Assai spesso godo del grande privilegio di ricevere in anticipo i contributi di Donato Caporalini. Un’antica consuetudine tra amici. Questa volta ho goduto di un secondo privilegio. Donato che mi annunciava che il suo scritto, che mi sarebbe pervenuto di lì a poche ore, era stato scritto con il cuore e poco con il cervello. Sapevo che non era così e ne ho avuto pienamente conferma, a poche ore dal suo messaggio Whatsapp, con la lettura di La Palestina in testa. Donato è inguaribilmente gramsciano. Sa che non si può comprendere senza sapere e che non si può sapere senza sentire, senza sentire la sofferenza dell’altro.
Non sarò nemmeno lontanamente all’altezza di questa duplice, nobile e dimenticata ‘antropologia’ della grande scuola italiana. Le poche paginette della mia interlocuzione sono scritte (quasi) interamente di getto. Provando a immaginare cosa possa sentire la testa – non il cuore, non ne ho il diritto – di un israeliano che né oggi né domani ha un’altra Terra in cui andare. Perché questo è l’inquietante interrogativo posto da quanto accaduto il 7 ottobre dello scorso anno: la rivolta cieca di Hamas e l’altrettanto cieca risposta del Governo di Netanyahu aiutano, in qualche modo per quanto tragico, a ricostruire un’agenda che consenta di sconfiggere la disperazione presente di palestinesi e israeliani?
Interrogativo retorico risponderà – ne sono certo – Donato: è solo una strada che alimenta ulteriormente la disperazione di entrambi. Ma è certo Donato che una certa acritica ‘solidarietà’ con uno dei due contendenti non è parte anch’essa del problema che abbiamo di fronte? Ovvero, della secessione della politica dalla sua deontologica missione della messa in forma dei conflitti?
Sui pro Netanyahu a prescindere non ho nulla da aggiungere. Non si possono negare i legami storici e la presenza ebraica nella Terra di Israele. Ma l’attuale governo israeliano si squalifica da sé per lo sfacciato sostegno a quel colonialismo d’insediamento che nega l’innegabile verità che il sionismo è nato al di fuori della Terra di Israele e che questa sia stata considerata patrimonio ebraico in un momento in cui più del 90% dei suoi residenti non erano ebrei. Come ad un certo punto ha riconosciuto nientemeno che l’intellettuale e padre politico della destra sionista Ze’ev Jabotinsky in un suo saggio del 1923, Sul muro di ferro. Jabotinsky, messe da parte le sue convinzioni sioniste, fondate sulla storia e sulle tradizioni religiose, giunse alla conclusione logica che, per la maggioranza della popolazione araba in Palestina, i sionisti erano degli invasori (https://www.rivistailmulino.it/a/l-altra-faccia-del-sionismo): “I miei lettori hanno un’idea generale della storia della colonizzazione in altri Paesi. Suggerisco loro di considerare tutti i precedenti con cui hanno familiarità e di vedere se c’è un solo caso di colonizzazione condotta con il consenso della popolazione autoctona. Un tale precedente non esiste”.
É sul giustificazionismo del terrorismo di Hamas che proverò, piuttosto, a spendere qualche considerazione. E anche in questo caso chi ha già letto un equilibrato contributo di Anna Momigliano sulle paradossali aporie in cui incorre questo giustificazionismo può passare oltre. Non aggiungerò, infatti, molto altro, se non una laterale e conclusiva considerazione sull’altrettanto sciagurata vocazione di questo stesso giustificazionismo ad alimentare non solo l’antisionismo ma anche l’antisemitismo. Ma procediamo con ordine.
Come in Algeria?
Non mi occuperò nemmeno dell’antisionismo becero e truce, da social media, che ha in qualche caso festeggiato il massacro di centinaia di civili israeliani (uomini, donne e bambini) in quanto atto di resistenza anticoloniale moralmente giustificato dal regime di apartheid israeliano, considerato unico responsabile della violenza. Si tratta di sentimenti e ‘ragionamenti’ ancora minoritari, benché diffusi in tante parti del mondo anche intellettuale.
