«Ora che l’Italia è ufficialmente entrata nel processo dell’Unione monetaria europea, può essere utile fare qualche considerazione di buon senso su quelle che saranno le probabili conseguenze sulla struttura dell’economia del nostro paese.
A questo proposito e bene ricordare come il processo di integrazione europea si sia svolto a partire dalla fine degli anni cinquanta. E’ stato grande merito di uno storico inglese, Alan Milward, mostrare in numerose opere di grande impegno come, al di là della retorica europeista, il processo di integrazione europeo fosse stato condotto, dall’inizio, come un assai complesso esperimento che aveva lo scopo di salvare il concetto europeo di Stato-nazione dalla bancarotta nella quale lo aveva fatto precipitare la seconda guerra mondiale. Inghilterra e Francia ma anche Germania e Italia sono riuscite, nel corso dell’ultimo quarantennio, a ricostruire le proprie economie, a riportarle a un livello di integrazione commerciale simile a quello di prima della prima guerra mondiale, e a farsi aiutare corposamente in tale esercizio dagli Stati Uniti, grandi promotori dell’integrazione europea, cercando di aderire nel minor modo possibile all’idea che il grande fratello d’oltreatlantico aveva dell’integrazione stessa, la creazione cioè di uno spazio economico continentale, simile a quello creato nel Nord America. I paesi fondatori della Comunità europea sono riusciti invece a rendere massimi gli scambi commerciali all’interno dell’Europa, mantenendo al tempo stesso strutture produttive nazionali che esibissero una matrice industriale più o meno completa.
Fino a dieci anni fa , questa affermazione poteva essere fatta senza possibilità di contestazioni. Ma nell’ultimo decennio ha cominciato a manifestarsi con lancio del piano Delors e del mercato unico europeo, con la promulgazione delle direttive relative alle banche, col rafforzamento del Direttorato sulla concorrenza della commissione UE, un processo nuovo di integrazione, che ha provveduto a limitare fortemente la capacità dei vari Stati membri di difendere la propria matrice industriale.
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Numerosi economisti hanno messo in evidenza nelle loro ricerche il formarsi di un nucleo centrale e di una periferia, all’interno della Ue, che seguono fedelmente le vicissitudini monetarie degli ultimi quindici anni. Paesi come l’Italia e la Spagna, ma anche la Gran Bretagna, se si esamina la struttura del loro commercio, sono venuti a differire, nelle loro relazioni commerciali, dal modello esibito dai paesi che sono stati capaci di mantenere fermi i tassi di cambio delle loro monete con quello del marco tedesco. Questo è particolarmente evidente se si considera il livello intra-industriale del commercio stesso, dal quale meglio si rilevano la specializzazione e l’integrazione tra paesi del centro dell’Unione europea.
Si può dire altresì che le traversie del mercato dei cambi hanno rafforzato ulteriormente la vocazione dei paesi a moneta debole, come l’Italia e la Spagna, a specializzarsi nell’esportazione di beni a limitato contenuto di tecnologia e a elevato contenuto di lavoro. Mentre hanno progressivamente abbandonato, e questo è vero in particolare per l’Italia, le esportazioni di beni di investimento e ad alto contenuto tecnologico. Il contrario sembra essere accaduto alla Francia e in qualche misura all’Inghilterra, mentre nel caso della Germania è stata evidente una maggior capacità del paese centro dell’Europa di mantenere la propria struttura industriale ed esportativa, se si fa eccezione per la débâcle continentale delle esportazioni di prodotti elettronici, che non ha risparmiato nemmeno la Germania.
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Tutto quello che si è appena detto, tuttavia, deve fare i conti con il dualismo accentuato dell’economia italiana che vede condizioni di piena occupazione nelle aree forti del paese, mentre quelle deboli mostrano percentuali di disoccupati elevate quanto e più di quelle registrate nei lander orientali della Germania.
La tradizionale soluzione a questo sfasamento è stata l’importazione di manodopera meridionale. Negli anni recenti questa è cessata, mentre sono stati importati lavoratori extracomunitari. Nel futuro, se tra le conseguenze dell’Unione monetaria si manifesterà quella di una più accentuata specializzazione produttiva all’interno della nuova area monetaria, non sarà difficile immaginare un rafforzamento ulteriore dei settori forti dell’industria italiana e un indebolimento ulteriore di quelli che hanno mostrato maggiore affanno in anni recenti. Tra i primi ci sono il sistema moda e la meccanica, tra i secondi quel che rimane dei settori caratterizzati da economie di scala e di quelli ad alta intensità di ricerca e tecnologia.
Assolutamente cruciale risulterà allora la capacità che il nostro paese mostrerà di venire a capo dell’unico vero problema del Mezzogiorno, che è quello della delinquenza. Se è vero, infatti, che la dotazione di servizi delle regioni meridionali è fortemente carente, è anche vero che il tipo di industria che verso tali aree tende a delocalizzarsi non richiede servizi troppo sofisticati, se riesce a delocalizzarsi verso paesi extracomunitari in cui la situazione dei servizi non è certo superiore a quella del Mezzogiorno. E si deve aggiungere che anche il livello di delinquenza che in tali paesi si trova non è di molto inferiore a quel che si rinviene nel Mezzogiorno.
