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cultura politica e costituzionale

IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

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IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

La guerra ideologica. A partire da un saggio di Michele Prospero

Le radici dei conflitti del nuovo secolo vanno ricercate nella "nuova dislocazione dei rapporti di forza" a livello mondiale; per questa ragione è necessario negoziare un allargamento della governance globale. E abbandonare l’ideologia idealistico-democratica che supporta il progetto unipolare americano.

«La guerra non solo rassomiglia al camaleonte, perché cambia di natura in ogni caso concreto» – scrive Carl Von Clausewitz nella sua celeberrima opera – ma ha anche l’aspetto di uno strano triedro composto dalla «violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto», dal caso e dalla ragione calcolante dell’autorità politica statale.

“La guerra è uno strano triedro”

Il primo di queste elementi corrisponde al popolo, il secondo al genio militare del condottiero, il terzo riguarda il governo che ha il compito di fissare gli obiettivi politici della guerra. Le passioni che nella guerra verranno impiegate –  scrive Clausewitz –,  «debbono già esistere nelle nazioni». Infatti, pur essendo la guerra un  fenomeno che scaturisce da una situazione politica e viene provocata solo da uno scopo politico, essa ha bisogno delle passioni e delle emozioni dei combattenti. Le quali, a loro volta, dipendono dall’esistenza di «un piano grandioso, collimante con esse. Quando il piano non mira a grandi scopi, anche le tendenze delle forze spirituali delle masse saranno  così deboli da richiedere che nelle masse si infonda un maggior impulso». (Clausewitz 1970). Insieme al genio militare e alla sagacia politica, la guerra necessita quindi dell’istinto e dell’odio delle masse, che si può ottenere soltanto con un’adeguata struttura ideologico-propagandistica in grado di suscitare e sostenere per tutto il tempo necessario l’inversione dell’ordine abituale dell’esistenza pacifica che la guerra, in quanto assassinio legalizzato di massa, costituisce. L’ideologia, intesa come discorso apologetico finalizzato a motivare l’ostilità e l’odio del combattente verso il nemico e il sostegno della popolazione civile alla lotta, rappresenta dunque una componente essenziale della guerra e da essa è inseparabile. Pur variando, ovviamente, in relazione alle circostanze e al tempo, il contenuto del discorso a sostegno e giustificazione della guerra mantiene alcune costanti. Come ogni ideologia, infatti, anche quella di guerra si presenta come una teoria capace di illuminare un oggetto altrimenti oscuro e, contemporaneamente, come un incitamento all’azione tesa a produrre una situazione nuova che corrisponda alla realizzazione di un bene oggettivo (o in alternativa alla reintegrazione di un bene vulnerato). Nell’ideologia di guerra c’è quindi sempre un “nemico metafisico”, che minaccia l’ordinamento oggettivo del mondo, e come tale merita di essere combattuto e detestato. In questo senso la dottrina della guerra giusta – che infatti spesso si presenta come una sorta di “tribunale armato” il cui compito è punire chi ha commesso il male – , è strettamente imparentata, nelle sue varie metamorfosi, con l’ideologia di guerra. E ciò può spiegare perché, di fatto, la dottrina della guerra giusta sia stata in realtà più uno strumento per fare la guerra che non per prevenirla, essendo quest’ultima rappresentata come una misura idonea a riparare la violazione dell’ordine oggettivo.

La parentesi dello Jus Publicum Europaeum

Si deve fare un’eccezione a questo impianto teorico per il breve periodo della modernità europea durante il quale si è cercato di mettere in forma la guerra, depotenziandola delle sue qualificazioni  etico-spirituali. All’interno di questo quadro teorico e giuridico la guerra non è più qualificata come giusta o ingiusta, ma come legittima se combattuta da justi hostes, cioè da persone giuridiche (gli Stati sovrani) detentrici del potere di muovere guerra (jus ad bellum) e di condurla entro un quadro di regole definite (jus in bello). È Hobbes che con maggior rigore ha spiegato che «fare la guerra e la pace con le altre nazioni e gli altri Stati» è un diritto che inerisce alla sovranità Conseguentemente il conflitto non può avere come scopo l’annientamento del nemico e le operazioni militari devono svolgersi entro determinati confini, mettendo al bando il fanatismo e la ferocia, in particolare nei confronti delle popolazioni civili, dei feriti e dei prigionieri. Già però le guerre napoleoniche costituirono una cesura rispetto a questo modello (e la riflessione di Clausewitz ne è una conferma). Saranno poi le guerre novecentesche e le successive paci a porre fine al progetto di razionalizzazione e umanizzazione della guerra perseguito dallo Jus Publicum Europaeum.

