IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il potere della crisi, la crisi del potere

Ian Bremmer è un autorevole politologo, fondatore della società di ricerca Eurasia Group. Il suo ultimo libro ha il merito di affrontare con un costruttivo pessimismo illuminato le minacce che incombono sul futuro globale. Un'analisi fuori dai cliché neoliberali, non priva però di limiti

Ormai quasi novant’anni fa Johan Huizinga poteva per così dire, permettersi il lusso di domandare se la chiara coscienza che l’umanità possiede dell’estremo pericolo non porti a sopravvalutare la crisi e non si corra il rischio di impressionarsi per “ogni incrinatura della vernice” e “ogni scricchiolio delle commessure.” Come è noto, lo storico olandese non pensava affatto che l’allarme fosse eccessivo e il suo sguardo anzi si sforzava di penetrare “nelle ombre del domani” per identificare i segni del tracollo incombente. E tuttavia, il suo scrupolo lo portava a non tacere la novità assoluta rappresentata dalla percezione più ampia e più precisa dell’avvenire di cui l’umanità gode grazie “alle molteplici scienze” e alla “pubblicità di ciò che accade nel mondo.” La costante crescita delle capacità di reperimento di dati ed elaborazione di previsioni circa l’evoluzione dei fenomeni sociali ci hanno abituati alla presenza nella nostra esistenza di un apparato di saperi che anticipa costantemente “l’orizzonte delle nostre aspettative”. Mai come ora prima, infatti, è possibile disporre di dati che permettono di prevedere i cambiamenti degli assetti sociali e impostare, almeno in teoria, soluzioni strategiche di governo dei processi in atto.

Direzione consapevole o spontaneità del mercato?

Sussistono, tuttavia, due paradossi sui quali non è banale, a nostro giudizio, riflettere brevemente. Da una parte, come lo stesso Huizinga a suo tempo osservava, la possibilità di prevedere il futuro si accompagna a uno stato d’animo di insicurezza e di ansia. Tanto più, infatti, si sviluppa la potenza tecnica e scientifica, tanto maggiore è la sensazione che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato a fondamento di tutto questo, e “la rimbombante macchina di questo nostro tempo formidabile sembra in procinto di incepparsi.” Da un’altra parte, la possibilità di disporre di previsioni strategiche da mettere al servizio del governo della società vìola, in modo clamoroso, uno dei presupposti teorici della dottrina neoliberale, che ha informato gli assetti di potere e ha cambiato profondamente natura e compiti delle istituzioni statali. Ci riferiamo ovviamente all’assunto secondo cui non è possibile una direzione consapevole verso fini collettivi positivamente definiti. Hayek, in particolare, nega che possa darsi un luogo e un soggetto che disponga della totalità delle conoscenze di cui sono detentori, in misura necessariamente limitata e frammentaria, i singoli individui. Perciò, solo il meccanismo di mercato, grazie alla funzione di vettori dell’informazione svolta dai prezzi, è in grado di combinare i frammenti di informazioni e saperi pratici sparsi nei milioni di individui umani e produrre quell’ordine spontaneo, catallassi, che è a fondamento del legame sociale.
Il libro di Ian Bremmer, “Il potere della crisi. Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo“, Egea 2022, p. 204, sembra del tutto ignorare la contraddizione che viene inevitabilmente a determinarsi tra l’esigenza che è il presupposto essenziale delle sue analisi e proposte, cioè il formarsi di un’alleanza politica finalizzata al perseguimento di scopi collettivi positivamente definiti, e il fatale affievolirsi del potere pubblico prodotto dalla retorica neoliberale e dal suicidio delle culture che nel corso del Novecento avevano rappresentato l’esigenza di un governo basato su decisioni collettive, libere e razionali, per la risoluzione dei conflitti sociali.

