Muovo dal fatto, inoppugnabile, davanti agli occhi di noi tutti: il mondo è in guerra. Da tempo, ripete Bergoglio con autentico grido di dolore: terza guerra mondiale a pezzi. Per il Papa si tratta di un fatto enorme che dovrebbe indurre tutti ad adoperarsi per porvi termine. Non è così. Anche questo è un fatto. Anzi, il fatto per eccellenza, la madre di tutte le questioni. Perché non ci adoperiamo per porre fine a questo fatto enorme? Quali sono gli interessi che si adoperano per una guerra infinita? C’è forse una razionalità nell’economia di guerra nella quale stiamo, più o meno consapevolmente, precipitando? Le domande, già prima di iniziare, si moltiplicano. Per le risposte a queste macro-domande di stringente attualità c’è tempo. Ne parleremo dopo. Prima restringiamo all’essenziale il campo delle domande: Che cosa è una guerra? La guerra è sempre eternamente uguale a sé stessa?
Enciclopedia Treccani
La guerra è uno degli strumenti cui i gruppi umani fanno da sempre ricorso per risolvere le proprie controversie e realizzare i propri fini. Nel suo significato tradizionale la guerra è un conflitto armato tra due o più comunità politiche in vario modo strutturate e sovrane (città-Stato, imperi, Stati) che si svolge secondo una precisa linea di demarcazione tra ‘interno’ ed ‘esterno’. E poi, sostiene l’Enciclopedia, la guerra fra Stati si distingue dalla guerra civile, dalle guerre coloniali e dalle guerre di liberazione nazionale in cui si confrontano in modo asimmetrico attori politici e militari di natura diversa. E si distingue anche da altre forme di violenza organizzata, quali il terrorismo.
Bene. Distinguendo abbiamo fatto un bel passo avanti: le guerre non sono tutte uguali. Siamo, tuttavia, ancora di fronte a definizioni trans temporali, ad una fenomenologia senza storia. Come la mettiamo con l’operazione militare speciale di Putin? Come la mettiamo con l’efferato 7 ottobre di Hamas? Come la mettiamo con lo scontro di droni e missili largamente supportato dall’intelligenza artificiale che si svolge tra i cieli tra Israele e Iran, e non solo lì?
Dobbiamo provare ad andare più in profondità. É vero – ha scritto a suo tempo Elias Canetti – in fin dei conti, in guerra si tratta di uccidere. Ma è altrettanto vero che non tutte le guerre uccidono allo stesso modo, producono lo stesso numero di vittime, morti e distruzione. Non tutte le guerre hanno lo stesso grado di disumanità. La scia di morte provocata dall’atomica lanciata su Hiroshima non è paragonabile, se non del tutto superficialmente, alle morti che si consumano nel corso di una guerra partigiana, di una guerra di liberazione nazionale.
Proviamo a essere più rigorosi. Non basta dire che la guerra è sempre un anacronismo, il segno di una arretratezza della condizione umana, di un non ancora compiuto suo sviluppo ideale e spirituale. Così ci perdiamo la parte più interessante della storia, la differenza tra le diverse guerre, il loro diverso grado di disumanità, l’urgenza di renderle più umane. Una cosa sono le guerre svoltesi in età premoderna e all’inizio dell’età moderna, un’altra cosa sono i conflitti armati svoltisi nel corso del secolo breve. Conflitti divenuti ancor più opaci e asimmetrici dopo l’89, dopo la cosiddetta fine della storia.
Il ritorno della guerra giusta
A determinare il grado di disumanità delle diverse guerre è la loro specifica grammatica. Una cosa sono le guerre giuste, guerre del Bene con la B maiuscola contro il Male con la M Maiuscola, guerre dipinte come sacre e santissime. Un’altra cosa sono le guerre legali, guerre condotte in nome di finalità politiche limitate. Un’altra cosa sono le odierne guerre globali, guerre prive di confini spaziali e temporali, guerre infinite che non cominciano mai e mai finiscono.
Il grado di disumanità di queste diverse guerre è molto diverso. Noi europei le abbiamo vissute tutte. Anche se c’è stato un breve lasso di tempo, tra la fine della prima guerra fredda e l’inizio del XXI secolo, nel quale ci siamo raccontati la bella favola di un Europa ormai eternamente votata alla pace. Salvo repentinamente auspicare che era nuovamente tornato il tempo di mostrare i muscoli, di vestire nuovamente gli abiti della guerra. Quella postura geopolitica del quale ha ripetutamente in questi anni straparlato l’ineffabile Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Quella postura bellica che tanto piace in queste settimane ad Emmanuel Macron.
