IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’antisionismo è antisemitismo?

L’antisemitismo è un’idea inconsistente e, allo stesso tempo, inattaccabile con argomenti razionali. L’antisionismo è il punto di vista, “Palestina libera dal fiume al mare”, del nazionalismo arabo. Dieci milioni di persone, che ci sono, non dovrebbero esserci. Perché ebrei

Il mondo di oggi non è facile per gli israeliani (anche per colpa loro, s’intende), e neppure, tanto per cambiare, per gli ebrei (che come tali invece non avrebbero colpe particolari). Anzi, è difficile a tal punto che è indispensabile richiamarsi alla mente delle cose del tutto ovvie, che rischiano di essere cancellate da una pervicace volontà di semplificazione, che è poi, come sempre accade quando si semplifica troppo, una volontà di persecuzione.

Israeliani ed ebrei

La prima cosa ovvia, mi scuso se lo dico ma temo di doverlo dire, è che israeliani ed ebrei non sono concetti sovrapponibili. La stragrande maggioranza degli ebrei del mondo non sono israeliani, e in Israele circa un quarto dei cittadini non sono ebrei, ma arabi (mussulmani ma anche cristiani, delle più svariate confessioni) o drusi. Lo Stato di Israele è stato ufficialmente binazionale e bilingue fino al 2018, quando la destra nazionalista ha impresso una brusca sterzata verso l’intolleranza. La Dichiarazione d’Indipendenza del 1948 riconosceva esplicitamente parità di diritti agli arabi. Ma anche oggi gli arabi israeliani godono di diritti e rappresentanza politica, in misura certamente assai superiore a quanto accade nella maggior parte (ma temo si debba dire: in tutti) gli Stati a maggioranza araba.

Ciò detto, la questione dell’antisemitismo dovrebbe essere fuori gioco riguardo all’attuale conflitto israelo-palestinese: gli ebrei in quanto tali non c’entrano nulla, e neanche i loro odiatori (che ovviamente ci sono ancora come sempre ci sono stati) dovrebbero entrarci. Così dovrebbe essere, ma fin troppo evidentemente così non è.

Cos’è l’antisemitismo

Già che siamo alle cose ovvie, non trascuriamo un’altra ovvietà, e ricordiamoci cos’è propriamente l’“antisemitismo”. È il travestimento su basi biologistiche pseudoscientifiche, di origine assai recente, non più che ottocentesca, di un radicatissimo odio verso gli ebrei presente da millenni. Che non aveva nulla a che fare con la “razza”, ma riguardava la religione. Per secoli gli ebrei si sono trovati ad essere gli unici monoteisti in mezzo a una “normalità” politeista indiscussa. Per i politeisti, i romani ad esempio, ma la cosa è molto, molto più antica di loro, questo rende gli ebrei del tutto incomprensibili, quindi inquietanti e perciò odiosi. E da parte loro gli ebrei non hanno mai potuto accettare di dover ubbidire a un potere impuro e idolatra. Nessuno si è ribellato al dominio romano più degli ebrei, e il più efficace persecutore di ebrei prima di Hitler è stato l’imperatore Adriano (che pure passa per essere stato un imperatore “buono”): da lui in buona sostanza nasce la diaspora, l’espulsione degli ebrei dalla loro terra d’origine e la loro disseminazione in tutto il mondo allora conosciuto (comprese l’Africa, l’India e la Cina). Poi, tutto l’Occidente è diventato monoteista, ma gli ebrei si sono trovati ad essere monoteisti nel modo “sbagliato”, seguaci di un monoteismo minoritario ed emarginato, costretto a confrontarsi in condizioni di enorme debolezza con il monoteismo cristiano e quello islamico. Complessivamente pochi i problemi con quest’ultimo (anche se Mosè Maimonide, il più grande filosofo ebreo del Medioevo, avrebbe qualcosa da dirci a questo riguardo…)*. Quanto grandi e storicamente ostinati siano stati i problemi col cristianesimo più o meno lo sappiamo, o crediamo di saperlo. Poi, col processo di secolarizzazione, le cose cambiano rapidamente, la religione smette, più o meno, di essere un fattore discriminante. Apparentemente non ci sarebbe più nessuna ragione per considerare gli ebrei diversi dagli altri, e in effetti le legislazioni cambiano e anche, in molti casi, i rapporti sociali. Nel frattempo però intervengono tre fattori nuovi. Semplifico, naturalmente. Di sicuro più di tre, però il ruolo ai nostri fini più importante è del nazionalismo, del colonialismo e del darwinismo sociale. Per ogni nazionalismo, tutte le nazioni sono ontologicamente diverse, su basi contemporaneamente materialistiche (il “sangue”) e spiritualistiche (i “valori”, la cultura, o meglio la Kultur) e la propria nazione è ontologicamente superiore alle altre, portatrice di un “primato”, di un “manifesto destino”. Gli ebrei perciò sono degli eterni stranieri, anzi stranieri al quadrato: non sono membri di un’altra nazione, ma di nessuna nazione. Il colonialismo dà attualità e forza a un pensiero reazionario rimasto fino a quel momento defilato, il razzismo, che nasce (de Gobineau) come difesa dei privilegi ormai desueti dell’aristocrazia (i nobili discendono da una razza superiore, guarda caso germanica, e sono quindi ontologicamente superiori ai non nobili, discendenti di vinti e schiavi) e si trasforma agevolmente nella pretesa di superiorità della “razza bianca” su tutte le altre, col diritto-dovere di dominarle. Gli ebrei stridono con questa pretesa di dominio: sarebbero “bianchi”, ma insomma, non poi tanto. Troppo “orientali”, troppo difformi dalle rappresentazioni enfatiche del trionfo della civiltà sulla barbarie. Il darwinismo sociale, la vera ideologia del capitalismo ottocentesco, interpreta il conflitto sociale in termini di sopravvivenza del più adatto: i forti crescono e prosperano, i deboli inevitabilmente e giustamente soccombono, e ciò è conforme al progresso dell’umanità. Di fatto molti ebrei si trovano a pieno titolo tra i forti, ma gli altri li guardano con un certo sospetto: i deboli sono astuti, a volte sanno insinuarsi nelle alte sfere del potere, e in questo modo ostacolano il progresso e fanno degenerare la “razza”. Ed ecco allora, come frutto di una sinergia ideologica assai sfaccettata, l’“antisemitismo”: gli ebrei non sono nazione, non sono veramente europei, alterano il meccanismo naturale che migliora l’umanità sacrificandone la parte peggiore alla parte migliore.

