IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’Occidente, la Cina e le due “grandi divergenze”

La fine dell’«epoca colombiana» è l’inizio della fine della «grande divergenza» planetaria tra Occidente e resto del mondo. Mentre questa si restringe, nel mondo capitalistico si allarga l’altra «grande divergenza», quella tra la ricchezza di pochi e la crescente penuria delle classi popolari.

“(..) nel 1949 nasce la Repubblica popolare, che però non ha completato il processo di riunificazione nazionale e di recupero dell’integrità territoriale e anzi deve guardarsi dai progetti di smembramento coltivati dall’Occidente, il quale appoggia e alimenta tutti i movimenti secessionisti (nel Tibet, nel Xinjiang, nella Mongolia Interiore e altrove)”. (…) bersaglio di una spietata guerra economica, la Repubblica popolare cinese continua a essere esposta al pericolo di aggressione militare: non a caso è per lungo tempo esclusa dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. Soprattutto, essa è tra i paesi più poveri del mondo e dunque, stando alla dichiarazione di Mao del 16 settembre 1949, rischia di dipendere dalla «farina americana» e di «diventare una colonia americana».

Il grande balzo in avanti, la delusione di Mao

(…) il quadro cambia con il lancio prima del Grande balzo in avanti e poi, soprattutto, della Rivoluzione culturale, allorché risuona la parola d’ordine: «L’uno si divide in due»; il fronte unito antimperialista conosce una lacerazione e il bersaglio della lotta di classe viene ricercato in primo luogo sul piano interno. Ma (…) nel maggio 1974 a esprimere profonda delusione per i risultati è lo stesso Mao, riconoscendo (…) di non essere riuscito a risolvere il problema dell’alimentazione, egli deve aver forse pensato al pericolo per la Cina, evocato quasi un quarto di secolo prima, di divenire colonia del paese in grado di fornirle la «farina» necessaria per la sopravvivenza”.

La narrazione occidentale dell’omologazione

“La tesi della sostanziale convergenza tra lotta di classe e lotta nazionale torna in auge con l’avvento al potere di Deng Xiaoping. La politica di riforme e apertura da lui lanciata è stata spesso letta come l’omologazione della Cina all’Occidente e l’affermarsi di una sorta di calma piatta sulla scena mondiale. Ma si tratta di una lettura piuttosto superficiale. Sotto certi aspetti quella politica è il tentativo di sfuggire alle forme più devastanti della guerra economica (…). Mentre a lungo continua a pesare la minaccia di attacco «nucleare» sotto forma commerciale, si assiste a un gioco sottile. Gli Usa sperano di disporre di un immenso paese erogatore di forza-lavoro a basso costo e di prodotti a basso contenuto tecnologico e a prezzi stracciati; la Cina mira ad accedere alla tecnologia avanzata di cui ormai, dopo la crisi e il crollo dell’Urss e del campo socialista, l’Occidente detiene il monopolio”.

Le ‘profezie’ di Huntington e Ferguson sulla fine dell’«epoca colombiana»

“In tal modo potrebbe essere colmato il distacco rispetto ai paesi capitalistici più avanzati e liquidata la prima diseguaglianza; sennonché, tale progetto è tutt’altro che facile da realizzare, dato che gli Usa in particolare cercano di sottoporre il grande paese asiatico a una sorta di embargo tecnologico (…). Negli ultimi anni del novecento Huntington osservava: se l’industrializzazione e la modernizzazione in corso nel grande paese asiatico avranno successo, «l’avvento della Cina al ruolo di grande potenza surclasserà qualunque altro fenomeno comparabile verificatosi nella seconda metà del secondo millennio». Circa tre lustri dopo non c’erano più dubbi: nel frattempo la Cina era stata ammessa all’Organizzazione mondiale del commercio e gli Usa non potevano più brandire la minaccia di un attacco «nucleare» sotto forma commerciale. Sicché, sempre in relazione alle trasformazioni epocali in corso in Asia, ai giorni nostri Ferguson può concludere: «Quello che ora stiamo vivendo è la fine di 500 anni di predominio occidentale». I due autori qui citati fanno ricorso alla medesima, enfatica, datazione. Procedendo a ritroso di circa cinque secoli, ci imbattiamo nella scoperta-conquista dell’America e nell’inizio di quella che Halford J. Mackinder, uno dei padri della geopolitica, ha definito l’«epoca colombiana» della scoperta e dell’«appropriazione politica» del mondo a opera dell’Occidente, che si espande trionfalmente incontrando «una resistenza pressoché trascurabile»”. “La fine dell’«epoca colombiana» è al tempo stesso l’inizio della fine della «grande divergenza», che ha scavato un solco profondo tra l’Occidente e il resto del mondo, ha reso possibile la strapotenza militare del primo e ha stimolato o reso agevole l’arroganza culturale e spesso anche razziale esibita dalla ristretta area di più avanzato sviluppo economico e tecnologico. Si apre ora la prospettiva di un radicale mutamento della divisione internazionale del lavoro”

