IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’UE salva i suoi valori o si autoassolve dai suoi errori?

Alla fine della seconda guerra mondiale, quando gli USA, assieme con le altre potenze occidentali vittoriose, dovevano decidere che fare della Germania, il generale statunitense Lucius Clay affermò che «Non vi è scelta fra l’essere comunisti con 1.500 calorie giornaliere e il credere nella democrazia con un migliaio». E fu così che, abbandonato l’originario approccio punitivo del piano Morgenthau, iniziò la ricostruzione post-bellica in Europa occidentale.

Polacchi e ungheresi sono oggi posti dinanzi all’alternativa se rimanere fieramente “illiberali” con poche calorie giornaliere, o pentirsi e tornare agli impegni europeisti della loro adesione all’UE nel 2004 per poter continuare a godere delle “calorie” dei fondi europei. La Commissione europea, infatti, non ha ancora sbloccato i fondi del c.d. Recovery Fund nei confronti della Polonia, in attesa che il governo del Pis rinneghi la propria riforma della giustizia fortemente limitatrice dell’indipendenza della magistratura; mentre ha attivato la procedura del regolamento 2020/2092 per sospendere un terzo dei fondi di coesione nei confronti dell’Ungheria, accusata di gestione clientelare dei finanziamenti europei.

Polonia e Ungheria si erano impegnate al rispetto dei valori dell’UE, prima fra tutti la Rule of Law (art. 2 TUE) all’atto di adesione all’UE, ma la svolta illiberale intrapresa dai partiti di maggioranza ormai da molti anni non ha trovato argini sufficienti nell’armamentario istituzionale dell’UE: come noto, la procedura volta a sanzionare gli Stati membri che attentano ai valori dell’Unione (a prescindere da puntuali violazioni o mancate attuazioni del diritto europeo) può attivarsi solo con l’unanimità del Consiglio europeo (dei capi di stato o di governo: art. 7.2 TUE) e tale riserva alla politica si è rivelata fin qui un limite alla c.d. enforceability dei valori dell’Unione (Guazzarotti).

Ben vengano, dunque, strumenti di condizionalità economica che attacchino il portafoglio dei governi illiberali per cercare di rimediare a quel collo di bottiglia e di difendere, così, l’«identità» dell’Unione (Corte di giustizia dell’UE, C-156, §§ 127, 232; C-157, §§ 145, 264, 268). Dopo tanti anni di dura condizionalità economica per costringere la Grecia e i c.d. PIIGS a discutibili riforme del mercato del lavoro e delle pensioni, finalmente un uso “alto” della condizionalità, che miri a difendere gli ideali su cui l’Unione e i suoi Stati membri dicono di basarsi!

In questo approccio, condiviso da gran parte della dottrina e del Parlamento europeo, forse con più prudenza anche da Corte di giustizia e Commissione, si annida il moralismo di chi rimprovera ai governi delle democrazie illiberali di alcuni Paesi dell’Est Europa di aver opportunisticamente imitato le istituzioni occidentali della democrazia costituzionale nella fase dell’adesione, per poi svuotarle progressivamente a pochi anni dall’ingresso nell’UE. L’approccio riecheggia la narrativa mainstream adottata allo scoppio della crisi economica del 2010 nei confronti della Grecia, rea di aver truccato i propri conti per poter entrare nell’eurozona. Si preferì, in quell’occasione, colpevolizzare il singolo Stato membro, anziché affrontare apertamente le carenze strutturali dell’architettura dell’Eurozona, inaugurando una serie di riforme e di politiche “punitive” nei confronti della Grecia e degli altri Stati debitori, i quali furono indotti a sposare la linea dell’austerity. Se l’obiettivo della “salvezza dell’euro” fu raggiunto, scarsi furono i benefici per la convergenza delle economie nazionali, mentre negativo fu l’impatto sull’equilibrio dell’economia globale: la repressione della domanda interna negli Stati dell’UE fece salire il surplus della bilancia dei pagamenti verso il resto del mondo a livelli inauditi, facendo dell’UE(M) un’agguerrita entità mercantilista. I problemi strutturali dell’incoerenza di una moneta senza stato e di un’UE priva di un bilancio “para-federale” furono rinviati a data da destinarsi.