Hitler ha inventato poco o niente

Non si rifletterà mai abbastanza sull’inconsistenza e l’auto contraddittorietà del concetto di “antisemitismo”. È la forma aggiornata e camuffata per adeguarla alle idee dominanti di un antichissimo pregiudizio che non ha altra forza se non la propria antichità. Un modo per continuare a odiare gli ebrei quando diventa impossibile continuare a odiarli per la loro unica vera differenza, cioè la religione. Per continuare a odiare gli ebrei, bisogna inventarsi un’altra differenza, più “presentabile”, a cui si può addirittura attribuire una fasulla patente di “scientificità”: sono di un’altra razza, sono, appunto, “semiti”. Si possono misurare i loro nasi e i loro crani, e “dimostrare” che non sono come i nostri.

“Semite”, però, sono al massimo le lingue (alcuni linguisti peraltro negano che il concetto abbia senso anche sotto questo punto di vista), non di certo le persone. E poi, non si è mai visto un antisemita che ce l’avesse con i caldei o i fenici, ma neppure un antisemita che ce l’avesse con gli arabi (i nazisti avevano ottimi rapporti, in funzione antibritannica, col nazionalismo panarabo, e Mussolini, in una delle sue performance più oscenamente ridicole, si atteggiò a protettore degli arabi brandendo la “Spada dell’Islam”). L’antisemitismo, insomma, non è che il tentativo disperato di cercare di dare ancora un senso all’antico odio per gli ebrei quando le sue motivazioni originarie non sono più sostenibili e sono sostanzialmente dimenticate. Ci vorrebbe un altro discorso (e non mancano in proposito teorizzazioni serissime e convincenti) per spiegare come mai l’odio sia irrinunciabile anche quando non si sa più realmente per quale motivo si odia. Comunque a partire dall’Ottocento si dà per scontato e “scientificamente” accertato che gli ebrei sono diversi per “razza”, struttura psichica, comportamento morale e rappresentano un pericolo per le razze “superiori”. Sarebbe sbagliato pensare che ciò abbia esiti nefasti solo con la persecuzione nazista. Lo sterminio inizia ben prima, a ondate crescenti, con una successione di pogrom in Europa orientale e Russia, e anche nell’Europa occidentale, dove gli episodi di violenza prima del nazismo sono rari, c’è comunque un continuo stillicidio di piccoli e grandi atti di discriminazione di cui non c’è praticamente ebreo che non faccia esperienza, anche tra i più socialmente privilegiati, e i discorsi d’odio sono talmente pervasivi e “normali” che gli ebrei stessi non di rado ne sono contagiati. Hitler ha inventato poco o niente, ha solo tratto conseguenze radicali da quello che da decenni veniva detto e scritto in tutta Europa, ottenendo non a caso vastissimo consenso ed entusiastica collaborazione non solo in Germania ma nella maggior parte dei paesi occupati. L’“antisemitismo” è contemporaneamente un’idea inconsistente (nessuna teoria antisemita ha mai saputo offrire argomenti razionalmente sostenibili) e un’idea fortissima, accettata pur con varie intensità e varie sfumature più o meno da tutti a tutti i livelli sociali e da tutte o quasi le parti politiche (c’è sempre stato un fiorentissimo antisemitismo “progressista” e “di sinistra”), col risultato di essere di fatto dispensata dall’offrire argomenti razionali, e perciò inattaccabile con argomenti razionali.

