IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Maastricht. Dalla fine della storia all’economia di guerra

L’ordine costituzionale di Maastricht, edificato nell’orizzonte della “fine della storia” e del trionfo della globalizzazione neoliberale, appare oggi disarmato di fronte alla strisciante de-globalizzazione e all’emergere di una nuova forma di economia di guerra.

Per comprendere l’essenza dell’ordine costituzionale di Maastricht – che da poco ha stancamente celebrato il suo trent’annale – bisogna prima di ogni altra cosa comprendere l’immaginario politico, culturale ed ideologico che ispirò i padri fondatori dell’Unione economica e monetaria agli inizi degli anni Novanta. L’idea della “fine della storia” da intendere – lo ha ricordato recentemente Federico Rampini sulla “Lettura” domenicale del Corriere della sera (23 ottobre) – come superiorità assiologica del costituzionalismo occidentale e della globalizzazione neoliberale.
La fine della Guerra fredda avrebbe dischiuso – si pensava – un ordine internazionale pacificato e governato dai valori del mercato concorrenziale. Un ordine pacificato nello spazio sacro occidentale. Al di fuori di esso, invece, i conflitti civili e le guerre proseguiranno senza interruzione. Lo stesso Occidente scatenerà operazioni militari giustificate come operazioni di polizia internazionale e grazie ad un insuperabile divario tecnologico con il “nemico”. In questo scenario, l’Unione europea ben poteva rinunciare al suo hard power (politica estera e di difesa), come del resto aveva deciso di fare fin dai trattati istitutivi (salvo la parentesi poco felice della Comunità economica di difesa del 1952) e puntare tutto sul soft power: sull’idea dell’Europa come potenza civile, che si legittima all’interno e all’esterno per la tutela dei diritti umani e come potenza economica che si affida alle virtù del “dolce commercio” quale veicolo della prosperità dei popoli del vecchio continente.
Perfettamente integrata nella globalizzazione, l’Unione europea non avrebbe dovuto neppure preoccuparsi di disporre di canali autonomi e affidabili per l’approvvigionamento delle materie prime, a cominciare dal gas. Più in generale – si riteneva – che le catene globali di estrazione, produzione e trasformazione del valore fossero fungibili. Non era necessario, dunque, controllare l’intera filiera produttiva. L’importante era mantenere in territorio europeo i processi a più alto contenuto tecnologico, delocalizzando nei paesi in via di sviluppo i processi basati sull’impiego di manodopera a basso costo. Si trattava di una grande illusione, come ha mostrato la crisi pandemica e l’odierna crisi bellica che hanno riconfigurato la globalizzazione su basi geopolitiche, se non prefigurato una strisciante de-globalizzazione.

La “razionalità” dei mercati”

E non meno illusoria si è rivelata la convinzione che la moneta unica, affiancata dal governo semi-automatico delle regole (e dei numeri), l’avrebbe protetta per sempre dai “poteri selvaggi” dei mercati finanziari, specie dopo l’apertura del “vaso di Pandora” della libera circolazione dei capitali, seguita al collasso dell’ordine di Bretton Woods (1971): quell’ordine che nei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale, i fatidici “Trenta gloriosi”, aveva consentito un equilibrio virtuoso tra costruzione del mercato comune sul piano sovranazionale e difesa di robusti e inclusivi Stati sociali sul piano nazionale.
I padri fondatori dell’ordine di Maastricht erano persuasi che la creazione dell’Unione monetaria avrebbe generato “spontaneamente” l’unione fiscale, sebbene al prezzo del condizionamento radicale dei diritti sociali al super-valore della stabilità monetaria e finanziaria. Ci s’illudeva di poter capovolgere la dinamica che si era svolta negli Stati Uniti due secoli prima. Qui era stata la preliminare creazione di un’unione fiscale, con la messa in comune dei debiti degli Stati (il “momento hamiltoniano”), a favorire, in una seconda tappa, la creazione del dollaro.
La convergenza delle economie nazionali non doveva dipendere da meccanismi di solidarietà di bilancio tra gli Stati membri, ma dalla sorveglianza dei mercati che, usufruendo dell’illimitata mobilità dei capitali, potevano “punire” i governi nazionali che non si conformavano alla ricetta neoliberale incentrata su “finanze pubbliche sane” e riforme strutturali.
La globalizzazione economica degli ultimi tre decenni si è rivelata, però, il tempo di vere “guerre” finanziarie e valutarie spesso combattute virtualmente dai terminali delle borse di tutto il mondo.
Lo stato “debitore” è chiamato a trovare un equilibrio tra le sue due constituencies. Il popolo dei cittadini-lavoratori, in cambio della lealtà civica nei confronti dei propri rappresentanti istituzionali, chiede il mantenimento dei livelli acquisiti delle protezioni sociali. Mentre il popolo del mercato (composto di grandi investitori ma anche tanti piccoli risparmiatori), interessato alla solvibilità del debito, chiede l’adozione di misure di austerità e, per compensarne gli effetti naturalmente recessivi, le appropriate riforme strutturali.
La risposta dell’Unione europea alla crisi dei debiti sovrani ha assecondato assai più la constituency dei mercati finanziari. L’Unione ha implementato, fuori dalla cornice dei trattati, una politica fiscale sempre più centralizzata fondata su regole quantitative, semi-automatiche, esterne al processo democratico che hanno ulteriormente prosciugato i margini di autonomia delle politiche di bilancio nazionali. Senza che la compressione dell’autonomia di bilancio degli Stati membri sia stata compensata da un rafforzamento dell’autonomia fiscale dell’Unione europea, in quanto tale, nei confronti dei mercati finanziari.