Lasciamo la Signora e Monsieur le President al loro destino. Perdonali Signore, non sanno bene di cosa parlano questi novelli apprenditi stregoni. Cominciamo, piuttosto, dall’inizio. Anzi meglio, da oggi. Dall’ascesa della guerra giusta dopo l’89 dello scorso secolo. Sono sufficienti due esempi. L’«operazione militare speciale» con la quale la Russia ha giustificato l’invasione dell’Ucraina non è altro che il calco gemellare dell’«operazione di polizia internazionale» con cui una coalizione di potenze occidentali guidate dagli Stati Uniti ha giustificato nel 1990-91 la prima guerra del Golfo contro l’Iraq al ‘nobile’ fine di instaurare nelle relazioni internazionali un Nuovo Ordine Mondiale (New World Order) in cui la Giustizia avrebbe sradicato l’Ingiustizia, il Bene trionfato sul Male. Una crociata che si ripete sostanzialmente identica nella guerra russo-ucraina: da una parte, Putin che giustifica la sua «operazione militare speciale» con la necessità di denazificare l’Ucraina; dall’altra, Zelensky che si investe «del ruolo di difensore del “mondo libero”» e della «democrazia» contro l’«autocrazia. Entrambi, Apostoli in guerra per il Bene dell’intera Umanità.
L’annientamento del nemico
Sovrastrutture retoriche, come dirò tra pochissimo. Sovrastrutture, tuttavia, non proprio innocenti che contribuiscono a legittimare la convinzione dell’ineluttabilità di una guerra infinita. Rappresentare la guerra come santa conferisce, infatti, ai combattenti e ai loro alleati la certezza di essere agiti da una norma superiore, di incarnare nella lotta assoluta tra il Bene e il Male la parte del Bene. Con la conseguenza che la forma disumana nella quale si combatte il nemico è del tutto secondaria, se non irrilevante. Danni necessari, collaterali.
Al nemico a causa della sua disumanità – a causa del suo essere il male assoluto – non va riconosciuta alcuna dignità. I fini sono talmente alti e sacri – il Bene della madre patria Russia, il bene dell’intera umanità – da giustificare qualsiasi mezzo, persino l’uso dell’atomica. E poco importa che per lo sguardo prosaico della geopolitica si tratta di una guerra tra un impero declinante – la Russia – e un impero – quello americano – sempre più preoccupato del suo declino a causa della contestuale ascesa su scala globale di un altro impero, quello cinese. Perché tutti sanno che domani, quando arriverà il momento, per il convitato di pietra della guerra russo-ucraina la retorica bellica sarà ancora quella della guerra giusta.
Annientamento del nemico, non la sua sconfitta. E non di meno sembrano riproporsi i cattivi eredi della rivoluzione iraniana e i cattivi eredi dello Stato Israele. Fondamentalismi l’uno contro l’altro armati. Dimentichi di essere storicamente vittime del colonialismo europeo cadono nella trappola del neo-colonialismo degli oppressi. Lo dico, con la stessa forza, tanto alla destra fondamentalista israeliana quanto ad Hamas. Con buona pace dei generosi e inconsapevoli studenti che stanno occupando le Università di mezzo mondo.
Un passo indietro, il bellum justum medievale
Il fondamentalismo è la cifra, da sempre, della guerra giusta. Virtualmente nel monoteismo cattolico che rielabora «in chiave moralistica l’idea vetero-israelitica della guerra santa» contenuta nelle pagine del Deuteronomio dove la «guerra santa obbligatoria» è «annientamento dei nemici del popolo di Dio». Concretamente, in tempi successivi, il fondamentalismo della guerra giusta del cristianesimo medievale quando si fa dichiaratamente promotore di guerra per restaurare l’ordine voluto da Dio. Le crociate, la conquista di territori da evangelizzare in seguito alla scoperta dell’America.
Una teologizzazione della guerra che certo per taluni va ‘frenata’ in ragione del dovere cristiano di bilanciare l’eccedenza di violenza insita nella guerra con la radicalità del messaggio evangelico che chiede di amare i nemici, di porgere l’altra guancia. Un freno che esige di non eccedere, ma che mette in conto che una guerra infinita per l’annientamento del nemico è da considerare comunque legittima se v’è una giusta causa. E la giusta causa c’è, al di là delle contingenti ragioni umane che ne sono all’origine, se Dio l’ha voluta. E dato che la sua volontà è insondabile e non può essere discussa, anche le peggiori efferatezze sono giustificate: esse ci appaiono tali solo nella prospettiva umana, ma non lo sono in quella divina che l’uomo non conosce, non può conoscere.
