Ogni femminicidio, che l’immaginario comune continua ad erotizzare, è un messaggio che conferma che «qualcosa di molto importante» per l’ordine attuale del mondo poggia sulla subordinazione delle donne, sulla lora esclusione e riduzione a vittime. L’antidoto? Ritessere il tessuto della comunità, abbattere i muri che incapsulano gli spazi domestici e ripristinare la politicità propria della vita comunitaria. Una tesi controcorrente e provocatoria che, tuttavia, si fonda su una documentata e spietata rappresentazione del capitalismo apocalittico dei nostri giorni e della sua pedagogia della crudeltà. Una convinzione che è frutto di un intenso lavoro accademico combinato con l’attivismo nell’ambito delle questioni che intrecciano genere, razzismo e colonialismo all’interno delle comunità latinoamericane e indigene. Una chiave di lettura ‘particolare’ e ‘universale’ con la quale fare seriamente i conti. Cominciamo a farlo con un estratto di alcune pagine del suo libro.
Alle radici del patriarcato coloniale moderno. Il capitalismo apocalittico
La riduzione alla sfera privata, la minorizzazione e la trasformazione delle aggressioni letali contro le donne in problemi di interesse particolare o questioni delle minoranze è la conseguenza di questa transizione dal patriarcato a bassa intensità del gruppo maschile nel mondo comunitario al patriarcato coloniale/moderno ad alta intensità di dominio universale. L’effetto della minorizzazione si sente, ad esempio, nel valore residuale che i femminicidi e i crimini omofobi assumono, venendo ridotti quasi a uno spettacolo nella prassi legale e nell’orizzonte mediatico dell’America Latina. Allo stesso tempo, noi femministe con le nostre istanze ci pieghiamo a trattarli come temi specifici, compartimentati e ghettizzati, In questo modo si ignora che tutte queste violenze contro le «minoranze» non sono altro che il disciplinamento che le forze patriarcali impongono a tutti noi che abitiamo quel margine della politica. Si tratta di crimini del patriarcato coloniale/moderno ad alta intensità contro tutto ciò che lo destabilizza, contro tutto ciò che sembra cospirare e sfidare il suo controllo, contro tutto ciò che scivola fuori dalla sua egida con le varie strategie tattiche quotidiane con cui molti di noi, di proposito o inavvertitamente, scivolano e fuggono alla sorveglianza patriarcale e le disobbediscono (…). Tuttavia, noi donne continuiamo a morire, la nostra vulnerabilità all’aggressione letale e alla tortura fino alla morte non è mai stata presente quanto lo è oggi nelle guerre informali contemporanee; il nostro corpo non è mai stato così tanto controllato o così medicalmente manipolato nel perseguimento di un’allegria obbligatoria o di un adattamento a un modello coercitivo di bellezza. Mai prima d’ora l’assedio della sorveglianza sull’aborto è stato così serrato e, sintomaticamente, non è mai stato un argomento di discussione così acceso come lo è oggi, nella modernità avanzata. Riflettendo sul tema da questa prospettiva (…), capiamo che qualcosa di molto importante deve sicuramente basarsi e dipendere da questa distruzione costantemente rinnovata del corpo femminile, nello spettacolo del suo soggiogamento, nella sua subordinazione quando viene esposto. Qualcosa di centrale, di essenziale, fondante per il «sistema» deve sicuramente dipendere dal fatto che la donna non esca da quel luogo, da quel ruolo, da quella funzione (…). Tutti gli indizi mostrano che si tratta di un edificio il cui materiale è composto dall’amalgama di organizzazioni e stato; di alleanze di ogni genere tra attori corporativi, leciti o illeciti o di entrambi i tipi, e da agenti del governo; da ragioni invocate come «ragioni di stato» che in realtà sono «ragioni di impresa». In un mondo in cui già nel 2015 l’1 per cento dei suoi abitanti era riuscito a concentrare nelle proprie mani più ricchezza del restante 99 per cento (…), in un mondo in cui l’1 per cento della popolazione degli Stati Uniti è proprietaria della totalità della terra utilizzabile in quel paese immenso (…) non possiamo più parlare di semplice disuguaglianza, ma piuttosto che il tema è oggi la «padronità» o la «signoria». Signoria assume qui il significato preciso di un piccolo gruppo di proprietari che sono padroni della vita e della morte del pianeta. Sono soggetti discrezionali e arbitrari di un potere dotato di una estensione mai vista prima, che rende fittizi tutti gli ideali della democrazia e della repubblica (…). Questa immunità del potere economico inaugura una fase apocalittica del capitale, completamente anomica (…) che in America Latina si manifesta sotto forma di un’amministrazione mafializzata e malavitosa degli affari, della politica e della giustizia (…) che non deve essere considerato svincolato da un ordine globale e geopolitico (…). La criminalità e l’accumulazione di capitale con mezzi illegali non sono più eccezionali ma si sono trasformati in strutturali e strutturanti della politica e dell’economia.
