IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’inferno planetario del tardo-capitalismo

Cambiamento climatico «antropogenico» o «capitalogenico»? Il colloquio tra Jason W. Moore ed Elena Musolino pubblicato sul numero quattro del 2019 di Jacobin Italia

D. Sostieni che quella del clima sia l’ultima di una lunga storia di crisi affrontate dal capitale. Che differenza c’è tra cambiamento climatico «antropogenico» e «capitalogenico»?

R. Per spiegare la crisi climatica si possono adottare due distinte prospettive analitiche. Quella dominante fa riferimento alla dinamica geofisica globale che, guardando alle crescenti concentrazioni di gas effetto serra, riconosce alle attività dell’uomo la responsabilità dei cambiamenti climatici: crisi antropogenica. La seconda, minoritaria, ammettendo l’importanza del tema geofisico, aggiunge all’interpretazione la dimensione geostorica. Spiega come i cambiamenti di stato della biosfera, i gas serra, la crescente riduzione della biodiversità, siano tutti fenomeni collegati a relazioni di potere che si riflettono sulle mutazioni del clima. Per cui, la crisi climatica capitalogenica, non solo produce straordinari cambiamenti geofisici che impongono costi orribili alle donne, ai popoli indigeni, ai lavoratori e alla natura tutta, è il risultato di un sistema di accumulazione che si è basato su una struttura globale di rapporti di potere, razzista e sessista fin dalla sua origine. L’inferno planetario risulta come un processo di lungo periodo che ha trasformato la rete della vita in macchine per il profitto, attraverso i mercati e le tecnologie, ma soprattutto con la creazione e riproduzione dei dispositivi di genere e razza. Il razzismo e il sessismo moderno sono le vere astrazioni che – storicamente e nella crisi attuale – hanno permesso al capitalismo, come logica di dominio, l’ecocidio e lo sfruttamento contemporaneo di classe. Dunque, affermando che il cambiamento climatico sia capitalogenico sfidiamo sia il tema della riduzione delle emissioni dell’approccio antropogenico che, contemporaneamente, il riduzionismo economico di molte posizioni radicali. La posta in gioco è molto alta: qualsiasi movimento per la giustizia climatica, degno di questo nome, deve elaborare risposte politiche creative, sfidando le interconnessioni prodotte dal Capitalocene, come la divisione di classi climatiche, il patriarcato e l’apartheid climatico.

D. Qual è dunque la natura della crisi ecologica del XXI secolo?

R. L’inquinamento e la deforestazione sono spiegati come crisi ecologiche, distinte dalle questioni finanziarie lette come «crisi economiche». Ma chi sostiene la deforestazione e le infrastrutture planetarie necessarie allo sviluppo agricolo? Qual è la disciplina economica che impone l’inquinamento – comprese le emissioni di CO2?  È evidente che sia Wall Street a imporre una determinata organizzazione della natura, e non solo. L’intero sistema di sovraccumulazione del capitale finanziario è il risultato della fine della natura a buon mercato, ossia l’esaurimento delle frontiere del lavoro non capitalizzato, del cibo, dell’energia e delle materie prime in grado di assorbire una quota significativa del capitale in eccesso. Le precedenti espansioni finanziarie, come ha dimostrato il mio maestro Giovanni Arrighi, sono state risolte attraverso alcune misure di espansione globale, per cui è possibile identificare e interpretare i tessuti connettivi del potere, del capitale e delle reti della vita, come un insieme differenziato ma unificato a livello planetario. Questa prospettiva contrasta la tendenza ambientalista che crea il feticcio di una crisi «ecologica» separata dal capitalismo nel suo complesso, una tendenza con una storia misera in Nord-America, che si è andata intrecciando al suprematismo bianco sotto forma di politica neo-maltusiana e anti-immigrazione. Ci permette, inoltre, di osservare come i movimenti di sovraccumulazione del capitale e il superamento dei «confini planetari» siano uniti dialetticamente (…). Le frontiere della natura a buon mercato, necessarie alla produzione nella forma capitalistica, storicamente hanno determinato la devastazione della vita, della terra e dei corpi. Oggi, la congiuntura è epicamente differente. Non solo le opportunità per abbassare i prezzi sono ai minimi storici, ma anche la massa di capitale in cerca di nuove fonti di investimento redditizio è più grande che mai. La spettacolare accelerazione del cambiamento climatico segnala sia la miseria globale che il crescente e rapido aumento dei costi di riproduzione del capitale.

(…)

D. La prospettiva marxiana classica si concentra sullo sfruttamento del lavoro salariato, l’appropriazione della natura esiste solo nella fase «preistorica» del capitale. Per te il capitalismo è un modo di organizzare la natura.

R. Hai ragione nel dire che la rete della vita scompare dall’accumulazione di capitale in gran parte della teoria marxista, sebbene sia al centro dell’attenzione rispetto alla questione del materialismo storico – lo è nel lavoro di John Bellamy Foster e Paul Burkett e prima in William Leiss, Herbert Marcuse, Donna Haraway e Carolyn Merchant – tuttavia, rimane marginale nel dibattito come l’accumulazione di capitale produca reti di vita e, parimenti, come le reti di vita producano esse stesse accumulazione di capitale. James O’Connor e Neil Smith ci hanno restituito un’analisi critica dell’approccio politico-economico negli anni Ottanta, evidenziando le contraddizioni che l’uso della natura ha prodotto in quegli anni. L’ecologia-mondo ha perseguito una sintesi delle due prospettive: la lezione che ho tratto da Bellamy Foster è che la «tendenza alla crescita del surplus» (sostenuta dagli economisti Paul Baran e Paul Sweezy) e la «legge generale assoluta del degrado ambientale» (sostenuta da Foster) siano due facce della stessa medaglia (Foster non è d’accordo con la mia tesi, ma i pensatori importanti corrono sempre il rischio – o ne attendono con ansia la possibilità – che i loro studenti siano antagonisti delle nuove ortodossie). Marx aveva intravisto questa possibilità, quando ha scritto che il dinamismo industriale del capitalismo tende ad anticipare la sua capacità di fornire materie prime a basso costo, descrivendo il momento di circolazione del capitale fisso. Questa è la «legge generale» di Marx: la caduta tendenziale del saggio di profitto. In Web of Life ho provato a mostrare l’inverso di questa tendenza (la controtendenza): maggiore è la capacità del capitalismo di assicurarsi fonti di lavoro, cibo, energia e materie prime, più facilmente la massa crescente di capitale in eccesso può essere investita con profitto. In parole semplici, se domani ci svegliassimo e il prezzo di cibo, energia, lavoro e materie prime si dimezzasse e le forniture aumentassero del 50%, molti investimenti in perdita diventerebbero improvvisamente redditizi. Questo è il momento della natura a buon mercato (cheap nature): l’accumulazione per capitalizzazione.

[Jason W. Moore, Elena Musolino, L’inferno planetario del tardo-Capitalismo, “Jacobin Italia” n. 4 2019]

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