L’ideologia democratica della guerra e le sue aporie

Se da una parte però, le norme del diritto internazionale (dal trattato Briand-Kellogg allo Statuto delle Nazioni Unite) e alcune Costituzioni, come quella italiana, hanno negato l’esistenza di uno Jus ad bellum, dall’altra molti Stati hanno continuato a farsi la guerra, ampliandone il potenziale distruttivo e  le interconnessioni con le infrastrutture civili, informative, economiche e culturali (guerra ibrida). Si è venuto in questo modo progressivamente attenuando il discrimine tra guerra e non guerra. L’esistenza di coalizioni militari – in questo senso del tutto diverse dalle alleanze esistenti prima del 1945 –  impegnate permanentemente nella pianificazione, preparazione e addestramento in vista dei conflitti e il ricorso a misure economiche  e/o giuridiche discriminatorie nei confronti di paesi con i quali non vi è uno stato di belligeranza dichiarata, ha reso sempre più labile il confine tra guerra e pace.

Contemporaneamente, però, le società occidentali, e non solo esse, hanno visto diffondersi nella pubblica opinione, grazie anche a movimenti e iniziative politiche finalizzate a contestare la legittimità dei conflitti militari, la tendenza a pensare  la guerra in termini negativi. Se fino alla metà del XX secolo la guerra rappresentava un evento normale nella esistenza di un individuo e in molti paesi europei erano diffuse ideologie nazionalistiche risolutamente belliciste, spesso fondate su presupposti razzisti, dopo  quella data una  Kriegsideologie simile a quella sviluppatasi in Germania a partire dal primo conflitto mondiale (Losurdo 1991) , o una ideologia della guerra coloniale di conquista e della guerra civile, come quelle presenti in Gran Bretagna e Francia  fino alla fine del XIX secolo, potevano sopravvivere solo in circoli culturali e politici estremamente circoscritti. Il secondo dopoguerra e, soprattutto, il dopo Guerra Fredda, hanno visto dunque svilupparsi un fenomeno contraddittorio: mentre si accentuava il processo di militarizzazione dei rapporti internazionali, si moltiplicavano gli scenari nei quali si verificavano interventi armati e le  guerre tendevano a cronicizzare, sottoforma di guerre civili permanenti internazionalizzate e senza soluzioni definitive, le opinioni pubbliche  tendevano invece a considerare la guerra come un resto arcaico, al più confacente alla situazione dei paesi extraeuropei non del tutto civilizzati.

L’esistenza di questo contrasto ha reso più complesso il problema della elaborazione di un’ideologia bellica che, come abbiamo visto, rappresenta un elemento costitutivo del triedro della guerra, anche nella forma ibrida e ubiqua  assunta negli ultimi decenni. Ed è certamente uno dei meriti maggiori del saggio di Michele Prospero, L’ideologia della guerra, “Teoria politica” nuova serie, annali XII, 2022, pp 47-72, quello di aver analizzato in particolare gli elementi caratteristici dell’”ideologia democratica della guerra”, che già a partire dagli anni ’90 del secolo scorso ha proposto la dimensione bellica come scontro etico per l’allargamento della democrazia. Questa lettura delle relazioni internazionali ha la sua matrice nelle elaborazioni dell’amministrazione Clinton. Nel nuovo contesto prodotto dalla fine del bipolarismo esse hanno teso ad autorappresentare la missione americana, e occidentale, come l’affermazione di un modello politico, quello democratico, all’interno dei singoli stati. Conseguentemente, la ricerca di rapporti di forza favorevoli ai propri interessi geopolitici è stata cancellata dalle ragioni del ricorso alle armi. Non si tratta per la verità, di una costruzione inedita. A ben guardare questa narrazione ha forti analogie con altre analoghe giustificazioni dei conflitti, a cominciare naturalmente da quella che ha sostenuto il lungo confronto della Guerra Fredda. Ma già nel corso della Prima guerra mondiale  i paesi dell’Intesa erano ricorsi ai diritti umani e alla “crociata per la democrazia” per giustificare lo scontro con gli imperi centrali, nonostante la presenza nel loro schieramento della Russia zarista.