Trarre il bene dal male, la rosa nella croce

Il libro, infatti, si basa su un dato di conoscenza che per la sua stessa natura obbliga a una risposta politicamente consapevole, addirittura su scala globale: l’umanità sta andando incontro a una serie di pericoli esistenziali che, anche nella migliore delle ipotesi, infliggeranno enormi sofferenze a centinaia di milioni di individui. Queste minacce, che Bremmer chiama “crisi”, sono tutte prodotte dall’azione dell’uomo stesso. E sono già in atto. Di conseguenza non si possono scongiurare completamente, ma, al più, governare in modo da evitarne gli esiti più catastrofici. Anzi, in un certo senso la loro esistenza è la condizione che ne rende possibile il governo e il controllo (non l’eliminazione), perché senza di esse, senza il loro potere e la sfida che rappresentano, non troverebbe le motivazioni per mobilitare le risorse culturali e politiche necessarie per affrontare il pericolo e continuerebbe a baloccarsi in condotte irresponsabili. Le crisi sono dunque utili per costringerci a fare ciò che è necessario per fronteggiarle e che, senza il loro stimolo, non faremmo. Si tratta di una sfida suprema: trarre il bene dal male, la “rosa nella croce”. Questo è appunto il loro potere. O meglio, quella parte positiva del loro potere che, come nel pharmacon, è il risvolto della loro stessa capacità distruttiva: non si dà l’una senza l’altra, perché l’una è l’altra. Per quanto paradossale, o forse proprio in virtù di ciò, la tesi ha una sua plausibilità. Purché si sia consapevoli del fatto che l’origine umana di queste minacce rende molto più complicate la collaborazione invocata da Bremmer. Infatti, la natura non aliena, ma umana dei pericoli di cui si ragiona nel libro, cambia in modo sostanziale il quadro dell’analisi. Esse sono infatti un prodotto del sistema di produzione e consumo che ormai domina tutto il pianeta, seppure in forme sempre più diseguali, e la cui dinamica sfugge sempre di più al controllo. Il ciclo di distruzione creativa che lo caratterizza mostra sempre di più il suo carattere spaventoso perché forza oltre il consentito i limiti della biosfera e dell’umano.
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Le minacce che l’umanità deve fronteggiare sono tre: la crisi sanitaria, alla cui analisi è dedicato il capitolo 2; la crisi climatica (capitolo 3), e la crisi prodotta dalle “tecnologie dirompenti” (capitolo 4).
Gli effetti devastanti di questi fenomeni sono aggravati da due dinamiche conflittuali, una interna agli Stati Uniti (la “guerra incivile” americana, cioè la sempre più profonda contrapposizione tra due settori della società americana che si esprime nella barriera antropologica che sempre più divide repubblicani e democratici), e una internazionale (lo scontro strategico tra Cina e USA, con conseguente rischio di una nuova Guerra fredda). A ciò va aggiunto il vuoto nell’assetto del potere globale (il cosiddetto G-Zero), cioè l’assenza di un’autorità in grado di garantire un indirizzo unitario globale.
Il volume ha senz’altro il pregio dell’onestà intellettuale, sforzandosi di mettere in luce, senza infingimenti, origine, natura e probabili effetti delle tre crisi catastrofiche che incombono sul futuro del pianeta. Chi cerca analisi consolatorie e soluzioni semplicistiche rimarrà deluso. Bremmer non vuole “indorare la pillola” e si sforza di identificare tutti i fattori di crisi che possono influire sulle dinamiche in atto e agire sia in senso positivo che negativo. Come cercheremo di mostrare più avanti, però, ci sono almeno due temi che restano fuori dall’orizzonte della sua analisi. Infatti, nonostante la serietà con la quale analizza i dati e valuta le condizioni favorevoli e sfavorevoli, lo sguardo di Bremmer è come affetto da un “punto cieco” che, forse, è il sintomo del limite culturale e politico del suo “riformismo illuminato su scala planetaria”. Un riformismo con il quale si propone di reperire soluzioni “realistiche”, cioè basate sulle caratteristiche effettuali delle forze in campo e sul rispetto delle logiche che presiedono al loro funzionamento. La virtù di questo approccio – ma anche il suo limite – sta proprio nel rifiuto di forzare le compatibilità dei soggetti concretamente operanti, cercando le soluzioni, semmai, nella dialettica dei loro interessi, il più delle volte conflittuali, in cui si sforza di cogliere le dinamiche che potrebbero favorire la cooperazione necessaria per fronteggiare i pericoli che ci attendono. Sennonché questo esercizio, finisce, nel momento decisivo per non riuscire. E la soluzione, per sostenersi, ha bisogno di appoggiarsi a un “dover essere” privo di connessioni con l’orizzonte realistico dell’analisi. Questo limite emerge soprattutto quando Bremmer esamina la chiave di volta decisiva per tutte le politiche idonee a limitare gli effetti devastanti delle tre crisi (sanitaria, climatica e tecnologica): la necessaria cooperazione tra Cina e USA. Condizione senza la quale non è possibile immaginare nessuna soluzione positiva: “Abbiamo bisogno di una crisi per forgiare una nuova cooperazione internazionale costruire un migliore ordine mondiale”. (p.61)
Ma procediamo con ordine, iniziando a descrivere le minacce che stanno cambiando il mondo (e che potrebbero salvarlo).