L’antisemitismo è la causa, il sionismo la conseguenza

C’è un legame ovvio tra antisemitismo e sionismo. Il sionismo è la conseguenza, l’antisemitismo la causa. Il sionismo è l’unico forte ed efficace movimento di resistenza alle teorizzazioni e alle pratiche politiche antisemite. Tra i “gentili” non c’è mai stato niente di simile; nessun movimento politico e nessuna corrente di pensiero si è mai caratterizzata in profondità come avversaria dell’antisemitismo, nessuna ha trovato in ciò un forte elemento identitario. Nessun partito politico, nessuna chiesa, nessuna corrente filosofica o culturale, nessuna scuola artistica o tendenza scientifica. Alcune personalità isolate, senza dubbio, anche autorevoli, hanno criticato l’antisemitismo o ironizzato su di esso, ma ciò non è mai stato, per nessuno, un tratto saliente della sua attività politica o intellettuale. Di fronte all’antisemitismo gli ebrei, in sostanza, sono sempre stati lasciati soli. Ed hanno reagito, assai tardivamente ma con forza fino a quel momento insospettata, appunto col sionismo. Si dovrebbe parlare di sionismi al plurale, a rigore, perché ce ne sono forme molto diverse spesso in conflitto tra di loro, ma ne possiamo ricavare una sintesi definitoria appunto dicendo che per sionismo deve intendersi la reazione politico-culturale degli ebrei all’antisemitismo europeo a partire dal tardo Ottocento, per tutto il Novecento e, direi, ancora oggi. Al di fuori del mondo ebraico, l’alternativa all’antisemitismo è al massimo l’assimilazionismo: gli ebrei sono, devono essere, come tutti gli altri. Cioè, gli ebrei per essere come tutti gli altri debbono smettere di essere ebrei, o esserlo in maniera irrilevante, e comunque non agire come tali sulla scena pubblica. E naturalmente anche questo è antisemitismo, la sua versione “pulita”. Quindi la partita è tra antisemitismo e sionismo. Non c’è una vera terza posizione su cui ci si possa attestare. Con una conseguenza sgradevole: che quindi, se non si è sionisti (o filosionisti), in una delle tantissime forme possibili, allora si è antisemiti, in una delle tantissime forme possibili.

Ma cos’è il sionismo?

Ma, più nel dettaglio, che cosa significa sionismo? È la rivendicazione dei diritti degli ebrei in quanto comunità. Non quindi la rivendicazione del diritto dei singoli ebrei ad essere trattati come i non ebrei, ma la rivendicazione di una specificità che deve esprimere una soggettività politico-culturale distinta. Nella sua forma religiosa, che è la più antica, si tratta di rivendicare la piena libertà religiosa e la parità con le altre religioni; spesso ma non necessariamente ciò si accompagna all’esigenza (o piuttosto all’utopia) del ritorno nella Terra Promessa, dove soltanto potrà esserci l’avvento del Messia. Ci sono in questa dimensione dunque anche aspetti di millenarismo e talvolta di fanatismo. Non si è mai trattato però della corrente sionista dominante e storicamente più efficace. L’aspetto più significativo del sionismo riguarda la rivendicazione dei diritti degli ebrei in quanto popolo (indipendentemente dalla religione quindi, e qualche volta in chiave esplicitamente antireligiosa). Ciò storicamente ha assunto forme diverse caratterizzate da diversi obiettivi. Per uno dei movimenti politici sionisti più forti e radicati, ad esempio, il Bund russo-polacco-lituano, si trattava di ottenere il riconoscimento come minoranza nazionale all’interno dell’impero zarista (insieme a rivendicazioni più specificamente sociali attinenti ai diritti dei lavoratori ebrei ma anche dei lavoratori in generale)**. In un senso più stretto e specifico, che è poi quello storicamente affermatosi, è il movimento internazionale mirante all’istituzione di uno Stato ebraico, e in quest’ambito prevalse ben presto la corrente guidata da Theodor Herzl, quella cioè che voleva la fondazione di uno Stato ebraico in Palestina. È da questo sionismo che nasce storicamente lo Stato d’Israele. L’infelicissimo slogan “Un popolo senza terra per una terra senza popolo”, continuamente citato dagli antisionisti di ogni risma, è estremamente riduttivo rispetto alla realtà del movimento, che era perfettamente consapevole dell’esistenza dei palestinesi, ne teneva ampiamente conto nei suoi programmi e mirava alla realizzazione di una pacifica convivenza in uno Stato binazionale, pluriculturale, laico e socialista; come già detto, la Dichiarazione d’Indipendenza del 1948 esprime esattamente questo. Un’impostazione completamente ribaltata dal rafforzarsi in Israele di una destra ipernazionalista di ispirazione fanaticamente religiosa che non ha niente a che fare col sionismo dei padri fondatori, ma anche, non dimentichiamolo, un’impostazione che è stata da subito completamente rifiutata dai palestinesi stessi e dagli arabi in genere.

