Viviamo tempi davvero scuri in cui la propaganda non risparmia niente e nessuno, fino a trasformare persino il grano in un “arma di guerra”. Vale la pena, allora, fare un salto indietro nella storia, per provare a comprendere le ragioni strutturali (non solo quelle contingenti legate al conflitto russo-ucraino) della crisi alimentare globale. Una crisi che rischia di provocare un esodo “biblico” dall’Africa verso l’Europa.
Dobbiamo risalire alla dichiarazione Schumann del 9 maggio 1951, il documento fondativo del processo d’integrazione sovranazionale, in cui si indicava come obiettivo essenziale delle future istituzioni comuni “lo sviluppo del continente africano”. I padri fondatori dell’Europa erano ben consapevoli che la prosperità economica, che si voleva perseguire mediante l’edificazione del mercato comune, andava in parte re-distribuita nei paesi africani che in quel momento uscivano faticosamente dal loro passato coloniale. Passato del quale i paesi europei serbavano grande responsabilità morale.
Ballare al proprio ritmo
Il processo di decolonizzazione non sarebbe stato pensabile senza la presenza dell’Unione sovietica, così come la costruzione in Europa dello Stato sociale ‘massimo’ non sarebbe stato possibile al di fuori della dialettica tra i due blocchi politico-istituzionali, economico-sociali e culturali che si sono fronteggiati nel corso della Guerra Fredda.
Il modello di capitalismo democratico post-seconda guerra mondiale, che rifletteva tale dialettica, si incentrava sul pilastro monetario di Bretton Woods e su quello commerciale del GATT. All’interno di quest’ordine economico, il principio della progressiva apertura al commercio internazionale era bilanciato dal principio dell’intervento pubblico in economia e dal controllo del movimento dei capitali. Gli Stati nazionali mantenevano, infatti, il controllo sulla circolazione dei fattori produttivi all’interno del proprio territorio. In tale maniera, potevano proteggere dalla concorrenza internazionale le industrie e produzioni strategiche, al fine di preservare il proprio autonomo modello di sviluppo. Ciascuno Stato nazionale, insomma, poteva “ballare al proprio ritmo” nel quadro della globalizzazione economica.
Ciò ha avuto un impatto significativo sulla possibilità dei paesi africani di perseguire l’obiettivo della sovranità alimentare. Secondo una definizione corrente, essa concerne: “il diritto ad un prodotto alimentare sano e culturalmente appropriato attraverso metodi ecologicamente sostenibili, insieme al diritto di decidere il proprio cibo e i propri sistemi agricoli”.
La sovranità alimentare dà priorità alle economie e ai mercati locali e nazionali e permette agli agricoltori, ai pescatori e ai pastori, una produzione, una distribuzione e un consumo alimentare basati sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Essa garantisce che i diritti per utilizzare e gestire terre, territori, acque, semi, bestiame e biodiversità siano nelle mani di coloro che producono alimenti.