Il terzo fronte: l’European Neighbourhood Policy
Il processo di alienazione politica della Russia stava per giungere ad una completa maturazione. Alle questioni dell’allargamento della NATO e alle problematiche derivanti dalle politiche di promozione della democrazia (rivoluzioni colorate e primavera araba), si aggiunse ben presto un terzo fronte. Provata dalle fatiche dell’allargamento, l’Unione Europea aveva inaugurato, già nel 2003, la European Neighbourhood Policy , un nuovo approccio per costruire le relazioni esterne dell’UE con quei paesi, a sud e ad est dei propri confini, la cui integrazione nel tessuto dell’Unione non era in programma né nell’immediato, né in un ragionevole futuro, poiché mancava un solido consenso politico. Nello “Strategy Paper” si chiariva che la Politica europea di prossimità era:
volta ad evitare l’emergere di nuove linee divisorie tra l’Ue allargata e i suoi vicini e ad offrire a questi ultimi la possibilità di partecipare a varie iniziative dell’Ue, attraverso una maggiore cooperazione politica, di sicurezza, economica e culturale.
La tentazione di una soluzione burocratica, a quello che rappresentava un problema eminentemente politico, derivava dall’incapacità dell’Unione di rispondere a una domanda essenziale e fondamentale relativa alla natura stessa del progetto di integrazione: dove erano i confini dell’Europa? E, dunque, cos’era Europa e cosa non lo era? Un conto era lo spazio del Trattato di Roma, vincolato dalla geografia politica della guerra fredda con le sue peculiari fratture; un altro conto era lo spazio apertosi con il 1989, dove i confini erano diventati più confusi e indistinti. Per circa un quindicennio, l’Unione Europea aveva lasciato alla NATO un ruolo di supplenza e, all’inizio del nuovo secolo, Romano Prodi (all’epoca presidente della Commissione) – pur convinto che un allargamento senza limiti avrebbe comportato il rischio di una diluizione del progetto politico europeo – non poteva che ribadire la perdurante necessità “di un dibattito in Europa per decidere dove si trovano i limiti dell’Europa”.
Questo problema di fondo si ripresentava, semplicemente irrisolto, anche nel contesto del nuovo approccio segnato dalla European Neighbourhood Policy ed era responsabile della sua fondamentale ambiguità: dietro la retorica inclusivista della “Wider Europe”, si tracciava un confine netto tra gli Stati con la prospettiva della membership (secondo le modalità previste dall’art. 49 del Trattato sull’Unione Europea) e gli “altri” (per i quali era stata, appunto, escogitata la ENP). A questi ultimi si prospettava la possibilità di un intenso approfondimento delle relazioni, ma con la clausola limitativa – anch’essa prodiana – dello “share everything with the Union but institutions”. (…)
L’obiettivo sostanziale dell’Action Plan era quello di influenzare le politiche interne ed estere dei paesi “esterni”, attraverso l’attivazione di un processo riformatore che equivaleva all’assimilazione del modello normativo europeo. Non c’era granché da negoziare: era l’Unione Europea a rappresentare the right side of history; agli “altri” paesi non restava che decidere come rispondere (ed eventualmente adattarsi) alla potente attrazione gravitazionale esercitata dall’Unione. Al netto della retorica del ‘partenariato’, il presupposto stesso di un’egemonia normativa determinava una relazione necessariamente asimmetrica: era l’Unione Europea a decidere forme e contenuti, mentre i paesi coinvolti potevano solo sottoscrivere gli accordi e impegnarsi a rispettarli, senza che, peraltro, ciò li avrebbe resi membri a tutti gli effetti.
Prevedibilmente, i russi si sottrassero a questa prospettiva.
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Il ruolo dei neo-europei e il “problema tedesco”
La circostanza che un primo disegno della Eastern Partnership prendesse forma per iniziativa del Ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski (affiancato successivamente dallo svedese Carl Bildt) non lasciava molto spazio alla fantasia. (…) Ciò a cui Sikorski dava voce – al netto delle clamorose intemperanze verbali – era il riflesso delle reali preoccupazioni strategiche degli Stati Uniti: la Germania aveva remato contro al momento dell’invasione dell’Irak ed ora – indifferente alle priorità e al presunto fondamento normativo (la Moralpolitik) delle relazioni transatlantiche – intesseva una fitta trama di rapporti economici con Mosca. Era innanzitutto sul tracciato delle vecchie e nuove pipelines – che strutturavano il mercato europeo dell’energia – che prendevano corpo una nuova Ostpolitik (un anatema per gli strateghi a Washington) e le nuove linee di un approccio realista costruito sulle prospettive geo-economiche di un potente grumo di interessi industriali legato al settore delle esportazioni (in primo luogo, l’Ost-Ausschuss der Deutschen Wirtschaft). Nelle visioni americane più allarmate, la crisi dell’atlantismo e dell’europeismo stavano generando un vuoto nel quale prendeva forma una nuova “middle zone”, più simile alla Mitteleuropa bismarckiana (benché totalmente priva degli accenti militaristici prussiani) che all’Europa federativa di Monnet e Schumann. Grazie all’unificazione monetaria (la sostanziale svalutazione competitiva che l’euro garantiva rispetto al Marco) e al nuovo sistema di relazioni economiche con i paesi dell’Europa centroorientale, la Germania aveva costruito un poderoso sistema industriale che accumulava surplus commerciali e si proiettava ben oltre i confini dell’area euro-atlantica. Era in virtù di questi orientamenti – secondo i critici polacco-americani – che la Germania aveva scelto il Nord Stream (marginalizzando, in prospettiva, i gasdotti ucraino e polacco) e si era opposta allargamento della NATO a Kyiv e a Tblisi. In breve, per Washington, l’esistenza di questa anomalia – ad un ventennio dal crollo del Muro di Berlino – sanciva una rinascita del “problema tedesco”, nelle forme inedite di una tendenziale disarticolazione del compatto strategico occidentale. Quell’anomalia doveva essere sanata.