La pandemia e la politica

La pandemia da Covid 19 è stata un banco di prova per testare la capacità della politica di rispondere a una crisi globale con effetti distruttivi di tipo sistemico. Innanzitutto essa ha mostrato che la disponibilità di conoscenze che mettono in grado di prevedere un’emergenza sanitaria di questa gravità non è sufficiente a generare misure preventive. La pandemia è stata infatti una “catastrofe annunciata”. E fa davvero impressione rileggere, tra gli altri autorevoli ammonimenti preventivi, ciò che disse nel dicembre 2014 il presidente Obama: “Può arrivare e probabilmente arriverà un momento in cui avremo una malattia respiratoria letale. E per poterla gestire efficacemente dobbiamo predisporre infrastrutture – non solo qui nel nostro paese ma in tutto il mondo – che ci permettano di scoprirla, di isolarla e di reagire in tempi brevi […] Di modo che, se e quando, tra cinque o dieci anni, dovesse saltare fuori un ceppo influenzale, come quello dell’influenza spagnola, noi avremo già fatto gli investimenti necessari” (p.62, corsivo mio).
Ciò che è mancato, dunque, è un sistema di sorveglianza epidemiologica e meccanismi di risposta rapida a livello globale. Ma se la politica ha fallito nella prevenzione, molto peggio ha fatto nella risposta al momento dell’emergenza. In generale si è assistito a una “gestione fallimentare” del Covid da parte di tutto lo spettro politico: i paesi si sono accusati a vicenda, non hanno cooperato, hanno cercato di sfruttare la situazione per estendere la loro influenza o mettere in cattiva luce gli avversari geopolitici.
Le conseguenze, umane ed economiche, sono state disastrose, soprattutto per i paesi più poveri che, per usare le parole di un rapporto della Fondazione Gates citato da Bremmer, hanno visto i progressi nella lotta alla povertà e alla fame ottenuti in 25 anni azzerarsi in 25 settimane.
Che cosa possiamo imparare dal Covid? La domanda che Bremmer pone è tanto più importante visto che “potremmo avere meno tempo di quanto crediamo prima di essere colpiti dalla prossima pandemia”; e visto che il Covid 19, pur essendo stata “la più grande crisi della nostra vita, non è stata, di per sé, abbastanza spaventosa da indurci a forgiare un nuovo sistema di cooperazione internazionale o, per quanto riguarda l’America, a costringere repubblicani e democratici a lavorare insieme.” (p.70) Le soluzioni suggerite nel volume sono al riguardo numerose e, nell’insieme, senz’altro valide, puntando prevalentemente sulla cooperazione internazionale tra gli stati e sugli investimenti preventivi e massicci nella ricerca, nella sorveglianza e nella condivisione delle informazioni. Tuttavia è curioso che Bremmer non faccia alcun riferimento critico esplicito alle conseguenze dell’accordo TRIPS del ’94, che ha, di fatto, privatizzato – a favore delle corporation farmaceutiche – i risultati della ricerca. E forse non serve nemmeno tutta la fantasia invocata da Bremmer per immaginare un sistema globale capace di fronteggiare le future pandemie, ma basterebbe ispirarsi al sistema, funzionante da decenni, dei vaccini per l’influenza, il Global Influenza Surveillance Network, su cui hanno richiamato l’attenzione Fabrizio Barca e Guido Pagano.

