel peggiore dei casi, sono progettati per renderci permanentemente dipendenti da loro.
Su questa premessa, il Rapporto si interroga su come conseguire le ingenti risorse necessarie per realizzare i richiamati beni comuni europei. La risposta non è univoca. Occorre – si dice – un mix di grandi investimenti infrastrutturali anche con finalità redistributive, ad esempio per rendere i sistemi sanitari più “resilienti”, e di strumenti innovativi di finanza privata. A tale riguardo, il Rapporto Letta si sofferma sulle tappe per la costruzione di un’Unione dei mercati dei capitali («Capital Markets Union»). Si tratterebbe – sottolinea il rapporto – di convogliare i circa 33mila miliardi di euro di risparmi dei cittadini europei verso grandi gestori europei in modo da mobilitare risorse che gli Stati non hanno più a disposizione (pagg 11-12). Con il rischio, non trascurabile secondo alcuni, che il ruolo dello Stato si riduca a quello di garante degli investimenti privati in progetti destinati a servizi pubblici gestiti, però, secondo logiche prevalenti di profitto (Andrea Guazzarotti, 2024).
Se si accede a quest’interpretazione, diventa forse più comprensibile la logica sottesa al PSC riformato. I gravosi vincoli di bilancio, sostanzialmente confermati, ribadiscono l’obiettivo prioritario di comprimere la spesa pubblica, così da indurre i lavoratori a destinare una parte crescente dei propri salari ad investimenti nei fondi integrativi e assicurativi (auspicabilmente europei), al fine di garantirsi quei diritti sociali essenziali, dalla sanità alle pensioni, considerati fino ad oggi universali.
[Articolo già pubblicato, con qualche variazione, sul “Diario di diritto pubblico”, 27 agosto 2024]