La potenza prescrittiva della guerra giusta è enorme. La guerra è giusta perché voluta da Dio «per punire la corruzione dei popoli e per educare le genti alla vita pacifica». I fatti vengono letti a partire alla luce della parola divina, i cui custodi sono i teologi. Il diritto di fare la guerra (lo ius ad bellum, le ragioni legittime per intraprendere un conflitto) ha una legittimazione teologico- giuridica. Tanto la sua legittimità (il ricorrere delle condizioni previste dal diritto positivo) quanto la sua legalità (lo ius in bello, le modalità con cui si fa la guerra) costituiscono limiti che vanno letti alla luce del bene assoluto voluto da Dio, della riabilitazione della giustizia e della pace tramite la punizione di chi le ha offese.
Certo il bellum justum medievale non è giustificato dalla semplice differenza di religione, il suo fine dichiarato non è mai lo sterminio fine a sé stesso dell’infedele. E, tuttavia, un po’ in tutte le dottrine cristiane della guerra giusta, quanto nella dottrina islamica del grande Jihad, l’universalismo umanitario si arresta «ai confini ideali del “monoteismo». Chi lottava contro la cristianità era ritenuto intimamente ingiusto, criminale, il sangue versato da arabi, ebrei, turchi non dispiaceva affatto – si sosteneva – alla volontà divina
Tutte le teorie del bellum justum hanno un elemento in comune: la guerra giusta è quella intrapresa per una justa causa intesa in senso etico-sostanziale. Il princeps, se legittimo regnante, conduce una «guerra giusta» quando risponde all’ordine divino. Come legittimamente punisce criminali e malfattori all’interno del proprio regno, così egli legittimamente colpisce, all’esterno, i nemici della cristianità, conducendo «guerre giuste» in nome di Dio. Ma al di là dei retorici richiami de caritate, è ’naturale’ che i nemici della cristianità – nemici assoluti, barbari e criminali – non si trovano sul medesimo piano morale e giuridico dei cristiani È naturale non osservare alcuna limitazione nella conduzione della guerra. La «guerra giusta» è sempre una «guerra assoluta», «discriminatoria».
Silete theologi in munere alieno
L’essenza intimamente discriminatoria della guerra giusta si manifesta all’ennesima potenza agli albori dell’età moderna nel corso delle guerre civili di religione che tra ‘500 e ‘600 insanguinano l’Europa. Sono ora i cristiani tra loro a fronteggiarsi nel sangue, criminalizzandosi e disumanizzandosi reciprocamente. Una catastrofe nel corso della quale cominciano lentamente ad emergere voci che condannano il fondamentalismo teologico della guerra giusta, che prefigurano una laicizzazione della guerra, una sua limitazione giuridica che ponga fine, almeno nello spazio europeo, al suo carattere discriminatorio.
Il simbolo di questa reazione è il grido potente del fondatore del diritto internazionale moderno, Alberico Gentili: «silete theologi in munere alieno», “tacete teologi, questo non è il vostro campo”. Un manifesto che inaugura una nuova grammatica della guerra, la grammatica della guerra legale. Alberico Gentili chiede all’Europa di spostare il baricentro della riflessione e della pratica sulla guerra dallo ius ad bellum – dal diritto di fare la guerra, dalle cause che moralmente la giustificano – allo ius in bello, al diritto in guerra, alle modalità che rendono meno disumani i conflitti bellici. Dalla norma alla forma. Dall’annientamento del nemico in ragione della sua indegnità morale al riconoscimento che le parti in conflitto sono egualmente degne come lo sono quelle di un duello privato. Di una partita di calcio, diremmo oggi.
La guerra in forma
Guerre en forme, guerra in forma. In primo luogo, all’interno della comunità politica che ora viene rappresentata come società civile in quanto a ciascuno è fatto divieto di imporre la propria visione di ciò è bene e ciò che è male come universalmente valida. Cuius regio eius religio, letteralmente “di chi [è] la regione, di lui [sia] la religione”. Imposizione da parte di ciascun principe della propria confessione ai sudditi e, contestualmente, delegittimazione nello spazio europeo delle guerre di religione. Ai dissenzienti è concesso il beneficium emigrandi e, in seguito, libertà di credo. Ciascuno può liberamente professare il proprio, ma non può imporre con la violenza la propria idea di ciò che è bene e ciò che è male. La scelta se professare un culto o un altro diviene un fatto privato, giuridicamente tutelato. Il conflitto è depotenziato della sua carica distruttiva. Tutte le religioni hanno eguale dignità e le cause dei conflitti non possono più essere di ordine etico. Una condanna della tirannia dei valori scritta a chiare lettere nelle costituzioni democratiche del novecento, a partire dalla nostra.