La catastrofe climatica

Il capitolo dedicato agli effetti del cambiamento climatico è, per così dire, sconvolgente e scontato a un tempo. Sconvolgente per la capacità dell’autore di sintetizzare in poche pagine il quadro dell’apocalisse alla quale stiamo spensieratamente andando incontro. E che anche nella migliore delle ipotesi, tutt’altro che facile da raggiungere, provocherà conseguenze spaventose nella vita di centinaia di milioni di individui umani e di intere specie viventi vegetali e animali. Un futuro da incubo, che si trasformerebbe in una vera e propria catastrofe se gli obiettivi fissati dall’IPCC non saranno raggiunti, a conferma del motto ripreso da Mark Fischer, secondo cui “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.” Scontato perché si tratta di dati ampiamente noti nel loro insieme, che non vale la pena perciò di riprendere dettagliatamente. L’autore, coerentemente con l’impostazione generale del volume, denuncia la responsabilità della politica nel “mettersi di traverso” nell’adozione di misure volte a frenare il riscaldamento climatico e, contemporaneamente, l’assenza di un centro di orientamento politico globale, ovvero la mancanze di leader “dotati della volontà e della capacità di sedare le liti e forzare il compromesso su problemi costosi e pericolosi in nome della stabilità globale e del bene comune.” La conseguenza di tutto ciò è, da un lato, l’emergere di conflitti sempre più acuti per il controllo delle risorse naturali che sono destinate a diventare sempre più rare, a cominciare dall’acqua; e, dall’altro, le tensioni prodotte dalle immigrazioni, dalle crisi politiche e dalle guerre. Anche in questo caso, sostiene Bremmer, la soluzione è politica. Vanno, infatti, guardate con molta prudenza le soluzioni di geo-ingegneria che si propongono – ma con dei rischi molto elevati – di offrire cure miracolose che non richiedono i sacrifici prospettati invece dalla transizione ecologica dell’economia. Le soluzioni politiche proposte dal libro sono, ancora una volta, la cooperazione e la condivisione, imposte dalla crisi climatica stessa e dalla reciproca dipendenza che la globalizzazione ha prodotto, rendendo tutti i paesi, e in particolare USA e Cina, avversari ma anche cointeressati alla reciproca stabilità. Di conseguenza, scrive Bremmer, i leader “devono superare le loro divergenze, devono condividere le informazioni, le responsabilità e coordinare i piani; devono farlo perché in caso contrario tutti ne faremo le spese.” (p.107, corsivo mio) Come si vede però qui Bremmer è costretto ad appellarsi a una sorta di principio deontologico che mostra di per sé la propria fragilità perché non ha, per la “contraddizion che nol consente”, fondamento realistico.