L’Occidente, la Cina e le due “grandi divergenze”

(..) mentre si restringe la «grande divergenza» globale e planetaria, all’interno del mondo capitalistico più sviluppato si allarga un’altra «grande divergenza». (…) questa seconda «grande divergenza» si è accentuata sull’onda della crisi del 2008. Il caporedattore finanziario del «Wall Street Journal» a New York osserva: negli Usa «l’un per cento della popolazione controlla più di un quinto della ricchezza del Paese e il 15 per cento della gente vive sotto la soglia di povertà». Ci imbattiamo così in rapporti di potere che vanificano la libertà delle classi popolari: «Solo il 27% dei disoccupati può contare sul sussidio di disoccupazione. Ciò consente alle aziende di colpire i sindacati e di minacciare i dipendenti che cercano di organizzarsi (sul piano sindacale)». Una domanda s’impone: la seconda «grande divergenza» investe anche il paese che più di ogni altro sta mettendo in discussione la prima «grande divergenza»? Se per un verso in Cina è dileguata l’assoluta diseguaglianza qualitativa (la differenza tra la vita e la morte) che è in agguato in una situazione di penuria, per un altro verso la distribuzione della ricchezza sociale è divenuta nettamente più diseguale. È una dialettica non nuova nella storia del movimento scaturito dalla rivoluzione d’ottobre. Essa, con riferimento alla Russia sovietica, è stata ben descritta da Trotskij nel 1936-37: Il regime sovietico ebbe incontestabilmente nel suo primo periodo un carattere molto più egualitario e meno burocratico di oggi. Ma la sua eguaglianza fu quella della miseria comune. Le risorse del paese erano così ridotte da non permettere il distacco dalle masse di strati sia pur relativamente privilegiati. Il salario «egualitario», sopprimendo lo stimolo individuale, divenne un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive. L’economia sovietica doveva uscire un po’ dalla sua indigenza perché vi divenisse possibile l’accumulazione di quelle materie grasse che sono i privilegi. Nonostante il suo tono polemico, sto citando da un libro che già nel titolo denuncia il «tradimento» della rivoluzione – è un brano illuminante: a) non si può restare fermi alla «miseria comune»; b) in tale stadio c’è sì un «salario ‘egualitario’». Ma si tratta (…) di un’eguaglianza solo nella miseria, nell’«ascetismo universale» e coatto da cui il Manifesto del partito comunista prende nettamente le distanze e che – aggiungo io – può comportare lo slittamento nell’assoluta diseguaglianza qualitativa; c) per uscire da questa condizione occorre promuovere lo «sviluppo delle forze produttive», facendo leva sullo «stimolo individuale»; emergono così diseguaglianze che sono legittimate dalla diversa quantità e qualità del lavoro erogato, ma che possono trasformarsi in «privilegi» intollerabili.

Sottosviluppo e sviluppo nella Cina degli ultimi decenni

(..) un’analisi e in una messa in guardia che possono valere anche per la Cina. I mutamenti intervenuti negli ultimi decenni potrebbero essere illustrati con una metafora. Ecco due treni che si allontanano dalla stazione chiamata «Sottosviluppo» per avanzare in direzione della stazione chiamata «sviluppo».
Uno dei due treni è superveloce, l’altro è di velocità più ridotta: di conseguenza, la distanza tra i due aumenta progressivamente. Tale sfasatura si spiega agevolmente se si tengono presenti le dimensioni continentali della Cina e la sua storia tormentata: le regioni costiere, che già disponevano di infrastrutture sia pure elementari e che godono della vicinanza e della possibilità di scambio con paesi sviluppati, sono in una condizione più favorevole rispetto alle regioni tradizionalmente più arretrate, senza sbocco al mare e per di più confinanti con paesi e con aree contrassegnate dal ristagno economico. Ben diverso è il quadro che presenta l’Occidente: per questa regione del mondo non pochi osservatori parlano di ritorno di una miseria che sembrava debellata e che irrompe in una società in cui l’opulenza si concentra in una cerchia sempre più ristretta. Per la Cina occorre invece parlare di ritorno del benessere o di una condizione di vita dignitosa, sia pur nell’ambito di un processo ricco di contraddizioni; pur di diversa velocità, i due treni della metafora avanzano verso il medesimo traguardo. Se negli Usa e in Europa occidentale l’emergere o l’inasprirsi della seconda «grande divergenza» e lo smantellamento dello Stato sociale sono stati preceduti da una campagna ideologica che (…) con Hayek depennava i diritti economici e sociali dal catalogo dei diritti, in Cina si è verificato un processo ideologico e politico del tutto diverso. Nel promuovere la svolta del 1979, ben lungi dal mettere in discussione i diritti economici e sociali, Deng Xiaoping ne ha sottolineato la centralità. Ha criticato il vecchio modello per il fatto che, incapace com’era di sviluppare le forze produttive e di superare la situazione di penuria, non era in grado di appagare realmente il diritto alla vita e a una vita dignitosa (…)