Per un filo-sionismo razionale

Ciò detto, cosa significa essere sionisti oggi, e quindi cosa significa essere antisionisti? Dal momento che l’unico frutto storicamente realizzatosi del movimento sionista è lo Stato d’Israele, è l’atteggiamento verso Israele il punto cruciale, e non è il caso di gingillarsi con sionismi o antisionismi storicamente superati. Da un punto di vista ebraico, sionismo (anche per chi non è israeliano e non desidera esserlo) è il legame, necessariamente assai emotivo, con Israele come focolare nazionale che può rappresentare un rifugio e una garanzia in caso di future persecuzioni. Non è automatico che un ebreo sia sionista, ma i soli ebrei esplicitamente antisionisti, cioè contrari all’esistenza stessa d’Israele, sono i cosiddetti ortodossi o ultraortodossi, in realtà una piccola minoranza, che ritengono la fondazione di Israele un abuso sacrilego, perché soltanto il Messia potrebbe legittimamente fondarlo. Alcuni vivono in Israele e ci sono dunque ebrei israeliani antisionisti, oggetto peraltro di tutela legale e dotati di vari privilegi, tra cui soprattutto l’esenzione dal servizio militare. Oggi sono in crisi; cominciano ad essere sentiti, e a sentire sé stessi, come traditori, e stanno rapidamente confluendo nelle file della destra ipernazionalista e fanatica. Tolto ciò, un ebreo antisionista è oggi davvero difficile da immaginare. Per il nazionalismo panarabo e l’estremismo palestinese, Israele è per definizione l’“Entità sionista”, non essendo riconoscibile come Stato, israeliani e sionisti sono sinonimi e gli ebrei stessi, sebbene talvolta si riconosca in teoria una differenza, vengono appiattiti sul concetto di sionismo. Non si dice mai che nell’arco degli scorsi decenni praticamente tutte le minoranze ebraiche da secoli presenti nel mondo arabo sono state espulse o, diciamo, fortemente incoraggiate all’emigrazione, e che i pochi ebrei rimasti vivono in condizioni estremamente difficili.

E per i non ebrei e i non mussulmani, che significa essere sionisti o antisionisti? In questo caso sionista è un’espressione alquanto impropria, propriamente sionista può essere solo un ebreo. Un “gentile” può essere filosionista, cioè favorevole all’esistenza dello Stato d’Israele. Non c’è motivo che ciò significhi filoisraeliano a oltranza, d’accordo con Israele sempre e comunque, schierato anima e corpo senza riserve. Non sarebbe filosionismo ma idiozia. Così come ogni israeliano può essere un buon patriota pur criticando il governo, manifestando contro il governo, dicendo tutto il male possibile degli attuali governanti, come accade tutti i giorni ed è assolutamente normale che accada, a maggior ragione un non ebreo e non israeliano può riconoscere che lo Stato d’Israele corrisponde a una necessità storica innegabile, e ciò nonostante pensare (come chi scrive, ad esempio) che Israele abbia sbagliato moltissimo, quasi sempre, stia continuando a sbagliare, sia in preda a una deriva pericolosissima e abbia come capo del governo un autentico criminale. Non è antisionismo questo, è filosionismo razionale. Non sarebbe superflua una riflessione su come mai problemi del genere ce li poniamo soltanto riguardo a Israele, e nessuno si sogna di essere “svizzerista” o “portoghesista”, e tanto meno “antisvizzerista” o “antiportoghesista”…