Il nemico può anche avere ragione
Il raffreddamento dell’intensità dei conflitti all’interno – la loro neutralizzazione – di vale anche per l’esterno. Le guerre che gli Stati possono sono legittimamente ingaggiare tra loro sono guerre de-teologizzate, guerre determinate dall’interesse di ciascuno Stato a difendere e ad accrescere la propria potenza politica. L’altro, il nemico esterno, è ancora stigmatizzato, ma non è più un nemico teologico come postulava la grammatica della guerra giusta. L’altro, il nemico, in quanto uomo, è uguale a me. Come me non sta combattendo alcuna guerra santissima. Come me desidera ‘semplicemente’ far valere i suoi interessi.
Un principio posto a fondamento della costituzione politica internazionale codificata nel Trattato di Westfalia del 1648. Con esso gli Stati europei si mettono alle spalle l’antica grammatica della guerra giusta e inaugurano una nuova grammatica con la quale provano a mettere in forma le future guerre tra loro. I postulati cruciali di questa diversa grammatica, la grammatica della guerra legale, costituiscono il presupposto di molti postulati del diritto internazionale moderno vigente nello spazio europeo sino alla prima guerra mondiale.
Primo postulato: l’attribuzione agli stati sovrani del diritto esclusivo di muovere guerra e trattare la pace. Secondo postulato: la corrispettiva disponibilità degli stati a riconoscersi reciprocamente quali “nemici giusti” (iusti hostes). Terzo postulato: la soppressione, attraverso la nozione di iustus hostis, di quella di iusta causa, per impedire la criminalizzazione del nemico e pervenire ad una “razionalizzazione e umanizzazione della guerra”.
Un capovolgimento della grammatica della guerra giusta. La giusta causa è ora una qualità virtualmente presente in entrambe le parti in conflitto. Il bellum è iustum per entrambe le parti. Se oggi fosse ancora vigente il diritto internazionale moderno vigente nello spazio europeo sino alla prima guerra mondiale le guerre di Putin e Zelensky sarebbero entrambe giuste. Sarebbero guerre condotte da giusti nemici.
Entrambe giuste, indipendentemente dalle contingenti cause che hanno determinato il conflitto. Il fondamento di legittimazione del diritto di fare la guerra non è più, infatti, per lo ius publicum europeaeum, teologico-giuridico ma politico-giuridico. La guerra è continuazione della politica con altri mezzi: sono solo ragioni di opportunità a determinare il “diritto-dovere” di fare la guerra, “quale che sia l’apprezzamento morale che ciascuno voglia darne”. Il nemico può essere uno justus hostis, il nemico può anche ‘avere ragione’.
La grammatica umanitaria della guerra legale
Una condivisa convinzione che rende possibile l’esistenza di regole che i belligeranti devono osservare durante il conflitto. Tra il XVI e il XIX secolo le regole di condotta dei conflitti armati internazionali conoscono uno sviluppo che mai avevano avuto. Per le dottrine cristiane della guerra era ‘naturale’ che solo uno dei contendenti potesse combattere una «guerra giusta». Al contrario, in vigenza dello ius publicum europeaeum, il tema della legittimazione ad bellum perde la sua rilevanza primaria a vantaggio del tema dello ius in bello, delle modalità di conduzione delle ostilità: del “come” della guerra più che del “se”.
Vengono così poste le basi concettuali di quel diritto internazionale umanitario che si svilupperà a partire dal XIX secolo con al centro non più la domanda sulla liceità delle guerre (ius ad bellum), ma quella del diritto valevole per qualsiasi conflitto armato, indipendentemente dalla sua legittimità e per tutte le parti in conflitto (ius in bello).Nel lessico, meno asettico e più umanizzante, della Croce Rossa Internazionale, l’insieme delle regole concernenti la condotta delle ostilità` belliche dirette a limitare le sofferenze causate dalla guerra, proteggendo e fornendo assistenza alle vittime dei conflitti armati. E questo perché anche coloro che conducono una guerra ‘giusta’ nel senso di ‘giuridicamente legittima devono osservare le regole umanitarie di condotta della guerra.