L’Europa delle transizioni “gemelle”

Un autentico “cambio di passo” dell’Unione europea si è realizzato dopo la pandemia sanitaria ed economico-sociale, sebbene anch’essa sia stata affrontata con soluzioni emergenziali, altamente creative e al di fuori dei trattati. Le istituzioni di Bruxelles hanno “inventato” una politica fiscale para-federale, supportata anche da inedite forme d’indebitamento sovranazionale (i c.d. “eurobonds”), allo scopo di finanziare un vasto programma infrastrutturale rivolto alla duplice transizione ecologica e digitale delle economie nazionali.
Non si è trattato, tuttavia, di un vero “cambio di paradigma”. A fronte di importanti fattori di discontinuità sul piano della politica economica, che si colora di tratti “keynesiani”, la complessiva logica della governance pandemica non si distacca dal postulato della legittimazione funzionalista basata sui risultati, quale surrogato della legittimazione democratica basata sul mandato. Se si leggono attentamente i regolamenti comunitari che disciplinano NGEU, ci si avvede inoltre che la politica della condizionalità (eredità della crisi dei debiti sovrani) rimane un elemento chiave. Le erogazioni dei finanziamenti sono condizionate “a monte” dalle strategie di politica economica definite a Bruxelles (i fondi devono essere destinati agli investimenti per la transizione ecologica per il 37 % e per la digitalizzazione per il 20 %), ma anche “a valle”, poiché il pagamento delle diverse tranche degli aiuti è condizionato al rispetto delle raccomandazioni che annualmente la Commissione europea invia agli Stati membri nella cornice del Semestre europeo.
La verifica sul rispetto delle condizionalità è affidata a una misurazione numerica e quantitativa delle politiche economiche degli Stati membri. Le erogazioni dei fondi sono, infatti, legate alle “performance” dei singoli Stati membri. Ogni tranche dei trasferimenti diretti e dei prestiti agevolati sarà erogata a condizione che sia dimostrato il raggiungimento di dettagliati milestones e targets che riflettano il progresso nell’adozione delle riforme e dei piani di investimento.

Una nuova forma di economia di guerra

Proprio nel momento in cui si registravano sia pur timidi segnali di ripresa, dopo l’incubo della pandemia, è deflagrata la guerra in Ucraina: una “guerra per procura” alla quale l’Unione partecipa per “cieco” rispetto del vincolo atlantico anche contro il suo interesse strategico.
Lo scenario che si profila forse non è ancora pienamente equiparabile ad un’“economia di guerra”, se si assume un’interpretazione letterale di questa espressione come conversione dell’intero sistema economico-produttivo alle necessità prioritarie di una guerra. Ma è lecito usare questo sintagma per alludere all’insieme dei fenomeni, inflazione strutturale, recessione (e spettro della stagflazione), razionamento energetico, crollo produttivo ed occupazionale, la cui portata, complessivamente considerata, richiama alla mente la situazione di un paese in guerra.
Le immense sfide sottese all’ “economia di guerra”, a cui si aggiunge negli ultimi giorni anche l’esigenza di organizzare un’accoglienza “decorosa” dei migranti in fuga dalla fame (come si converrebbe a chi si erge a campione dei diritti umani), richiederebbero una capacità fiscale che trascende le possibilità offerte dalle fonti ordinarie dei bilanci nazionali.
Il discorso in merito a possibili forme d’indebitamento comune si è, fin ora, “incagliato” nella contrapposizione tra la proposta avanzata dagli Stati del sud Europa di incorporare nei trattati la strumentazione innovativa del programma NGEU e l’opposizione degli Stati “frugali” del nord per i quali tale programma è eccezionale e irripetibile. Nella stessa direzione muovono altre innovative proposte, quali quella di istituire un’Agenzia europea del debito che dovrebbe assorbire progressivamente i debiti nazionali, in modo tale da garantire agli Stati membri un maggiore spazio fiscale per finanziare politiche infrastrutturali di crescita o quella, ancora più radicale, della “cancellazione” dei debiti nazionali (o di parte di essi).
Il “convitato di pietra” di queste e altre proposte continua ad essere il principio posto alla base di molte vicende del costituzionalismo moderno “no taxation without representation”. È indubbio che se questo principio è assunto, come tende a fare la Germania, nel senso che un debito comune non sarebbe possibile fino a quando le istituzioni sovranazionali non abbiano un grado di legittimazione democratica paragonabile a quella dei governi nazionali, il discorso può essere tranquillamente archiviato, almeno nel prossimo futuro.
L’interrogativo vero da porsi è se possa esserci un qualche elemento identitario, diverso da quelli tradizionali (popolo, Stato, nazione), in grado di legittimare agli occhi dei cittadini europei gli effetti redistributivi tra i bilanci nazionali sottesi alla messa in comune del debito. Sapendo che un’identità collettiva non presuppone necessariamente la comunanza di una lingua, di una religione, di costumi ma può discendere anche da ragioni ideali, culturali, economico-sociali.