La povertà non è socialismo

S’imponeva un cambiamento di rotta. Occorreva prendere atto «che la povertà non è socialismo e che il socialismo significa eliminazione della miseria» e realizzazione della «comune prosperità», del «benessere» e della «felicità» per il «popolo» nel suo complesso. Su questa base, ferma restava l’opposizione al «capitalismo» che «può solo arricchire meno del 10 per cento della popolazione cinese e non può mai arricchire il restante 90 e più per cento». Era necessario perseverare nella scelta fatta nel 1949, facendola però finita con gli slittamenti nel populismo, che individuava nella ricchezza una possibile fonte di contaminazione della purezza rivoluzionaria e che, cancellando qualsiasi incentivo materiale, di fatto premiava il disimpegno nel lavoro: «Se aderiamo al socialismo e applichiamo il principio [marxiano] della distribuzione remunerando ciascuno secondo il suo lavoro, non ci sarà eccessiva disparità nella ricchezza»; come nella Nep sovietica (esplicitamente citata), alla proprietà pubblica si sarebbe affiancata una proprietà privata ma con un ruolo dirigente accordato alla prima.

Il nuovo corso, la lotta alle diseguaglianze qualitative e quantitative

Ora comincia a delinearsi con chiarezza la lotta ideologica e politica che ha imposto il nuovo corso in Cina: da un lato i fautori della distribuzione egualitaria della penuria, inclini alla trasfigurazione populistica di questa condizione quale sinonimo di eccellenza politica e morale; dall’altro i fautori di una «prosperità»
sì «comune», ma da conseguire mediante la competizione degli individui e delle imprese, il mercato, l’intreccio di industria pubblica e privata, fermo restando il ruolo dirigente del settore statale e pubblico dell’economia (e del potere politico). Come dimostra anche il riferimento di Deng Xiaoping all’esperienza della Nep
sovietica, non si tratta di un dibattito nuovo nella storia dei paesi di orientamento socialista. Sia pure con un radicalismo inedito, si ripropone un dilemma di vecchia conoscenza: puntare tutto sull’«ascetismo universale» e sul «rozzo egualitarismo» (sbeffeggiati dal Manifesto del partito comunista) o prendere sul serio il compito che, sempre secondo il Manifesto, un partito comunista al potere deve assolvere, quello di «accrescere, con la più grande rapidità possibile, la massa delle forze produttive»?
Avendo alle spalle almeno tre decenni di prodigioso sviluppo economico, che tra contraddizioni e conflitti di ogni genere ha consentito di liberare centinaia di milioni di persone dalla miseria, dall’assoluta diseguaglianza qualitativa o dal pericolo di cadere in essa, nella Cina di oggi si assiste allo sforzo di aggredire anche le diverse manifestazioni della diseguaglianza quantitativa. Negli ultimi anni il Tibet, la Mongolia Interiore e altre regioni hanno potuto vantare un tasso di sviluppo superiore, e talvolta nettamente superiore, alla media nazionale; la medesima considerazione si può fare per un’enorme megalopoli quale Chongqing e una grande metropoli quale Chengdu, che distano circa 1.500 chilometri dalle regioni orientali e costiere, quelle più sviluppate, e che sembrano lanciate in un furioso inseguimento. E dunque, nel paese-continente che è la Cina si riducono le differenze regionali, e si riducono nel corso di un processo accelerato di sviluppo economico; queste differenze si aggravano invece in Europa (e all’interno di singoli paesi come l’Italia), e si aggravano nel corso di un processo all’insegna per lo più del ristagno o della recessione. Certo, in Cina continua ad allargarsi il divario tra la città (che attrae le forze più giovani e più intraprendenti) e la campagna, ma questa tendenza è in qualche modo contenuta dal rapido processo di urbanizzazione: i passeggeri del treno (urbano) superveloce diventano sempre più numerosi; non mancano comunque gli sforzi per accrescere la velocità del treno (rurale) relativamente meno veloce. Nelle stesse aree urbane, l’accesso al benessere e talvolta alla ricchezza e persino all’opulenza è tutt’altro che omogeneo; ma tali diseguaglianze e distorsioni vengono in qualche modo contenute o disinnescate mediante il rapido innalzamento dei livelli salariali e l’introduzione dei primi elementi di Stato sociale. Nel complesso, la diversa velocità con cui ci si lascia alle spalle la miseria e si accede al comfort della civiltà moderna non può essere correttamente descritta con la categoria di «grande divergenza». Tanto più che i persistenti ostacoli sulla strada che conduce alla «prosperità comune» sono avvertiti come macigni che impediscono il pieno godimento dei diritti economici e sociali e che la società è chiamata a rimuovere nei tempi più rapidi possibili: anche sul piano ideologico netta è l’antitesi rispetto al neoliberismo che promuove e legittima la prima così come la seconda «grande divergenza».