L’innocenza dell’Occidente

Il tratto comune di tutte queste costruzioni retoriche è l’esaltazione delle ragioni di carattere etico-spirituale e il contestuale disprezzo per le considerazioni di carattere utilitaristico e per le eventuali convenienze materiali. Anche in questo caso, a ben guardare, possiamo rintracciare dei modelli retorici tutt’altro che rassicuranti per questa tendenza all’autoassoluzione. Richiamando quella che lei stessa definisce la “leggenda di fondazione” dell’impero inglese, Hannah Arendt ricorda come Rudyard Kipling descriva il modo quasi involontario e disinteressato con cui l’inglese diventa “padrone del mondo”: «Conquisterete il mondo … Ma né voi né i vostri figli otterrete alcunché da quella piccola impresa (…) i vostri figli (…) saranno sempre un po’ sopravvento ad ogni nemico – affinché possano essere una salvaguardia per tutti quelli che passano sui mari». (Arendt 1999)  L’innocenza dell’Occidente si rivela così come uno dei costrutti ideologici essenziali della sua concezione delle relazioni internazionali.  Conseguentemente, rileva Prospero, vengono emarginate le posizioni di coloro, realisti e marxisti, che individuano nell’interesse il fattore determinante dei fenomeni politici, e vedono nelle idee una componente importante delle scelte politiche, purché esse siano funzionali o non conflittuali rispetto agli interessi materiali e ai disegni geopolitici.

La scelta di dare ai conflitti geopolitici una giustificazione valoriale può essere considerata sia un’esigenza connessa al carattere strutturalmente militare che ha assunto il progetto di governo unipolare all’interno di un contesto giuridico e culturale invece fortemente caratterizzato dal  rifiuto della guerra, sia l’espressione del bisogno esistenziale dell’Occidente di dare anche in questo campo un fondamento alla propria pretesa superiorità spirituale e civile. Non si tratta, peraltro di istanze contraddittorie. Anche se i disegni geopolitici che sono sottesi alla retorica dell’ideologia di guerra possono costringere spesso alla menzogna, o quanto meno all’esagerazione dei pericoli per giustificare i costi e la frequenza degli interventi militari nei più svariati scenari. Si tratta di una pratica che abbiamo visto teatralmente in atto in occasione della riunione del Consiglio di sicurezza nella quale Colin Powell mostrò le prove dell’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq.  Ma che  in fondo è una costante della politica americana. Come ricorda Giovanni Arrighi, la stessa politica di sicurezza in Europa e il conseguente massiccio riarmo dopo la fine della seconda guerra mondiale, nonché il programma di investimenti del piano Marshall, furono ottenuti “spaventando a morte il popolo americano”, così  da ottenere l’approvazione da parte del Congresso di misure che altrimenti non sarebbero apparse giustificate sul piano fiscale e del calcolo costi-benefici. (Arrighi 1996).

Liberal intollerance e hybris bellica

La conseguenza che secondo Prospero discende però dall’impostazione valoriale dell’ideologia che giustifica il ricorso alla forza (188 interventi militari da parte degli Stati Uniti tra il 1992 e il 2017) è la formazione di un “antipluralismo liberale” , che «respinge come estranee le altre organizzazioni statuali» e attribuisce ai paesi democratici una sorta di “monopolio dell’uso legittimo della violenza”. E ciò in contrasto con le norme del diritto internazionale, che non contemplano la possibilità di una guerra per la democrazia, ma considerano solo la sovranità come requisito per l’appartenenza alla comunità delle nazioni indipendenti e come bene da proteggere con le misure previste dallo Statuto dell’ONU. Voler impostare i rapporti tra gli Stati sulla base di questa asimmetria valoriale finisce non solo per creare le condizioni per uno stato di continua tensione e conflittualità (anche perché la giustificazione valoriale è solo una copertura per il perseguimento di obiettivi di potenza), ma rende più difficile la definizione di limiti ai conflitti una volta che essi si sono prodotti. Nel caso ucraino questo si traduce nella negazione del riconoscimento dell’esistenza di confini del diritto di autotutela esercitato dalla parte aggredita. Inoltre, la cancellazione di ponderabili valutazioni di carattere politico tra gli elementi che sono alla base dei conflitti, finisce per rendere impossibile ogni spazio di mediazione, con il rischio conseguente, ben presente nel caso ucraino, di un esito catastrofico.

