Un ragazzo a Bologna
“Vedete? Anche dal fango possono nascere dei fiori”. Il professore di filosofia del “Minghetti” ci tiene a confermare che quelle aule non sono per tutti, ma che la meritocrazia viene prima di tutto e può dar vita a degli imprevisti. Negli anni ’50 del ventesimo secolo, la scuola italiana è ancora molto classista, immutata dai tempi della riforma Gentile che confermava il ruolo elitario del liceo classico, fucina della classe dirigente, tendenzialmente medio-alto borghese e maschile: licei e università ai ricchi, l’obbligo scolastico o un avviamento professionale ai poveri, tutto ciò che stava in mezzo a impiegati e bottegai. Rare le eccezioni. (…) Il “figlio del fango” dai buoni voti, soprattutto in storia e filosofia, viene indicato come esempio di un’eccezione che non potrà mai farsi regola; anzi, utile proprio a confermarla, rassicurando tutti i presenti che la concorrenza di classe c’è ma non è poi così pericolosa, nemmeno nella rossa Bologna. Perché sconfitto il fascismo e vinta la guerra, i figli dei braccianti diventati contadini e operai si sono ripresi Palazzo d’Accursio, ma a dividersi il primato nelle scuole, all’Università, negli studi e nei palazzi del centro sono ancora borghesi e preti, massoneria e chiesa; così dal tempo dei papi. Questa rimane la regola, almeno lì, al Minghetti, luogo ancora protetto. Nonostante i tempi in mutazione e ciò che può fare o farà quel ragazzo dai bei voti ma “venuto dal fango” che tanto piace al professore di filosofia, almeno finché rimane un‘eccezione. Uno strano, un po’ particolare, tutt’altro che “normale”, come la sua storia.
Claudio Sabattini nasce il 28 aprile del 1938, nella casa di Arduino Sabattini e Aurora Bonaveri. Lo attesta un certificato redatto sul posto dalla levatrice e controfirmato dalla madre. Nessun altro documento né testimone, cosa che, insieme alle vicende storiche in corso, alimenterà la leggenda – non l’unica sulla sua vita – di un’originaria famiglia ebraica che, alla vigilia delle leggi razziali varate il 14 luglio del ’38, avrebbe affidato il neonato alla famiglia Sabattini, per metterlo al sicuro. Si tratti di famiglia naturale o putativa, non proprio il luogo né i tempi migliori per un’infanzia serena: una famiglia di operai comunisti sotto il fascismo, che fatica a campare, spesso senza lavoro, tra esilio e galera. Vengono da Sala bolognese e dagli anni Trenta riempiono il casellario giudiziario del regime. Il padre di Claudio, Arduino, falegname, accusato nel 1931 di “ricostituzione del Partito comunista” e processato dal Tribunale speciale del fascismo, entra ed esce più volte dal carcere, a metà egli anni Trenta è esule in Francia, a Marsiglia, insieme alla moglie Aurora, operaia giornaliera ai mercati generali della Bolognina. Azzolino, fratello maggiore di Arduino, muratore con la terza elementare, tra i fondatori del Pci bolognese, condannato più volte per antifascismo e attività sovversiva dal Tribunale speciale passa gli anni Trenta al confino, da Ventotene alle Tremiti, per finire nel carcere di Civitavecchia da dove esce solo dopo la caduta del fascismo, il 20 agosto del 1943. In piena guerra.
Ed è quella l’infanzia di Claudio Sabattini: la casa dove non si gioca ma ci si nasconde, i bombardamenti e il loro terrore, le fughe diurne e le veglie notturne, la provvisorietà della vita, lo segnano per sempre, nell’angoscia di un bambino che diventerà repulsione persino fisica in età adulta ogni qual volta una guerra continuerà a macchiare il secolo. Perché la famiglia Sabattini al completo – Arduino con la moglie Aurora, Azzolino con la sorella Nerina – il 15 settembre del 1943 si ricongiunge a Bologna per farla quella guerra, contro nazisti e fascisti. (…)
La Fiom di Sabattini da Torino a Porto Alegre
Alle soglie del 2000 Sabattini e la sua Fiom fanno tre scommesse.