Le tecnologie dirompenti

Meno noto, ma per Bremmer più insidioso, è il pericolo rappresentato dalle tecnologie che portano con sé tre minacce: a) forme di disumanizzazione che queste tecnologie provocano trasformando “la natura del lavoro a scapito dei lavoratori [e], creando nuove forme di diseguaglianza sia nei singoli paesi che tra gli stati”; b) uso malvagio degli ordigni bellici e degli strumenti cibernetici da parte di criminali e terroristi; c) conflitti tra i paesi più potenti. In particolare, le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale sconvolgeranno il mondo del lavoro, accentuando le disuguaglianze e danneggiando soprattutto i lavoratori con redditi più bassi e competenze professionali più facilmente sostituibili da macchine intelligenti. E non è prevedibile che questi processi siano affrontati con misure adeguate, perché “chi possiede il capitale, gli azionisti delle società che dall’automazione ci guadagnano, i lavoratori con competenze professionali da XXI secolo e i politici appoggiati da queste persone non vedono l’emergenza che incombe.” (p. 136) Le disuguaglianze aumenteranno anche tra i diversi paesi a causa del crescente divario digitale, in particolare in campo sanitario, consentendo a chi le possiede di avere una maggiore speranza di vita rispetto ai più poveri (già oggi un giapponese vive in media ottantacinque anni, trenta in più di un nigeriano). Cosicché, quando arriverà la prossima crisi sanitaria globale “ queste nuove tecnologie potranno separare ancora più nettamente i ricchi dai poveri, e quelle che consentiranno di individuare più facilmente i contagi potranno isolare ancora di più le persone prive di un’assistenza sanitaria di qualità, la cui diffidenza nei confronti di un sistema che le esclude non potrà che aumentare.” (p.137) Inoltre, le nuove tecnologie consentono a chi detiene i dati che costantemente tutti noi generiamo utilizzando PC e smartphone di usare queste informazioni per monitorare i nostri comportamenti e sorvegliare le nostre reazioni. E se, per Bremmer, il rischio che questo potere sia utilizzato per discriminare e reprimere è più forte in paesi retti da regimi autoritari, come la Cina, non è per niente escluso che ciò possa avvenire anche in tutti gli altri paesi che sono teatro del cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”. Infatti, “i governi e le aziende che possiedono quelle macchine utilizzeranno questa conoscenza in modi che minacceranno la libertà individuale e probabilmente la stessa democrazia. Ciò significa più disuguaglianza, più sorveglianza e meno libertà.” (p.153).
Analogo allarme, ovviamente, viene lanciato rispetto alla possibilità che queste tecnologie cadano nelle mani di organizzazioni criminali o terroristiche. Ma è soprattutto la competizione tra gli stati per raggiungere la supremazia “quantistica” – e segnatamente tra USA e Cina – che determinerà pericoli per la pace, mentre sta già provocando la nascita di ecosistemi digitali separati – una sorta di Muro di Berlino digitale – che alimenterà “la Guerra fredda del XXI secolo” invece che “l’alleanza tra rivali di cui abbiamo bisogno”.
Perché è appunto solo questa alleanza che secondo Bremmer può consentirci di affrontare le minacce che ci aspettano, a patto che i due protagonisti – USA e Cina – “la futilità distruttiva di una nuova Guerra fredda” e il bisogno che entrambi hanno l’uno dell’altro per fronteggiare le sfide davvero globali.
È sufficiente l’intelligenza di queste realtà di fatto per determinare la svolta che serve? Ovviamente no. Bremmer anzi affida alla minaccia stessa il compito di creare le condizioni politiche di cui c’è bisogno per risolverla: “Purtroppo ci vorrà una crisi molto più grande di tutto ciò che abbiamo vissuto dopo la Seconda guerra mondiale per costringere i politici e leader aziendali a guardare oltre l’interesse personale e affrontare l’aumento delle disuguaglianze e i pericoli di un conflitto digitale.” (p.160) A patto che ci sia il tempo per farlo, visto che i processi sono così rapidi da ridurre i margini disponibili per approntare risposte efficaci. La mancata condivisione dei dati sugli sviluppi dell’informatica quantistica, ad esempio, potrebbe consentire da un momento all’altro a un governo di conseguire la capacità tecnica di eludere la crittografia a livello globale, rendendo indifesi tutti gli altri: “potrebbe bastare la semplice minaccia di una tale conquista a scatenare la Terza guerra mondiale, che metterebbe a rischio la sopravvivenza della specie umana. Ecco perché l’attuale momento storico è molto più pericoloso degli anni Trenta.”