L’ideologia della guerra di aggressione russa

A questo punto è però necessario domandarsi quale sia l’ideologia della guerra adottata dalla Federazione russa, che ha intrapreso una guerra di aggressione in violazione del diritto internazionale.  E dobbiamo domandarci se essa sia strutturalmente diversa da quella occidentale. Da questo punto di vista possiamo osservare una sostanziale omogeneità tra le due. Per entrambe, infatti, la giustificazione etica copre il perseguimento di obiettivi di potenza. Infatti per giustificare la sua criminale aggressione, il Presidente russo ricorre ad argomenti umanitari (la difesa dei diritti umani delle minoranze russe), insieme alla volontà di estirpare la presenza del nazismo nello Stato ucraino e ristabilire la comunione etnica e culturale di un popolo artificialmente separato dalle sciagurate decisione dei bolscevichi. Anche l’uso di alcuni termini, “operazione” al posto di guerra, rifà il verso al lessico utilizzato in passato per giustificare gli interventi armati occidentali. Il carattere ideologico di queste argomentazioni è palese. Ma la funzione delle ideologie non è quella di descrivere oggettivamente la realtà, anche se nel loro amalgama possono essere presenti elementi di verità, insieme a molte mistificazioni. Se, infatti, è certamente vero che in Ucraina era in atto da tempo uno conflitto etnico-culturale, la maggior parte delle ragioni che hanno spinto la Russia all’invasione hanno a che fare con lo scontro geopolitico con gli Usa. Da questo punto di vista sarebbe però sbagliato leggere l’invasione dell’Ucraina in termini solo difensivi, cioè come risposta all’”avanzata” della Nato. Le iniziative in Siria, Sudan e in Libia dimostrano che l’uso della forza militare fa parte a pieno titolo della politica putiniana. Che ha cercato di approfittare della crisi Usa, conseguente ai fallimenti in Afghanistan e Iraq, per affermare un proprio ritorno come potenza geopolitica e compensare il sentimento di frustrazione prodotto dalla fine dell’URSS.  L’invasione dell’Ucraina, successiva alla disfatta USA in Afghanistan, non è estranea a questa dinamica. Alla quale si possono ricondurre anche altre iniziative, ad esempio quelle della Turchia. E ciò non fa che confermare che la crisi dell’egemonia americana e la sua gestione stiano accentuando l’instabilità e il protagonismo di numerosi attori. Tuttavia il caso ucraino presenta dei suoi tratti peculiari, strettamente connessi alla storia e alla identità dei due paesi. Ciò fa sì che in quel contesto si combattano molteplici guerre (etnico-territoriale, per la conquista del mare, geopolitica), ma «tra di esse non compare la polarità democrazia-autocrazia». Ha  ragione Prospero a sottolineare quanto abbia pesato l’errore strategico commesso dagli Sati Uniti con la firma del Charter on Strategic Partnership, nel quale è previsto non solo il «sostegno alle legittime aspirazioni dell’Ucraina a entrare nella Nato», ma anche lo sviluppo dell’interoperabilità nel quadro della massimizzazione del suo status di Nato Enhanced Opportunities Partner. Non a caso il progetto di Trattato tra federazione russa e Stati Uniti, presentato dalla prima alla vigilia dell’invasione e mai discusso, comprendeva tra le sue clausole proprio il divieto di cooperazione militare bilaterale tra Stati Uniti e paesi che facevano parte dell’Unione Sovietica e non fossero membri della Nato (articolo 4). Detto, ciò, è pur vero, come rileva Prospero, che le intenzioni di Putin non hanno niente a che fare con  gli obiettivi assurdi e irrealistici, anche alla luce della effettiva forza militare e della potenza economica della Federazione russa, che gli vengono attribuiti in Occidente, ma ha certamente l’ambizione di restituire alla Russia una parte del prestigio e del ruolo perduti con la caduta dell’Urss. Ciò non significa che siano prive di fondamento le preoccupazioni per la propria sicurezza espresse a più riprese dalla leadership russa.  Esiste d’altra parte un nesso necessario tra ambizioni di potenza e sicurezza. Anche il nazionalismo russo, che si è poi evoluto in revanscismo, non è solo una reazione alle umiliazioni subite con la perdita dello status di grande potenza,  ma anche un modo per preservare la propria autonomia ideologica, da cui, secondo Gramsci intelligentemente citato da Prospero, dipende – insieme all’estensione del territorio, alla forza economica e alla forza militare –  il posto di uno Stato nella gerarchia delle potenze. (Gramsci, 1975)  È infatti questo l’elemento che contraddistingue le grandi potenze,  e consente loro di dare una direzione autonoma alla loro azione, senza subire l’influsso altrui; anzi,  riuscendo a esercitare esse un influsso su altri paesi. Da ciò si può ricavare che tanto maggiore è la posizione ideologica di una potenza, tanto minore sarà la necessità di ricorrere alla forza militare per ottenere che il proprio avversario si sottometta alla sua volontà. O anche per ricevere il sostegno di altre potenze, qualora decida di ricorrere a un atto di forza. Anche in questo caso possiamo osservare una certa analogia di tendenza nel modo con il quale sono state accolte, dai paesi non direttamente coinvolti, le ultime iniziative militari di Usa e Federazione russa, a dimostrazione del fatto che nessuna di queste è apparsa pienamente convincente sul piano ideologico.  Gli Usa, infatti, hanno fornito numerosi esempi del loro modo di intendere la guerra come strumento “alla mano” per estendere e/o preservare la propria posizione dominante. Non solo con il ricorso diretto alle armi, ma anche con la costruzione di alleanze militari permanenti, la spesa militare, le sanzioni economiche e le operazioni coperte effettuate dalla Cia con personale e fondi non militari, anche nei confronti di paesi democratici. (Mini 2021) . E Putin ha da parte sua mostrato, sia all’interno che in politica estera, di considerare “normale” il ricorso alla forza per sciogliere i nodi politici.