Il punto è che più larghi orientamenti muovendo dal fatto incontestabile dell’esistenza di un regime di apartheid israeliano – due sistemi giuridici che discriminano tra due popolazioni che vivono nello stesso luogo è, per definizione, apartheid – finiscono per condividere il postulato dell’antisionismo becero e truce che terrorizzare la popolazione israeliana, all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti di Israele, sia un atto di decolonizzazione, magari eccessivo, magari giuridicamente non legittimo, ma giustificato dal fatto che chi l’ha commesso non è in torto.
Per sostenere ciò che è moralmente e politicamente insostenibile (perché non porta da nessuna parte, se non a quella violenza e disperazione cieca di cui parla Donato Caporalini) si violenta la storia anche recente. Quella – ricorda Anna Momigliano – dell’Algérie française. Per più di cento anni, tra il 1848 e il 1962, l’Algeria è stata parte integrante della Francia (non, dunque, una colonia, com’era stata in precedenza), pur mantenendo una caratteristica tipicamente coloniale. La maggioranza dei suoi abitanti, arabi musulmani, non aveva diritto di cittadinanza, ma conviveva con una grande minoranza (circa il 10%) di abitanti di origine francese, che godeva di piena cittadinanza. Quando il movimento per la liberazione algerina si energizzò, a partire dagli anni Cinquanta, lanciò una serie di azioni, anche violentissime e di natura esplicitamente terroristica, contro la popolazione civile dei pieds-noirs (appellativo spregiativo dato ai figli di genitori francesi nati in Algeria): l’obiettivo era rendere la loro vita impossibile, convincerli ad andarsene.
La decolonizzazione passava dal cacciare i francesi, non soltanto la Francia. Un paradigma, il paradigma algerino, buono – si postula – anche per porre fine all’oppressione palestinese. Perseguitare la popolazione israeliana sino al punto da convincerla a fare le valige. É la decolonizzazione, bellezza! (https://www.rivistailmulino.it/a/israele-il-sudafrica-l-algeria-e-noi).
La storia e la politica violentata.
Una violenza della storia. C’è, infatti, una differenza fondamentale tra Israele e l’Algérie française: a differenza dei pieds-noirs, gli israeliani non hanno una “Francia” a cui tornare. Si ha un bel dire “rimandiamoli da dove vengono”, ignorando che molti israeliani discendono da luoghi dove sarebbe impensabile ritornare. E poi, soprattutto la popolazione israeliana è radicata lì, esiste una realtà normalizzata, una nazione, un’identità israeliana, che è un dato di fatto. Israele non è l’Algeria. È un caso di “settler-colonialism” (il colonialismo dei coloni) che ricorda più Stati Uniti, Canada e, non per ultimo, il Sudafrica.
E qui subentra la seconda violenza. La violenza alla storia e alla politica anche più recente, quella del Sudafrica. Lì non v’era una popolazione di origine straniera, ma una popolazione “nativizzata” che opprimeva una popolazione indigena stricto sensu. Lì la decolonizzazione è passata, anche attraverso la lotta armata, dalla richiesta di diritti e di uguaglianza, non dalla cacciata degli “invasori”, che invasori ormai non erano più. Lì in Sudafrica l’apartheid è stata sconfitta abbattendo l’apartheid, non cacciando l’uomo bianco. Qui, applicando impropriamente e strumentalmente il paradigma algerino, si evoca l’odiosa e nativista idea di rispedire qualcuno “a casa sua”, una casa che gli israeliani non hanno più. Dov’è la politica che si occupa dell’umanità se la testa non va contemporaneamente, con la stessa passione, alla Palestina e a Israele?
Insomma, all’arrogante ignoranza dei sostenitori di Israele nel respingere ogni confronto tra Israele e altri casi di colonialismo di insediamento (settler colonialism) fa da paio l’arrogante incomprensione della storia da parte di chi dice di voler supportare senza sé e senza ma la causa palestinese. Un caos concettuale e politico che ostacola la nostra capacità di operare costruttivamente per una conclusione, per una messa in forma, di questo conflitto (https://www.rivistailmulino.it/a/l-altra-faccia-del-sionismo).