La prima è quella sulle giovani generazioni, su una nuova “classe operaia che ha consumato tutte le teorie degli ultimi 20 anni”, che non crede più all’illusione di trovare la libertà nella flessibilità del “lavoro autonomo” o che ha misurato i caratteri servili dell’impresa-comunità. Una generazione frantumata in mille forme lavorative e contrattuali diverse, ma che a Sabattini appare unificata dalla delusione rispetto alle promesse fatte dal liberismo e dalla globalizzazione. Questi giovani gli ricordano quelli del boom economico – che si sono accorti presto quanto costi l’emancipazione del lavoro industriale – alle prese con gli stessi problemi di fondo, la libertà e l’autodeterminazione, di fronte a un capitalismo “che non è mai stato così radicale e feroce contro ogni vincolo sociale, che vuole costringere il lavoro a supportare la competizione” come ammette il nuovo presidente della Confindustria, Antonio D’Amato, quando ai sindacalisti dice “voi dovete sostenerci nelle richieste che facciamo, non contrattarle”. Una generazione di giovani lavoratori – stabile o precaria – più scolarizzata della precedente e più attenta a ciò che esula dai luoghi e dai tempi di lavoro. Una generazione che non trova punti di riferimento nella politica tradizionale e che pone il sindacato di fronte a una scelta: per raccoglierne fino in fondo le sensibilità deve allargare la visione e sostituire le utopie tramontate con un ruolo rivendicativo generale, diventare un nuovo punto di riferimento e unificare senza annullare le diversità.
La Fiom, a cavallo dei due secoli, cerca di imboccare questa strada. Ed è la seconda scommessa di Sabattini, nella convinzione che tutta la Cgil finirà per mettersi sulla stessa sua lunghezza d’onda. A partire dal terreno dei diritti, quelli sempre enunciati e che spesso sono andati a sbattere contro le compatibilità del sistema: “Durante l’ultimo sciopero – racconta Sabattini in un’assemblea dopo la firma del contratto del ‘99 – ho sentito una giovane lavoratrice dire: ‘Bisogna garantire ai figli i diritti conquistati dai padri, ma come hanno fatto i padri, i giovani debbono conquistarsi i loro diritti’. Questo è il punto chiave. Fondamentale è estendere i diritti che già ci sono a chi non ne gode, ma il sindacato deve convincersi che non c’è alternativa alla costruzione di una soggettività in grado di contrastare le controparti, che parta da una propria visione del mondo e che la pratichi. Sempre”. E’ una politicizzazione del discorso che spinge la Fiom a uscire da fabbriche e uffici e occupare sempre più lo spazio pubblico, a essere “in movimento”. In particolare su due terreni, la guerra e le conseguenze sociali della globalizzazione. Incontrando ciò che di attivo sta rinascendo nella società italiana, tramontate le illusioni della “via giudiziaria al cambiamento” e maturate le delusioni per i nuovi partiti della Seconda Repubblica.
Nelle “testimonianze” contro la guerra – dal Medio oriente ai Balcani a tutti i conflitti dimenticati del terzo mondo – volontariato cattolico e laico, “antiche” associazioni come l’Arci e nuovi soggetti come Emergency danno vita a piccole pratiche di movimento che crescono progressivamente. La Fiom le incontra e offre una sponda sindacale quasi imprevista. Il rapporto di Sabattini con Tom Benetollo e Gino Strada diventa sempre più stretto, base di una comunità d’intenti e pratiche. Passaggio coagulante e visibile è la guerra tra Nato e ciò che resta della Yugoslavia nella primavera del ’99, con i bombardamenti sulla Serbia. L’Italia è completamente coinvolta nell’azione militare definita “guerra umanitaria” per porre fine alla repressione ordinata da Milosevic contro gli albanesi del Kosovo che vogliono l’indipendenza da Belgrado. Il Presidente del consiglio italiano è Massimo D’Alema e al governo ci sono parecchi ex comunisti; qualcuno come Cossutta ancora lo è. Eppure i vincoli internazionali prevalgono e l’Italia sostiene politicamente e logisticamente un conflitto che alla fine porterà al Kosovo un’indipendenza targata Nato, ai Balcani nuove divisioni, coerente conclusione di una disgregazione statale diventata disastro umanitario fatto di massacri e pulizie etniche. Per Claudio Sabattini non c’è ragione superiore che tenga, la guerra è il male assoluto; o più semplicemente l’incubo originario della sua vita, la memoria di un’infanzia vissuta sotto le bombe e nella paura. Così nel pieno di una vertenza contrattuale difficile quanto decisiva, la Fiom scende in piazza contro la guerra e contro i governi che la fanno, rinnova lo spirito pacifista scritto in statuti ormai antichi e dai più dimenticati; al suo fianco trova più associazioni e movimenti che partiti o sindacati.
“Siamo arrivati a un punto di cesura “, dichiara Sabattini a commento di una manifestazione cui la Fiom partecipa, unica categoria sindacale insieme ai metalmeccanici della Cisl. “Le vecchie generazioni non sembrano più in grado di trasmettere la propria memoria se non in maniera celebrativa. Mentre i giovani individuano nei valori della pace l’unico impegno politico degno di questo nome a fronte della frammentazione di una sinistra che non riesce a trovare nemmeno sulla guerra un punto di riferimento comune”. Il discorso dalla guerra passa a considerazioni generali che indicano la scommessa della Fiom sulla capacità della società di produrre autonomia di pensiero e quindi movimento: “Oggi è molto difficile che i giovani possano trovare una rappresentanza nelle forme tradizionali della politica, nei partiti, che si concepiscono solo come capacità di governo che però non appare in grado di offrire né lavoro, né progettualità, né autonomia. In qualche misura vale anche per i giovani metalmeccanici che cercano di affermare la loro autonomia sottraendosi alla gerarchizzazione delle imprese e, talvolta, anche del sindacato”.