Si noti che le due crisi (quella economica e quella della Rule of Law) potrebbero essere più interrelate di quanto si tende normalmente ad ammettere: l’Ungheria fu il primo Stato europeo a dover ricorrere, nel 2008, al “salvataggio” della Troika (Commissione, BCE e FMI), avendo il Paese accumulato notevoli deficit della bilancia dei pagamenti. La massiccia dose di austerity imposta agli ungheresi per riequilibrare la posizione del Paese verso l’estero colpì assai duramente i lavoratori e screditò grandemente le classi dirigenti europeiste (composte da ex-comunisti riconvertiti e liberali) che avevano condotto l’Ungheria a quel punto, lasciando mano libera all’unico partito che aveva proposte alternative, il Fidesz di Orbán (Bugarič).

Ora si vorrebbero testare sui governi e sulle opinioni pubbliche di Polonia e Ungheria i nuovi dispositivi di condizionalità economica che il Recovery Fund e la “generosità” con esso manifestata ha reso disponibili in capo alla Commissione. “Tornate a credere nella Rule of Law – e nell’indipendenza della magistratura che ne incarnerebbe il nucleo centrale – e riavrete salva la borsa!”

V’è in tutto questo il rischio di una riedizione della fase manageriale con cui furono gestite le procedure di adesione, con tanto di check-list di indicatori di sana e robusta costituzione liberal-democratica e di valutazioni necessariamente formalistiche e/o esteriori.

Resta, cioè, il vizio di fondo di un uso strumentale dei valori che si vorrebbe vedere saldamente posti a fondamento degli ordinamenti costituzionali degli Stati membri: se l’incorporazione della Rule of Law fu la carota con cui si promise ai cittadini degli ex regimi comunisti il rapido raggiungimento degli standard economici e sociali occidentali, la sua restaurazione è oggi condizione per non perdere i fondi europei, specie quelli più generosi del c.d. Recovery Fund. Il che non rende un buon servizio all’autentica anima della Rule of Law: il porre argini all’arbitrio del potere, sia pubblico che privato (Krygier). La sola prospettazione in termini di condizionalità economica insinua il dubbio che possa trattarsi di qualcosa di barattabile, privo di valore in sé. Non sembra, del resto, che il deteriorarsi della Rule of Law in quei Paesi abbia visto il blocco degli investimenti esteri e dello stabilimento di imprese nate e cresciute negli Stati dell’Europa occidentale, anzi!

La BMW decise, nel 2020, di sbloccare il proprio progetto di realizzare un nuovo grande impianto automobilistico in Ungheria immediatamente dopo l’approvazione della legge ungherese che impone ai lavoratori dipendenti l’onere di accettare, con un contratto aziendale individuale, un lavoro sottopagato senza possibilità di cambiarlo per un periodo minimo di due anni, pena l’obbligo di versare all’azienda l’equivalente del salario complessivo pattuito per tale periodo, con l’evidente obiettivo di vincolare il lavoratore al posto di lavoro e bloccarne la mobilità (Fubini). Una legislazione, questa, che si inserisce nel precedente filone volto a estremizzare il modello tedesco delle famigerate riforme Hartz IV del 2004, inducendo gli inoccupati ad accettare lavori sottopagati mediante la drastica riduzione degli assegni di disoccupazione (Artner).

L’esempio ungherese testimonia l’ampia flessibilità dei grandi capitali europei, i quali sanno adattarsi anche agli Stati illiberali, sostenendone economicamente i governanti; le élites politiche europee, dal canto loro, si sono dimostrate assai più tempestive nel reprimere i tentativi democratici di ridistribuire ricchezza dall’alto al basso (la Grecia di Syriza) che nel reprimere i governi autoritari capaci di garantire lucrosi affari al grande capitale transnazionale (Gàbor Scheiring, p. 342).