L’antisemitismo di ritorno
I danni non finiscono qui. L’antisionismo alimenta l’antisemitismo. L’antisemitismo c’è sempre stato nella storia e sembra non voler finire mai. Le capriole concettuali dei sedicenti antisionisti non antisemiti non reggono alla prova del clima. Oggi più di ieri si respira un’aria pesante.
Non c’è oggi ebreo in nessuna parte del mondo che non lo senta sulla propria pelle, anche quando è comodamente seduto sul divano di casa. Un’ebrea italiana ha chiesto in una “lettera aperta” spiegazioni di quanto sentito nel corso di una nota trasmissione televisiva della 7 (Propaganda Live) nella quale a un certo momento si parlava di Israele e Palestina: «forse ho sentito male ma la gentile giornalista tedesca che segue le vostre trasmissioni ha detto una cosa agghiacciante. Ha detto che, come tedesca, aveva avuto sempre un occhio di riguardo verso gli ebrei e Israele (!) ma che ora di fronte al “genocidio” di Gaza aveva cambiato idea e capito molte cose. Ho capito male?». L’ebrea italiana non ha avuto alcuna risposta e non l’avrà. Un silenzio sintomatico e assordante.
Caro Donato, Tu ricordi la celeberrima frase di Marx che recita che “la classe operaia britannica non sarà realmente libera fino a quando le popolazioni delle colonie non saranno libere”. Non contrapporrò citazione a citazione. Ti dico semplicemente che anche io e Te non saremo realmente liberi sino a quando un solo ebreo, un solo israeliano, un solo palestinese, saranno o si sentiranno in pericolo. Non per buonismo, ma per gratitudine.
Luigi Alfieri ricorda che i romani sono stati, ben prima di Hitler, i più grandi persecutori degli ebrei, anche quando si chiamavano Adriano il “buono”. È vero. Lo ricorda anche Luciano Canfora – in un denso capitolo del suo bel libro “Giulio Cesare. Il dittatore democratico” – che gli ebrei erano malvisti dal “romano medio”. Lo testimoniano le volgarità anti-semite di Orazio (Satire I, 4, 143; 5, 100; 9, 70). Ma anche Cicerone definiva il monoteismo degli Ebrei «barbara superstitio»; vi sono cenni sarcastici nella Difesa di Flacco, proconsole della Giudea che Cicerone difende da accuse per appropriazione indebita. Tiberio ne relega 4.000 in Sardegna e Tacito commenta riferendo la veduta corrente in Senato: «Se per la malaria fossero tutti morti non sarebbe stato un gran danno» (Annali II, 85, 4).
Ma è anche vero che Gaius Iulius Caesar fu salvato dagli ebrei nella guerra d’Alessandria e non lo ha mai dimenticato. Mostrando loro concreta riconoscenza con reiterati documenti ufficiali la cui approvazione impose anche al Senato romano, «non senza il presumibile “divertimento” di calpestare l’anti-semitismo dei Romani colti e incolti». Cesare, intimamente scettico, laico, con simpatie filo-epicuree, aperto per curiosità intellettuale a tutte le fedi, ma al tempo stesso consapevole del ruolo politico della religione a Roma (è pontifex maximus dal 63 e alla fine della sua vita anche augur!), è libero da pregiudizi nel suo rapporto con gli Ebrei.
Liberi da ogni pregiudizio – è questo il mio sentimento – anche noi. La Palestina in Testa, Israele in Testa. I palestinesi nel cuore, gli ebrei nel cuore. Per noi, ‘marxo-gramsciani’, si chiama “quistione”. Questione ebraica, questione israelo-palestinese. Ovvero, del ritorno della ragione, della politica, del diritto. Contro ogni demonizzazione assoluta dell’altro, del nemico. Nelle “martoriate” terre israelo-palestinesi, così come nelle “martoriate” terre russo-ucraine.