IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’ambientalismo del giardiniere

Un nuovo spettro si aggira da tempo per il mondo: il neutralismo ambientale. Secondo questa eccentrica scuola di pensiero in continua ascesa, la devastazione ambientale sarebbe un evento ineluttabile al pari di un qualsiasi cataclisma naturale e/o asteroide proveniente dalla profondità degli spazi intergalattici. Poco o nulla aggiunge la sua radice antropica. La «falsa coscienza» di questo approccio è fuori questione, considerato i pulpiti da cui certi discorsi vengono pronunciati: i consessi più esclusivi e privati della finanza globale, da dove in modo alquanto acrobatico essa si soggettivizza come la più disinteressata e filantropica benefattrice del pianeta e dell’umanità. Questa narrazione che si fonda, come si accennava, su di un paradigma irriflesso naturalizzante, secondo cui l’emergenza ambientale al massimo si può sfidare (secondo i canoni classici della competizione neoliberista), risulta particolarmente pericolosa sotto un triplice aspetto: 1) decontestualizza il fenomeno, ne 2) normalizza la gestione in termini economici e da ultimo 3) stabilizza il sistema ibernando gli attuali asimmetrici rapporti di potere.

In primis, estrapolare la questione ambientale dal suo contesto storico di riferimento – di tardo e crepuscolare capitalismo –, presentandola viceversa come emergenza permanente, consente di invisibilizzare le concrete responsabilità, fungendo in buona sostanza da velo di maya per coprire l’intrinseca politicità dei nodi strutturali in gioco. Nel contempo, riconverte il problema dell’ambiente nei termini di una sfida che deve riguardare e coinvolgere tutti e ciascuno, nella stessa misura. Ed è esattamente questa neutralizzazione, in ordine alle responsabilità, che fornisce il pretesto per quel genere di considerazioni a reti unificate, che non si farebbero abbastanza sacrifici. Se tutti diventiamo parimenti responsabili, anzi colpevoli, ciò vuol dire in buona sostanza che non ci sono contraddizioni oggettive da interpretare, modelli economici da valutare e ordini socioeconomici magari da superare. Superfluo forse rimarcare, per la buona riuscita dell’impresa comunicativa, la circostanza tutt’altro che banale di concentrare nelle proprie mani la quasi totalità dei mezzi di produzione del consenso e dunque dell’ordine del discorso dominante.

Ma la conseguenza più subdola è quella della normalizzazione. Considerata come una realtà a sé stante, la crisi ambientale si ipostatizza, diventando un elemento irreversibile del paesaggio e perciò stesso esige un intervento strutturale per gestirlo, amministrarlo piuttosto che ridurlo o eliminarlo. Come una malattia non debellata che si cronicizza, la crisi ambientale non risolta diventa uno squilibrio interno al sistema da mettere a frutto. Si tratta di un ulteriore capitolo ad una narrazione ben collaudata racchiusa nella formula trasversalmente adottata, da “destra “e da “sinistra”, di governo dell’emergenza.

Aggiungiamoci, e siamo alla terza ricorrenza, il neo-millenarismo apocalittico sparso a piene mani, con una fine del mondo annunciata sempre più imminente, ed avremo la tempesta perfetta di un tipo di ambientalismo imposto dall’alto che anziché sparigliare diviene la migliore polizza assicurativa al mantenimento dell’attuale status quo di rapporti di forza mai così squilibrati.  Detto altrimenti, i grandi fondi internazionali di investimento, i nuovi padroni del vapore – come oramai è di regola nella civiltà neoliberista – hanno fiutato da un po’ nell’ambiente una fonte rinnovabile di profitto, costruendoci su un racconto adeguato allo scopo.

Si aggiunga che quello stesso riduzionismo naturalistico – agito dall’alto – è stato da tempo introiettato dai modi di pensare e di agire collettivi diffusi in Occidente, divenendo talvolta senso comune e comportamento irriflesso. Ci riferiamo ad “una costellazione di concetti, percezioni, consuetudini e valori attraverso cui vediamo la realtà” (Kuhn) che come in un incantesimo pare renderci incapaci di riportare nei suoi giusti binari, fenomeni e situazioni che così sospesi in una oggettività posticcia appaiono separati e resi neutri in quanto a responsabilità sin troppo umane e di classe.

È venuto il tempo che questi modi del pensiero ancora largamente dominanti in Occidente e dunque nel mondo a fronte delle nuove insorgenze lascino il campo a forme e pratiche più avvertite eticamente, fra l’altro già ampiamente sperimentate dal basso, che procedono più che per concetti e catene causalistiche interminabili intrecciate con l’utile, mediante il pensiero analogico e dunque rintracciando le somiglianze, le inferenze e per questo più in grado di dare conto delle corrispondenze, da particolare a particolare. Verrebbe quasi da dire recuperando il nesso tra micro e macro cosmo dei maestri antichi. Le urgenze storiche insomma stanno presentando un conto salatissimo al razionalismo moderno che non ha fatto altro che separare, distinguere ed oggettivare, accumulando un quantitativo di polvere sotto il pianeta impressionante.

Sta a questo pensiero critico in formazione ed ai movimenti che in questi mesi si sono battuti per un cambio di paradigma economico, e non solo, sventare le grandi manovre per spoliticizzare il problema dell’ambiente. Sta a tutti quanti noi impedirlo dal basso con un sussulto di partecipazione politica ed emotiva assieme, perché come ripeteva il sindacalista e ambientalista Chico Mendes, strenuo difensore della foresta Amazzonica, trucidato dagli squadroni della morte «l’ambientalismo se non è anche anticapitalismo finisce per essere giardinaggio».

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