Identità e autonomia dell’Europa

Le diverse filosofie dell’integrazione sovranazionale (federalismo, funzionalismo, costituzionalismo) hanno nel corso del tempo ricercato una pluralità di fattori identitari: l’Europa del mercato comune (unico, interno); l’Europa della moneta unica; l’Europa dei diritti fondamentali;; da ultimo, l’Europa della transizione ecologica e digitale cui si affianca oggi in forme ambigue l’Europa bellica.
Si sono tutti rilevati fattori identitari incapaci di suscitare un autentico sentimento di appartenenza collettiva tra i popoli europei, come mostrano i continui ripiegamenti nazionalistici culminati con la brexit: la prima (e forse non ultima) “secessione” dall’Unione.
Una rinnovata e forte identità europea non si riconquista né con l’idea (abbozzata dal Presidente francese Macron) di far confluire l’Unione entro una più vasta e ancor meno coesa “Comunità politica europea”, che agli effetti pratici si riduce a un mercato comune allargato; né con l’idea, apparentemente più realista e pragmatica, di scommettere, ancora una volta, sulle virtù dell’integrazione asimmetrica, per ritrovare le proprie ragioni identitarie in un preteso nucleo duro dell’Unione europea.
A partire da un diverso orizzonte ideale, si dovrebbe ricordare che siamo legati da un modello europeo di civiltà, con i suoi trionfi e le sue disfatte storiche, un modello che s’identifica nel mondo per il tentativo di conciliare le ragioni del mercato come motore della prosperità economica e dell’innovazione tecnologica (la modernizzazione) e le ragioni altrettanto forti della giustizia sociale e dell’inclusione attraverso l’intervento pubblico sull’economia (la civilizzazione).
Per ridare forza normativa a questo equilibrio occorre preservare l’autonomia dell’Unione, in quanto tale, dall’operare “selvaggio” dei mercati finanziari. La dotazione di un debito comune, allo scopo di finanziare in uno spirito di autentica solidarietà i grandi investimenti infrastrutturali nei beni pubblici europei, è la chiave per superare l’atteggiamento di persistente subalternità al mercato. La messa in comune dei debiti statali potrebbe contribuire al completamento dell’Unione monetaria, porre le basi per una compiuta unione fiscale e prefigurare, infine, l’approdo ultimo verso un’’Europa di natura costituzionale e federale.
Sciaguratamente, l’orizzonte ideale delle attuali classi dirigenti europee appare assai più arido. È un orizzonte dominato dagli effetti economici a catena della guerra russo-ucraina alla quale l’Unione prende parte per un cieco fideismo atlantista, rinunciando ad elaborare e perseguire un proprio autonomo interesse geopolitico e geo-economico.
La guerra “per procura” non sta cementando una nuova e più forte identità europea, come auspicavano i sacerdoti dell’atlantismo ma, al contrario, ha terremotato persino la solidarietà energetica tra gli Stati membri. Quella solidarietà, la messa in comune della produzione del carbone e dell’acciaio (la CECA) e l’uso cooperativo della fonte atomica (l’EURATOM), che è stata la “prima pietra” del processo d’integrazione sovranazionale e la cui assenza oggi rischia di precipitare il progetto europeo in una vera “crisi esistenziale”.

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