Conquistabilità, disciplinamento, pedagogia della crudeltà
Da questo schema emerge, nuda e cruda, la pratica di spezzare via i popoli dai territori da loro occupati, tradizionalmente o ancestralmente. Dalla colonialità si assiste ad un ritorno alla «conquistabilità», senza i vincoli e i limiti che, per lo meno o in qualche forma e in qualche caso, la presenza della chiesa imponeva un tempo all’avidità coloniale (…). In questo contesto storico la compassione, l’empatia, i legami, il radicamento locale e comunitario, così come tutte le devozioni a forme del sacro in grado di contenere delle reti collettive solide, operano in disfunzionalità con il progetto storico del capitale (…). In questa fase estrema e apocalittica, nella quale depredare, trasferire in maniera coatta, sradicare, schiavizzare e sfruttare il più possibile rappresenta il cammino dell’accumulazione, questa è la meta che orienta il progetto storico del capitale; ridurre l’empatia umana e addestrare le persone affinché riescano a praticare, tollerare e convivere con atti di crudeltà quotidiana è qualcosa di profondamente strutturale. Deve essere per questo che una strategia principale delle guerre contemporanee, guerre con un alto grado di informalità, in America Latina e in Medio Oriente, è la strategia della profanazione. Per questo oggi gli esperti parlano di una «femminilizzazione della guerra» (…). Esercizio dell’indifferenza di fronte alla crudeltà, provata e addestrata, con impunita ferocia, sul corpo della donna e dei giovani (…) soggetti che non corrispondono al soldato dell’organizzazione armata nemica (…) un addestramento a condurre una vita priva di sensibilità nei confronti della sofferenza altrui, senza empatia, senza compassione, attraverso il godimento incapsulato del consumatore, in balia dell’individualismo produttivista e competitivo delle società, che definitivamente, non sono più relazionali ( …). Oggi la lezione della guerra informale, parastatale, nelle sue varie forme, è entrata nelle case, e la soglia della sofferenza empatica è stata rimossa. In Guatemala la guerra ha lasciato una sequela di spazi domestici indigeni e contadini ultra violenti: attenzione, non si tratta del contrario, come sostiene un certo pensiero femminista eurocentrico. La violenza sessuale e femminicida non è passata dalle case alla guerra, la sua rotta è stata all’inverso (…). Ai giorni nostri (…) il crimine intimo passa ad avere caratteristiche di crimine bellico: la disposizione della vittima all’aria aperta, nei fossi, nelle discariche e nelle fogne (…). È per tutto questo che (…) la personalità psicopatica sembra essere oggi la struttura di personalità meglio attrezzata per operare in modo funzionale nell’ordine della fase apocalittica del capitale. Il profilo psicopatico, la sua inettitudine a trasformare l’efflusso ormonale in emozione e affetto, la sua necessità di ampliare costantemente lo stimolo per raggiungere il suo effetto, la sua struttura decisamente non relazionale, la sua pelle insensibile al proprio dolore e, di conseguenza a maggiore ragione, al dolore degli altri; la sua alienazione, l’incapsulamento, il suo sradicamento dai propri paesaggi e dai legami collettivi, la relazione strumentale e reificata con gli altri, tutto questo sembra essere indispensabile per funzionare adeguatamente in un’economia segnata dall’estremo della disumanizzazione e dall’assenza di limiti all’approccio predatorio sui corpi e sui territori, che lascia indietro solo resti. È così che una pedagogia della crudeltà si presenta come il terreno di incubazione di personalità psicopatiche apprezzate dallo spirito del tempo e funzionali a questa fase apocalittica del capitale (…). La sofferenza e l’aggressione imposte al corpo delle donne, così la spettacolarizzazione, banalizzazione e naturalizzazione di quella violenza, costituiscono la misura del deterioramento dell’empatia, in un processo adattivo strumentale alle forme correnti di sfruttamento della vita.