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Ormai parecchi anni fa ebbi occasione di scrivere che il mercato unico e l’Unione monetaria avrebbero esaltato i paesi che si erano in tempo attrezzati con amministrazioni pubbliche moderne e affondato quelli che permettevano a settori pubblici invecchiati di sopravvivere o addirittura credevano ingenuamente che mercato unico e unione monetaria avrebbero permesso loro di fare a meno dello Stato. Era una profezia troppo tacile, ed intatti essa si e già ampiamente avverata.
L’Italia, ad esempio, è stata costretta dalla propria imprevidenza precedente a disfarsi della gran parte della propria impresa pubblica, azzerando decenni di investimenti e risorse, solo per riuscire a radunare sufficienti capitali che le permettessero di fermare la corsa del debito pubblico e iniziare a mandarlo indietro. Ma specialmente, per acquistare credibilità nei confronti di un mercato finanziario internazionale dal quale il paese dipendeva per il proprio risanamento finanziario, e che era assai mal disposto nei confronti dell’impresa pubblica. Nessun altro paese ha eseguito in tanto breve tempo un numero così elevato di privatizzazioni. Ma una vittima di questo accelerato smantellamento dell’impresa pubblica è stata certamente la visione del ruolo che il settore pubblico deve ricoprire in un paese grande come l’Italia dopo il raggiungimento del mercato unico e dell’Unione monetaria.
Lo stesso non sembra essere accaduto in Europa, e in particolare in Germania. In quest’ultimo paese, la razionalizzazione del settore pubblico procede con molto maggiore lentezza e, almeno così pare di capire, con un’idea assai più chiara degli obiettivi finali che si vogliono perseguire. Le banche pubbliche, ad esempio, sono state esentate, per quanto riguarda le loro concentrazioni, dall’interferenza della Direzione della concorrenza dell’Unione europea.
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Malgrado le continue dichiarazioni a sentire le quali si direbbe che l’Europa sia caduta nelle mani della Banca centrale europea e della Commissione di Bruxelles, appare estremamente chiaro che la politica industriale dell’Europa la stanno organizzando, per gli anni futuri, i grandi gruppi dei vari paesi spalleggiati vigorosamente dai propri governi. D’altronde sarebbe assai strano aspettarsi alcunché di diverso. Nel nostro paese non sembra ancora essersi fatta strada la coscienza della nuova natura della sovranità economica all’interno del mercato unico e della unione monetaria. Ci si aspetta ingenuamente l’eutanasia di tutti i governi, perché́ gli italiani hanno in odio il proprio e non vedono l’ora di essere governati da Bruxelles e da Francoforte. Ma negli altri paesi d’Europa il pubblico è ben lontano dal nutrire tali speranze. Ha fiducia nei propri amministratori ed esige che essi lo rappresentino adeguatamente in seno alle istituzioni europee. Nella costruzione della nuova geografia del potere pubblico in Europa, è evidente che la tendenza dichiarata a una sempre maggiore sussidiarietà porterà all’avvantaggiarsi dei paesi che sono riusciti a creare istituzioni di governo locale moderne ed efficienti. Persino lo Stato ultra-centralizzato francese sembra essersi reso conto di questa nuova realtà e ha provveduto a stimolare le autonomie locali. Con risultati che sembrano estremamente efficienti agli imprenditori italiani che hanno cercato di impiantare attività nel resto d’Europa. Le autonomie locali sono tradizionalmente forti in uno Stato di antica esperienza federale come quello tedesco. Anche la Spagna possiede capacità di autonomia molto sviluppate. Le nostre regioni e i nostri comuni, invece, cominciano solo ora a svegliarsi da una lunga ignavia, a comprendere che nei prossimi anni a essi sarà demandata gran parte della nuova politica economica.
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Ci saranno dunque, come risultato del mercato unico e dell’unione monetaria, meno nazioni in Europa, cioè meno aggregazioni di potere economico capaci di regolare il proprio destino. Ma ce ne saranno sempre un certo numero. Gli italiani non parteciperanno a disegnare la politica industriale dell’Unione europea, ma certamente lo faranno tedeschi e francesi. Una volta disegnata, anche le nostre imprese avranno in essa uno spazio, all’interno del quale potranno prosperare e crescere. Ma è altamente improbabile che esse potranno partecipare al disegno dell’intera strategia dell’Unione.
Questo può risultare difficile da accettare a italiani animati da sincero e onesto spirito nazionale, confrontabili dunque ai loro assai più̀ numerosi omologhi europei. Ma essi, tradizionalmente, sono stati assai pochi in Italia, e dopo la guerra perduta sono divenuti ancor meno. L’eutanasia della sovranità italiana sarà dunque guardata con distacco dalla gran parte degli italiani, e da molti di essi anche con entusiasmo. E se poche migliaia di giovani brillanti dovranno studiare e poi fare la propria carriera all’estero, questo certamente non turberà i sonni dei molti milioni di cittadini ai quali non pesa nulla non essere padroni del proprio destino. La parabola iniziata col Risorgimento avrà descritto il suo corso».
[M. de Cecco, L’oro di Europa. Monete, economia e politica nei nuovi scenari mondiali, Donzelli, Roma 1999, pp. 33-51]