In termini generali, è stato affermato che il fallimento delle operazioni di innesto della Rule of Law in ordinamenti caratterizzati da un passato autoritario o comunque estraneo al costituzionalismo occidentale è assai probabilmente dovuto al fatto che gli zelanti promotori della Rule of Law non hanno guardato all’intrinseca finalità di quest’ultima, bensì a finalità ulteriori (in primis, la capacità di attrarre capitale), che non possono in alcun modo illuminare sull’autentica natura della Rule of Law. Quest’ultima non è riducibile a una tecnologia istituzionale indipendente dai fini immanenti della Rule of Law e dall’apprezzamento di tali fini da parte della società in cui la si vuole innestare. Tali operazioni di innesto rischiano sempre di scambiare i valori – e in particolare la Rule of Law – per lo loro epifanie esterne (la check-list standardizzata di istituzioni e norme normalmente possedute dagli Stati modello). Tanto più è geopoliticamente necessario annettere a un blocco di Stati o a un’organizzazione internazionale questo o quello Stato, tanto più sarà alto il rischio di commettere tale errore. Le istituzioni che si presume strutturino la Rule of Law non sono mai all’altezza del compito loro affidato dai promotori dell’innesto, ossia del compito di “creare” la cultura diffusa della Rule of Law in modo che effettivamente sia la “legge” (il diritto) a orientare e limitare l’operato dei poteri sociali, politici o economici (Krygier, p. 75).

Ma come per la fiaba dell’euro “inducente” (una moneta unica senza stato che avrebbe creato ex post le precondizioni per il suo buon funzionamento, grazie alle magnifiche virtù della libera circolazione dei capitali: Guazzarotti), anche per la Rule of Law si è voluto immaginare che dalle istituzioni (prima tra tutte l’indipendenza della magistratura) sarebbe sbocciata la cultura della Rule of Law, invertendo il processo causale che ha caratterizzato la storia di altri ordinamenti.

L’approccio dell’economia politica e della sociologia dovrebbe frenare la hybris dei giuristi e dei costituzionalisti sostenitori della “democrazia militante” nell’UE: al traumatico affermarsi del modello della globalizzazione finanziaria e del capitalismo post-keynesiano l’UE si è dovuta trasformare in un meccanismo di adattamento dei suoi Stati membri. L’opzione illiberale di partiti nazional-populisti come il PiS polacco o Fidesz in Ungheria potrebbe non essere altro che la risposta adattativa al capitalismo internazionalizzato che determinate economie periferiche sono riuscite faticosamente a produrre, in un’alleanza tra capitale internazionale e nazionale che non contempla alcuna significativa partecipazione al patto sociale nazionale della classe lavoratrice (Gàbor Scheiring). L’eradicazione dell’identità della classe lavoratrice programmaticamente perseguita dal modello adattativo dell’UE ha abbandonato i lavoratori alle politiche identitarie perseguite dai governi di ciascuno Stato membro, con una tendenza verso nazionalismo e xenofobia, secondo uno scenario che accomuna tutte le società colpite dalla deindustrializzazione, a prescindere dalla loro storia e dai quarti di nobiltà liberaldemocratica posseduta dai singoli Stati. I valori conservatori e nazionalistici presenti in Polonia e Ungheria hanno senz’altro una coloritura particolare, per non essere stati toccati dall’operazione di autocritica che invece ha caratterizzato altri Stati membri, come Germania e Italia: la narrazione è quella vittimista di Stati soggiogati da Potenze straniere, che rigettano ogni responsabilità per l’Olocausto e le altre aberrazioni avvenute tra le due guerre. Ma le venature xenofobe del trumpismo e della Brexit, così come il lepenismo francese e il successo della destra post-fascista italiana, stanno lì a indicarci che non è solo questione di ingrato rinnegamento dei valori comuni europei da parte degli ultimi arrivati dall’Est.

Assai difficile affrontare questi problemi puntando solo sull’indipendenza della magistratura e, magari, di procure, revisori dei conti, e tutti gli altri soggetti coinvolti nella gestione dei fondi europei; assai difficile indirizzare, solo con questi strumenti, la risposta alle pressioni del capitale internazionale degli Stati e delle economie periferiche, senza dotarsi di politiche industriali a livello federale. Una magistratura indipendente e acculturata ai valori della Rule of Law può fare molte cose buone per un Paese, ma difficilmente può recare gli antidoti necessari per reagire alle pressioni deregolative che il grande capitale internazionale esercita su deboli Stati periferici attratti dalla scorciatoia del lavoro a basso costo che non necessita di particolari investimenti in istruzione e formazione (Gàbor Scheiring, pp. 343 e s.).

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