E cos’è dunque l’antisionismo? Se non si vuole giocare a caso con le parole, antisionista può significare una cosa soltanto: essere contrari all’esistenza d’Israele. Non basta essere critici, anche aspramente, anche con rabbia, anche con sdegno, nei confronti di ciò che Israele ha fatto e sta facendo a Gaza o anche altrove. No, questo non è antisionismo, e tanto meno antisemitismo. Antisionismo è volere che Israele sparisca, non meno che questo. Antisionismo, cioè, è fare proprio il punto di vista del nazionalismo arabo estremista, da cui quasi tutti gli Stati arabi ormai si distinguono. “Palestina libera dal fiume al mare”: questo è antisionismo. E oggi piace molto, e suona molto entusiasmante, umanitario, progressista, etico, civile, forse persino “di sinistra”.

Bene: ma che ne facciamo di quei poco meno di dieci milioni di persone che, tra il fiume e il mare, vivono come cittadini israeliani? Come facciamo a farli sparire? Da soli non spariscono di certo. Come li convinciamo che dovrebbero sparire, e se non spariscono sono dei perfidi sionisti? Quante guerre dobbiamo fargli, e con quanti morti? A quale potenza dovremmo elevare quello che gli stessi israeliani stanno facendo a Gaza? E chi dovrebbe fare tutto ciò? E come potremmo impedire che, avendo l’arma nucleare, la usino? Dovrebbero scappare tutti, e dove? Come possiamo farli scappare, e chi se li prenderebbe? Oppure? Di nuovo Auschwitz? Hitler aveva ragione e dovremmo ora completare il lavoro?

Per un soggetto pensante, dovrebbe essere evidente che l’antisionismo, prima di tutto, è futile. Poi è anche, inconsapevolmente e futilmente, oppure consapevolmente e fanaticamente, sanguinario. E anche ipocrita, perché non ha mai il coraggio di trarre le conseguenze ovvie dalle sue premesse. Cioè non ha il coraggio di essere apertamente un’ideologia della persecuzione e dello sterminio.

Però lo è. Ed è questa la sua ragion d’essere. La sua assurda, paradossale, arazionale ragion d’essere. Non possiamo più dire che odiamo gli ebrei, o meglio, per dirlo dobbiamo essere nazisti e volerlo essere. Se no, suona troppo male. Di sicuro non è roba “di sinistra”. Non è socialmente presentabile se non in ambienti molto marginali e decisamente non perbene. Essere antisionisti però è tutt’altra cosa. Suona bene, è terzomondista, progressista, umanitario, nobile, idealista, può coniugarsi con l’impegno civile, con le più nobili aspirazioni pacifiste. E no, non è tutt’altra cosa; è la solita vecchia, vecchissima, schifosa, schifosissima cosa. Antisionismo significa: dieci milioni di persone, che ci sono, non dovrebbero esserci. Dovrebbero sparire. Dovrebbero finire. Dovrebbero morire: se no cosa? E perché? Perché sono ebrei.

E questo dimostra perfettamente che, e perché, Israele c’è e deve esserci.

* Mosè Maimonide (Moshe ben Maimon), Cordova 1135, al-Fustat 1204. Grande filosofo, rabbino, giurista e medico, la più influente personalità ebraica dell’intero Medioevo. Vissuto nella Spagna mussulmana e poi in Marocco in uno dei rari periodi di fanatismo religioso, fu costretto per molti anni a fingersi mussulmano. Rifugiatosi infine nell’Egitto di Yussuf Salah-ed-Din (“Il Saladino”) poté godere di piena libertà e dei massimi onori. Appartiene a pieno titolo alla tradizione filosofica araba, di cui è uno dei massimi esponenti.

** Il Bund (in yiddish, Algemeiner Jidisher Arbeterbund, Federazione generale dei lavoratori ebrei) ebbe un ruolo importante nelle lotte politiche della fase finale dell’impero zarista. Fu in primo piano nella rivoluzione fallita del 1905, aderì nel 1917 alla rivoluzione di febbraio, mentre si divise di fronte alla rivoluzione d’ottobre. Una parte confluì nel movimento menscevico di cui seguì le sorti, un’altra parte fu assorbita nel movimento bolscevico, in cui si dissolse. In Polonia sopravvisse più a lungo, assumendo tratti di nazionalismo polacco. Coinvolto nella Shoah, ebbe un ruolo nella rivolta del ghetto di Varsavia e nella resistenza polacca in genere. È talvolta classificato come movimento antisionista perché era contrario alla fondazione di uno Stato ebraico, ma dipende dall’estensione che si dà al concetto di sionismo.

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