Sotto almeno quattro profili. In primo luogo, la guerra deve essere limitata, condotta da e contro soggetti determinati (la distinzione tra soggetti «combattenti» e soggetti «non combattenti»). In secondo luogo, la violenza bellica deve essere esercitata solo contro obiettivi congrui (la distinzione tra «obiettivi militari» e «obiettivi civili»). In terzo luogo, non tutte le armi possono essere impiegate contro i nemici (il divieto di usare armi in grado di causare sofferenze non giustificabili e effetti indiscriminati sulla popolazione civile). In quarto luogo, la guerra va delimitata spazialmente (andare in scena in «teatri di battaglia circoscritti).
Perché questa grammatica della guerra legale non vige più praticamente per nessuna guerra? Perché oggi non vige per Hamas e per Israele? Perché da oltre un secolo si è andata affermando un’altra grammatica della guerra. La grammatica della guerra infinita, che, parallelamente alla riscoperta del bellum justum, segna il ritorno a pratiche discriminatorie della guerra.
Il punto di svolta è la prima guerra mondiale. Nel corso di essa il principio secondo il quale i belligeranti dovevano osservare delle regole nell’uso dei mezzi di offesa contro i nemici perde il ruolo di primaria importanza che aveva avuto per circa tre secoli. Assistiamo di fatto al ritorno di pratiche discriminatorie. La nuova guerra europea è una guerra senza precedenti, una guerra mondiale. Una guerra che, per la straordinaria violenza dei mezzi bellici che caratterizzano le ostilità e per il numero di paesi che vede coinvolti, mina alle fondamenta il principio della limitazione dei conflitti armati.
E ciò sotto tre profili. In primo luogo, il vecchio sistema delle regole sulla condotta della guerra risulta inadeguato rispetto al progresso delle tecniche belliche. In secondo luogo, la natura della nuova guerra impedisce di considerare il conflitto armato come uno scontro tra soli belligeranti. In terzo luogo, le dimensioni della guerra sono tali da generare ripercussioni anche a carico di paesi neutrali, non coinvolti nel conflitto.
Diritto di pace
Di fronte all’incapacità del diritto internazionale umanitario a disciplinare le nuove forme della violenza si sono aperti due interrogativi. In primo luogo, cosa fare quando le regole di limitazione della limitazione della violenza bellica vengono sistematicamente infrante. In secondo luogo, se a fronte del potenziale distruttivo dei nuovi armamenti, fosse giusto continuare ancora a lasciare la decisione sul ricorso alla guerra alla sola valutazione degli Stati, se non fosse giunto il momento di approntare una regolazione giuridica internazionale del diritto di guerra (dello ius ad bellum) nella prospettiva di un suo divieto assoluto, di una sua declinazione pacifista (il diritto di pace). Due istanze più che mai ancora attuali a fronte del fatto che le disparità di potere tecnologico-militare tra gli Stati sono continuate a crescere esponenzialmente e altrettanto esponenzialmente le guerre asimmetriche e discriminatorie.
Nel periodo che intercorre tra la prima guerra mondiale e la fine della seconda non è stata fornita alcuna risposta a questa sfida. Il diritto internazionale umanitario (lo ius in bello) vive sostanzialmente una fase di stallo a fronte della morfologia sempre più totale assunta dalla guerra e della nuova guerra mondiale all’orizzonte. Analogo stallo conosce l’istanza di regolazione del diritto degli Stati di fare la guerra (il diritto di guerra) e di positivizzare un diritto di pace. Le cose sembrano cambiare dopo la fine della seconda guerra mondiale quando il tema della disciplina del ricorso alla forza nei conflitti armati viene affrontato nella Carta dell’ONU. Questa stabilisce un divieto generale di fare ricorso alla forza armata, prevedendo, tuttavia, due eccezioni in caso di legittima difesa e di misure esecutive del Consiglio di sicurezza. Con molte ambiguità sulla reale portata tanto del nuovo diritto di pace quanto del diritto umanitario di guerra.