La sinistra è fuori dalla storia se non legge le contraddizioni del presente

Interrogandosi su quale potrebbe essere l’evoluzione futura del sistema di rapporti internazionali nel corso del XXI secolo, Giovanni Arrighi si domandava perché non fosse possibile cercare una soluzione negoziale alla lotta autodistruttiva per il controllo delle capacità produttive dei capitali eccedenti mondiali che la globalizzazione ha collocato nell’Asia orientale. «Perché non riconoscere i fondamentali limiti che lo spostamento dell’epicentro dei processi sistemici di accumulazione del capitale verso l’Asia orientale pone alle capacità di formazione statale e di conduzione della guerra dell’Occidente, indipendentemente dal fatto che queste capacità possano sembrare, o siano in realtà, senza precedenti e senza uguali? Perché, in altri termini non consentire al capitale dell’Asia di dettare le condizioni alle quali sarebbe disposto a sostenere l’Occidente al potere?». È in fondo lo stesso quesito che ricorre costantemente nelle ultime pagine del saggio di Michele Prospero, tutto teso a sottolineare come le ragioni del disordine e dei conflitti vadano ricercate nella «nuova dislocazione dei rapporti di forza» a livello mondiale, e che ciò impone un allargamento della governance globale. Una delle vittime principali del prevalere dell’ideologia idealistico-democratica che supporta il progetto unipolare è proprio l’Europa, chiamata a legittimarlo sul piano culturale e costretta a rinunciare a una propria visione autonoma. Ma l’altra vittima e senz’altro la sinistra, qualunque cosa si intenda con questo termine. Una parte di essa appare infatti completamente irretita all’interno della lettura ideologica dei rapporti internazionali come  scontro tra democrazie e autocrazie. Sorda e afona di fronte al tema, tutto politico, della rinegoziazione dei rapporti di forza e della governance globale tra le aree del mondo che sono in ascesa e quelle che sono in declino sul piano economico, demografico e tecnologico. L’altra parte non riesce a dimostrarsi convincente. Già Arrighi metteva in guardia i paesi occidentali dal proposito di riprendere il controllo sui capitali eccedenti, poiché questa intensificazione delle pressioni concorrenziali avrebbe finito per disgregare la loro coesione sociale. Ed è esattamente quanto sta avvenendo. Con la conseguente crescita delle forze della destra, di cui i risultati elettorali in molti paesi europei sono solo il sintomo più recente. La rinuncia a “leggere” le contraddizioni del presente in chiave sistemica e politica sta consolidando il vento di destra che spinge, purtroppo, la sinistra fuori dalla storia.

 

Testi citati

Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, 1999.

Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore 1996.

Carl Von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, 1970.

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi 1975.

Domenico Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra», Bollati Boringhieri, 1991.

Fabio Mini (a cura di), L’arco dell’impero con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità, di Qiao Liang, Leg Edizioni.

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