Partendo da qui Sabattini porterà la Fiom molto lontano, fino in Brasile, al Primo Social Forum mondiale di Porto Alegre. In continuità con le analisi e le azioni sindacali, perché la globalizzazione – cui aggiunge sempre la qualifica “capitalista” – con i suoi poteri finanziari riduce il lavoro a pura merce, ne cancella ogni ruolo sociale, detta ormai le mosse alla rappresentanza politica producendo un collasso della democrazia che va ricostruita dal basso. “Siamo di fronte – sostiene nella primavera del 2000 – a un esproprio continuo di risorse, e poteri decisionali, che passano rapidamente nelle mani delle imprese multinazionali, che diventano la vera oligarchia finanziaria e gestionale dell’economia mondiale e chiedono sempre maggiore libertà”. In fondo l’atteggiamento di Confindustria o delle grandi imprese italiane non è altro che un tassello di un quadro più generale, coerente quanto spietato. Che il sindacato dovrebbe affrontare con radicalità, ma soprattutto superando i propri orizzonti nazionali, altrimenti “non sapremo che dire quando le multinazionali ci spiegano che se non accettiamo le loro condizioni se ne vanno da un’altra parte, visto che ormai la filiera è mondiale e le tecnologie permettono di gestire qualunque processo”. E su questo Sabattini chiederà a più riprese alla Ces di diventare un sindacato vero e proprio per contrattare a livello europeo le condizioni di lavoro, dando cosi un’alternativa alla concorrenza che i lavoratori finiscono per farsi quando sono costretti dentro una dimensione nazionale.
Così quando il 30 novembre del 1999 un’inaspettata insorgenza di giovani si palesa a Seattle, nella capitale di Microsoft, bloccando e facendo fallire il vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio, la storia sembra lanciare un segnale e la Fiom raccoglie l’idea che un altro mondo sia possibile, confrontandosi con un tumultuoso movimento di ribelli contro le crescenti disuguaglianze, la povertà e lo sfruttamento dei paesi poveri, che diventa presto un contenitore di ogni possibile punto di vista critico della globalizzazione. Impresa non semplice per un uomo del ‘900 come Sabattini o per la centenaria organizzazione dei metallurgici, il cui nome odora di ferro e ruggine; ma tentativo che il segretario della Fiom considera ineludibile.
La terza scommessa di Sabattini riguarda il quadro politico. Un capitalismo sempre più radicale e la determinazione con cui le imprese attaccano i diritti dei lavoratori – in Italia soprattutto il contratto nazionale – gli fanno dedurre che tutto il quadro di potere internazionale stia radicalizzandosi a destra. E che se anche un’importante parte del mondo ricco occidentale è amministrata da “progressisti” – D’Alema, Blair, Schroeder, Clinton – il mondo sta svoltando sempre più in direzione contraria. Per cui i governi che si dichiarano di sinistra finiscono per attuare politiche sociali di segno opposto e presto verranno sostituiti da una destra “populista e autoritaria” che con scelte liberiste estreme metterà a rischio la democrazia. Spingendo così il sindacato – stante la cecità della sinistra politica – ad assumere il ruolo d’opposizione ai governi che si preparano e che le elezioni europee del giugno ’99 già in qualche modo annunciano nella crescita generale dell’astensionismo e dei partiti di destra o centro destra, da quello di Berlusconi ai fascisti francesi di Le Pen, ai tanti sovranisti alla Haider, che così ancora non si chiamano ma che tali sono nell’Est europeo.
Al cambio di secolo il quadro è ormai chiaro. Almeno per la Fiom e il suo segretario. Per Sabattini non c’è scampo, si profila uno scontro sui diritti fondamentali, in Italia e nel mondo, uno scontro sul potere, dal più piccolo al più grande: la globalizzazione e il neoliberismo hanno chiuso il loro cerchio e la crisi della democrazia ne rappresenta l’esito finale. C’è poco di cui esser lieti, “voi andate pure nel nuovo millennio, io resto volentieri nel ‘900” è la sua battuta alla mezzanotte del 31 dicembre 1999. Ma l’inevitabile, al solito, può diventare un’opportunità. Nel suo particolare metalmeccanico il contratto del ‘99 è considerato un paradigma generale e dimostra che l’avversario non è imbattibile, anche se rimane lì, fermo nella sua forza e nelle sue intenzioni. L’importante è svelarle e trovare gli antidoti.