I conti con la guerra in Europa

Il libro di Bremmer è stato edito prima che iniziasse l’attacco russo all’Ucraina del febbraio scorso. In una breve appendice l’autore cerca di “fare i conti” con questa nuova situazione. In questa ultima parte Bremmer esprime dei giudizi certamente discutibili sugli attori della nuova guerra europea, ma non elude il punto essenziale: dopo il 24 febbraio le cose sono diventate più complicate: “è molto più difficile mobilitare le risorse per sconfiggere una pandemia, combattere il cambiamento climatico e governare le tecnologie dirompenti quando le filiere globali sono inceppate da sanzioni economiche, finanziarie e tecnologiche” (p.200). Nonostante ciò, non abbandona la speranza che la nuova Guerra fredda sia uno stimolo per forgiare una nuova leadership, una nuova architettura globale, nuove istituzioni e nuove ideologie. Su cosa basa questa speranza, visto che da due generazioni vengono trascurati i pericoli intrinseci della globalizzazione e finora non abbiamo elaborato strategie di lungo termine? Si basa sul semplice fatto che non abbiamo alternative: i problemi sono diventati così pressanti da “costringerci ad agire o soccombere.”
Indifferente alla legge di Murphy, Bremmer scommette sulla chance che proprio il male che ci sovrasta porti con sé la soluzione. Anche perché, sostiene, nel complicato e pericoloso mondo in cui viviamo esistono tendenze ed esperienze positive che possono rappresentare un esempio e uno stimolo. Tra queste la più interessante e promettente, a giudizio dell’autore, è proprio l’UE che costituisce il modello di cooperazione pratica di cui abbiamo bisogno a livello globale. Queste affermazioni suonano un po’ paradossali all’orecchio degli europei che hanno potuto misurare la saggezza delle istituzioni continentali in occasione, ad esempio, della crisi finanziaria del 2011-2012 (specie nel caso greco, ma non solo) o della pandemia da Covid 19. Quanto alla capacità dell’UE, su cui Bremmer fa affidamento, di rilanciare la cooperazione internazionale nell’affrontare le sfide climatiche e scongiurare una nuova Guerra fredda, non c’è molto da sperare, vista la condotta dei paesi europei in occasione della gestazione del conflitto in Ucraina (2014-2022) e poi in seguito all’invasione russa. E qui incontriamo il più importante tema che, come dicevamo in apertura, il volume sembra ignorare. L’altro, pur importante, è costituito dal perdurante pericolo rappresentato dalla finanziarizzazione dell’economia. Bremmer infatti sembra non riuscire a vedere il problema rappresentato dalla struttura stessa del potere politico, la sua sempre più marcata “verticalità” istituzionale, finanziaria, mediatica, simbolica. Se nelle società governate in forme autoritarie questo elemento sembra scontato, non altrettanto si dovrebbe dire per le società neoliberali, nelle quali invece si assiste a una sempre maggiore concentrazione del potere nelle mani di ristrette oligarchie politiche, burocratiche e finanziarie.
La struttura democratica del potere politico rappresenta, a nostro avviso, un problema non tematizzato nel libro di Bremmer, che infatti non coglie il nesso esistente tra l’assenza di politiche lungimiranti e l’interruzione del circuito democratico del potere, senza il quale vengono a mancare le risorse cognitive e la dialettica prodotta dal conflitto sociale e dalla battaglia culturale che sono le condizioni per un carattere non unilaterale e progressivo della decisione politica. La verticalizzazione oligarchico-burocratica del potere politico, invocata in nome dell’efficienza e della rapidità delle decisioni, è in realtà l’altra faccia della spinta “all’individualismo metodologico”.
Il deficit di democrazia, quindi, costituisce un elemento ulteriore di aggravamento del quadro d’insieme, che Bremmer sembra però ignorare, affidando, sintomaticamente, il compito di imprimere una svolta positiva alla lungimiranza indotta dalle crisi nei leader, nonché alla dinamica innovatrice delle imprese. Invece è possibile pensare la soluzione dei problemi globali solo in un quadro di riattivazione del protagonismo politico dei governati (come dimostrano alcuni movimenti, invece quasi del tutto ignorati dal libro). Altrimenti tutta l’inedita capacità di previsione di cui disponiamo non servirà a nulla, e non ci resterà, come ai nostri antenati, che scrutare il destino “nelle ombre del domani”, sperando che ci sia un Dio che possa salvarci.

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