Ambiguità presenti anche nelle Convenzioni di Ginevra del 1949 che pur affermando che le regole dello ius in bello in esse contenute dovevano applicarsi in «tutte le circostanze» e «in tutti i casi di guerra dichiarata o in qualunque altro conflitto armato», non affrontano il problema della applicabilità` dei principi consuetudinari della necessità militare e della proporzionalità in caso di un conflitto avviato in violazione della Carta dell’Onu. Successivamente, il Protocollo addizionale del 1977 ha ulteriormente confuso i termini del problema, riconducendo l’applicazione dello ius in bello non a una condizione giuridico-formale ma a una valutazione etico- politica (l’autodeterminazione contro regimi razzisti), una logica tipica delle dottrine della guerra giusta.
Le dottrine neoliberali della «guerra giusta»
Ci avviciniamo alla conclusione. Nello stesso anno in cui viene ratificato il Protocollo, viene pubblicato il libro di Michael Walzer Guerre giuste e ingiuste. Il filosofo imposta la sua teoria della moralità` della guerra» a partire dalla distinzione tra ius ad bellum e ius in bello, declinando in chiave politico-morale.
Lo ius ad bellum altro non è, si sostiene, che la mera registrazione dei fini per i quali una guerra viene combattuta, così come lo ius in bello non è che la mera registrazione dei mezzi con i quali il conflitto si svolge. Una declinazione dello ius ad bellum funzionale ad una «teoria dell’aggressione», in cui l’aggressione è qualificata come un crimine internazionale mentre le guerre intraprese al fine di punire l’aggressore sono qualificate come «giuste». Una grammatica diretta a giustificare l’abbandono di precetti umanitari indiscutibili in tempo di pace. Un ritorno alla dottrina medievale della guerra giusta fondato, al pari di questa, sulla prevalenza del diritto di fare illimitatamente la guerra, una prevalenza che si basa su ragioni ‘utilitariste’ e morali: i diritti del giusto prevalgono su quelli dell’ingiusto.
Sarebbe poco generoso sostenere che la prassi internazionalistica degli ultimi decenni si sia totalmente appiattita sulle dottrine neoliberali della «guerra giusta». Non sono mancate voci che ne hanno sottolineato i rischi. D’altra parte, è difficile negare che nella pratica degli Stati l’applicazione dello ius in bello viene crescentemente collegata alla ‘giustizia’ o alla ‘ingiustizia’ che ha determinato il conflitto. Nella guerra della NATO contro la Repubblica Federale Jugoslava, la decisione di far volare i bombardieri a un’altezza non inferiore ai 15.000 piedi ha, da una parte, garantito alla NATO la possibilità di attaccare senza subire alcuna perdita, e, dall’altra, ha contribuito a causare la morte di almeno 500 civili serbi. Una scelta strategica giustificata nella prospettiva di un intervento armato finalizzato all’interruzione della pulizia etnica in Kosovo.
In questi mesi sono ancora più evidenti le conseguenze che il ritorno della grammatica della guerra giusta sta avendo sul destino di interi popoli. Di fatto, ormai, chi viola la Carta dell’ONU, non si vede riconosciuti tutti i diritti che tradizionalmente venivano riconosciuti dal diritto internazionale umanitario ai belligeranti. La proporzionalità della reazione di chi ha subito un atto di aggressione dipende sempre più da una decisione del singolo belligerante in merito alla giustizia dei propri obiettivi. Un carburante che contribuisce a perpetuare guerre asimmetriche, discriminatorie, infinite. Cosicché, sempre più breve è il passo che apre la strada alla giustificazione del bombardamento di obiettivi civili, alla tortura dei prigionieri, all’uso di armi dagli effetti devastanti per intere popolazioni. Come quotidianamente emerge nella guerra russo-ucraina e in quella israelo-palestinese.
Che fare? Rifondare un nuovo diritto di pace
La capacità del diritto di regolare la guerra è sempre più limitata. Il pessimismo dell’intelligenza induce legittimamente tanti ad affermare che il diritto internazionale è ormai «un diritto di carta». Chi, come il sindacato, è deontologicamente obbligato a coltivare l’ottimismo della volontà, non può arrendersi alla grammatica della guerra infinita e di guerre crescentemente discriminatorie. Mi è capitato recentemente di pubblicare un contributo sull’intelligenza artificiale e sulle sue inquietanti disumane derive. Quel contributo recita così nell’incipit: nessun Dio ci salverà, solo la mobilitazione collettiva può farlo. Chiudo oggi il discorso con lo stesso sentimento. Nessun Dio ci salverà, solo la mobilitazione collettiva può farlo. Su come provare a fare concretamente chi meglio del sindacato può provare a dire e a fare? In fondo, si tratta “semplicemente” di rifondare un nuovo diritto di pace.