In questo contesto, la vicenda della Eastern Partnership portava in sé tutte le premesse per trasformarsi non solo in un aspro confronto con la Russia, ma anche, in una forma più obliqua ed indiretta, in una resa dei conti interna all’Unione Europea (e, più in generale, al mondo atlantico) sugli orientamenti, il ruolo e la stessa identità geopolitica dell’Unione Europea.
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Anche nella Repubblica Ceca si affermò un’interpretazione geopolitica della Eastern Partnership, soprattutto dopo l’arrivo al potere, nel 2006, di un nuovo governo di destra, fortemente atlantista, che intavolò negoziati con il governo americano per l’installazione nel paese di un sistema di difesa antimissile. Il governo ceco elaborò, nell’aprile del 2008 (dunque, ancor prima del lancio ufficiale dell’iniziativa polacca), una proposta di sviluppo della European Neighboorhoud Policy che puntava a separare le politiche dell’UE verso i paesi del vicinato orientale, da quelle orientate alla Russia18. Il dibattito interno alla nuova classe dirigente praghese era tutto costruito all’interno di una narrativa da guerra fredda che puntava alla costruzione di una cintura protettiva di paesi tra la Repubblica Ceca e la Russia e, simultaneamente, a privare quest’ultima di qualsiasi influenza sui paesi del partenariato orientale: si passava così dall’orizzonte del containment a quello del rollback. Nella “mappa mentale” dei dirigenti praghesi, il paese era rappresentato come fatalmente posizionato sul margine orientale dell’Europa, con il rischio costante di cadere in un ‘abisso’. (…)
Washington trova una provvidenziale “porta sul retro”
L’evidenza che la Eastern Partnership si fosse trasformata, nel giro di pochi anni, da progetto mirante a costruire un’area comune di prosperità, stabilità e crescente cooperazione, a spazio contestato di visioni geopolitiche in competizione, era ulteriormente confermata dall’interesse crescente degli Stati Uniti. Nel novembre del 2013 – a due settimane da quel Vertice di Vilnius dal quale la crisi Ucraina avrebbe preso il suo drammatico avvio – la Eastern Partnership divenne oggetto di un ciclo di audizioni al Senato Americano.
A parti capovolte, sarebbe apparso assai difficile (oltre che bizzarro) immaginare il Parlamento Europeo impegnato in audizioni relative a progetti regionali americani nell’area caraibica o in Centro-America. Ma l’indagine del Senato americano era di per sé una conferma del fatto che la partita in gioco in Europa era ormai esplicitamente riconosciuta come parte di un più ampio disegno transatlantico, nel quale la Eastern Partnership rappresentava solo l’ultimo strumento del processo di allargamento del compatto strategico occidentale: era difficile offrire una conferma più sfacciata ai timori espressi, sin dal 2008, nei corridoi del Cremlino. Sulla Eastern Partneship – già zavorrata da considerazioni civilizational e da preoccupazioni geopolitiche – calavano ora le valutazioni strategiche degli Stati Uniti. Nel suo intervento, Damon M. Wilson (vicepresidente del think tank “Atlantic Council”) riconosceva che, nel suo paese, “[m]olti sostengono che gli Stati Uniti non abbiano bisogno di una strategia verso l’est dell’Europa, o meglio che la migliore strategia degli Stati Uniti sia quella di lasciare l’UE alla guida e rimanere in silenzio” (alludendo, probabilmente, allo stesso Presidente Obama). Ma si trattava di un errore, a suo giudizio, poiché gli esiti del Vertice europeo di Vilnius avrebbero avuto “enormous strategic consequences for US interests”. La Eastern Partnership rappresentava “the latest instrument of a common transatlantic grand strategy” e poiché “we must also recognize that our work is not done”, era proprio da lì che bisognava partire per portare a compimento quella strategia.
In breve, evocando un legame strategico che, senza soluzione di continuità, connetteva la Eastern Partnership al generale processo di allargamento dello spazio euro-atlantico e riconoscendo il fatto che l’espansione della NATO, dopo le disavventure del Vertice di Bucarest del 2008, era approdata ad una “temporary pause”, Damon M. Wilson invitava gli Stati Uniti ad intervenire con una propria chiara e articolata strategia come se la vicenda del partenariato orientale offrisse una nuova opportunità – una sorta di back door option – in grado di rimettere in moto il processo di allargamento. Mosca era servita: un processo entrato in stallo per i veti incrociati e le contraddizioni interatlantiche, poteva ora riavviarsi da una porta sul retro, accuratamente predisposta dalla lunga e paziente tessitura degli alleati neo-europei.
Cosa fare, dunque? Non si poteva sprecare l’occasione e bisognava evitare nuovi stalli. La prima indicazione sul ruolo americano era, pertanto, quella di gettare tutto il proprio peso sul tavolo della discussione, ovvero sostenere senza esitazioni la Eastern Partnership: “in order to mitigate ambivalence among many EU member states while strengthening the hands of its advocates”.
Tradotto in termini più brutali, ciò significava convincere i tedeschi ad abbandonare le loro riserve sull’intera operazione e schierare gli Stati Uniti inequivocabilmente a fianco dei polacchi in modo da rafforzarne il potere negoziale: era evidente che, tra tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, era quello con capitale a Washington ad avere le migliori carte da giocare.
[Salvatore Minolfi, Le origini della guerra russo-ucraina. La crisi della globalizzazione e il ritorno della competizione strategica, Istituto Italiano per gli studi filosofici Press 2023]