L’adesione al WTO. Il ricorso dell’Occidente ad altre armi commerciali

“(…) sarebbe superficiale (…) fare astrazione dal contesto internazionale (…). Conosciamo già la minaccia ricorrente da parte di Washington di chiudere il mercato statunitense alle merci cinesi e dunque di far ricorso a una misura che fino a qualche tempo fa costituiva l’equivalente commerciale del ricorso all’«arma nucleare». La Cina poteva cercare di mettersi al riparo aderendo al WTO, all’Organizzazione mondiale del commercio. Sennonché, questa e le altre organizzazioni economiche internazionali egemonizzate dagli Usa e dall’Occidente premevano perché fossero smantellate in modo rapido e massiccio le industrie statali, senza badare ai costi sociali e cioè all’aumento della disoccupazione e alla perdita dei benefici sociali (asilo-nido, assistenza sanitaria ecc.), in Cina tradizionalmente collegati all’occupazione in una fabbrica statale. Altre volte gli interventi di Washington erano più diretti. Era la stessa stampa statunitense a riferire dei moniti rivolti dall’ambasciatore Usa a Pechino sulle «conseguenze negative» della persistenza di un esteso settore di economia statale e collettiva e del «mancato impegno a favore del mercato». Preoccupante e inaccettabile era considerata una politica che, invece di chiudere le imprese statali perseguiva il «tentativo di renderle più competitive». Vera e propria indignazione suscitava poi il delinearsi di una «strategia» basata sulla «pretesa» che gli «investitori stranieri» collaborassero «coi capi del Partito comunista a introdurre moderna tecnologia e tecniche manageriali nelle industrie statali cinesi» (…)
Nel frattempo la Cina è stata ammessa all’Organizzazione mondiale del commercio. Grazie a questa ammissione e al prodigioso sviluppo economico del grande paese asiatico, l’«arma nucleare» commerciale è stata neutralizzata. Ma non per questo si è svuotato l’arsenale di armi commerciali a disposizione di Washington: se la Cina vuole essere riconosciuta come paese a economia di mercato (e così essere in qualche modo garantita contro la minaccia protezionista), soprattutto se vuole allentare l’embargo tecnologico cui continua a essere sottoposta, essa è chiamata a fare ulteriori concessioni nella direzione già vista. Sappiamo che, come gli altri paesi con una rivoluzione anticapitalista e anticolonialista alle spalle, la Cina si trova a dover fronteggiare due diverse diseguaglianze, la «diseguaglianza globale» vigente a livello internazionale e quella interna al paese. Ebbene, è come se Washington si rivolgesse così ai dirigenti di Pechino: se volete rimuovere gli ostacoli che si frappongono al superamento del primo tipo di diseguaglianza (con la cancellazione delle norme che impediscono od ostacolano l’accesso alla tecnologia più avanzata), dovete fare concessioni che di fatto aggravano il secondo tipo di diseguaglianza (lo smantellamento del settore statale comporterebbe in primo luogo la riduzione della capacità di intervento a favore delle regioni meno sviluppate e quindi renderebbe più difficile la lotta contro le diseguaglianze regionali) (…)

Il no cinese all’autarchia, non c’è alternativa al ballare con i lupi.

In teoria, la Cina potrebbe sottrarsi a tali pressioni e a tali condizionamenti imboccando una via di sviluppo più o meno autarchico. In realtà, il recupero del ritardo economico e tecnologico – spiega già il Manifesto del partito comunista – non può essere conseguito nell’isolamento da un processo in atto a livello mondiale, che vede «le più antiche industrie nazionali» essere soppiantate «da industrie nuove, la cui introduzione diventa una questione di vita e di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più materie prime locali, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti diventano oggetto di consumo non solo all’interno del paese, ma in tutte le parti del mondo». In altre parole, lo sviluppo che un paese protagonista di una rivoluzione anticapitalista o anticoloniale è chiamato a promuovere non può essere pensato senza l’aggancio a un mercato mondiale ancora largamente controllato dalla borghesia. Non c’è reale alternativa alla scelta di ballare con i lupi. [da D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, 2013]

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