IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Morire in vita

In guerra si tratta di uccidere, le parole più oneste mai dette sul ‘tema’. C’è qualcosa di più orribile? Sì, morire di fame. A causa della guerra, ma non solo. La fame attanagliava già prima tanti Paesi nella fascia nordafricana e in Asia.

Le parole di Canetti, “in guerra si tratta di uccidere”, ha scritto Luigi Alfieri, sono le più oneste e risolutive mai dette sull’“argomento”. Una prosa essenziale, senza fronzoli e senza sconti, che Fabrizio De André ha reso in versi e musica in quell’insuperato componimento letterario che è la Guerra di Piero, scritta nel 1964 e diventata un inno antimilitarista, la ballata dell'”antieroe” cantata dagli obiettori di coscienza. La guerra vista da un soldato che non perde la sua umanità; che non riesce a sparare a un soldato con “la divisa di un altro colore” per il quale prova compassione e pietà. Un gesto, una “premura”, che a Piero costa la vita. L’altro non gli “ricambia la cortesia” e gli spara, uccidendolo.

Morte in vita

C’è qualcosa di più terribile della morte di Piero. È morire di fame, morire in vita a causa della guerra, ma non solo. Qualcuno un giorno, dice quasi di sfuggita il cantautore genovese, si ricorderà della morte di Piero sopravvenuta in un campo di battaglia quando non c’è tempo nemmeno per chiedere perdono per i propri peccati. E gli darà “in cambio una croce”, mentre “mille papaveri rossi” gli “faranno veglia dall’ombra dei fossi”.
Per chi muore in vita, di fame, nemmeno questo postumo atto di pietas, sebbene fame e guerra siano un binomio ricorrente in tante parti del mondo. Nessuno si ricorda di loro. Di coloro che hanno l’ardire di lamentarsi per i morsi della fame. Il cibo, ma oggi anche la diversità alimentare e l’agro biodiversità, è da tempo per l’ordinamento internazionale un diritto umano, ma chi muore per fame è, di fatto, anche negli opulenti paesi occidentali, un infame; “qualcuno che si è reso indegno della pubblica stima”, è scritto nei vocabolari della lingua. Perché – diceva il medico brasiliano Josué de Castro, tra i fondatori della Fao e suo direttore dal 1951 al 1955 – “fame significa esclusione. Esclusione dalla terra, dal lavoro, dalla paga, dal reddito, dalla vita e dalla cittadinanza. Se una persona arriva al punto di non aver nulla da mangiare, è perché tutto il resto le è stato negato. È una forma moderna di esilio. Di morte durante la vita”.

Guerra (in)fame all’ennesima potenza

L’infamia ancora più grande la stanno commettendo oggi i contendenti dell’attuale guerra Russia Ucraina o Nato-Russia o Russia Nato (come preferite) Tutti coloro che vivono lontani dai campi di grano cantati da Fabrizio De André. Tutti coloro che dai loro salotti fanno la dieta e brandiscono “l’argomento” della fame – la crisi alimentare globale  – come l’ennesimo ‘argomento’ di propaganda. La più insopportabile e insostenibile di tutte le propagande, la propaganda di guerra.
Della morte per fame, delle sue cause remote e prossime, non sanno nulla, non vogliono sapere nulla. Chiamano santi e eroi tutti coloro che danno da mangiare ai poveri, ai profughi, agli sfollati ma appena questi santi ed eroi osano chiedere perché quasi due terzi della popolazione mondiale non ha cibo sufficiente non esitano, come ai ‘bei tempi’ del secolo breve, a insinuare il dubbio che questi santi ed eroi siano dei redivivi e pericolosi comunisti (se non putinisti).

Una modesta proposta

Avanzo una piccola, modesta, proposta per restituire la dignità a tutti coloro che sono morti e muoiono in vita per fame. Non la rivolgo al “vento che ti sputa in faccia la neve”, ma alla più grande organizzazione umanitaria globale affinché la raccolga e la faccia propria. Chiedo all’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare (il World Food Programme) di farsi promotrice in ogni città del mondo della costruzione di un luogo, di un monumento, dedicato alla memoria dell’affamato ignoto. Con questo atto, dimostrerebbe quantomeno di voler cominciare a meritare quel Premio Nobel per la pace che le è stato “inaspettatamente” assegnato nel 2020.
Onorare l’affamato ignoto è un atto simbolico, non ancora quel cambio di passo che è necessario affinché si smetta in troppe parti del pianeta di morire in vita. Nella motivazione del Nobel si legge che esso è stato assegnato al World Food Programme “per i suoi sforzi nel combattere la fame, per i suoi contributi nel migliorare le condizioni della pace in aree di conflitto e per la sua azione nel prevenire l’uso della fame come arma per promuovere guerre e conflitti”.
Questo programma è ancora in larghissima misura da attuare ed esige che tutte le agenzie dell’Onu impegnate su questo fronte si interroghino autocriticamente sui limiti di un intervento troppo spesso permeato da una filosofia da istituzione burocraticamente e tecnocraticamente dedita ad assicurare la sopravvivenza della vita biologica, piuttosto che una vita dignitosa. Che poi è l’altra faccia della comoda accettazione di chi non vuol vedere i privilegi alle origini di guerre e fame, i guasti prodotti dal modello neo-liberale del “libero commercio” e dalle prassi coercitive delle multinazionali dell’agroalimentare che con i semi brevettati contribuiscono al degrado ambientale, alla desertificazione, ai disastri naturali. Quella geopolitica e geo economia dell’ingiustizia che determina chi può comprare cibo in eccesso e chi non può comprare nemmeno quello minimo per sfamarsi e va incontro alle più diverse malattie.

Il paradigma sviluppista

Non basta, come ha fatto in questi giorni il World Food Programme, chiedere di “limitare la crisi alimentare globale”. Non bastano misure emergenziali (la riapertura dei porti nell’area di Odessa, nell’Ucraina meridionale), servono da subito misure strutturali. È necessario un diverso paradigma, un radicale abbandono della concezione quantitativa dello sviluppo (in primis nel campo agro-alimentare), nell’illusoria convinzione che aumentare la produzione di cibo sia una condizione sufficiente per ottenere la sicurezza alimentare, per evitare carestie e crisi globali. È il tema, non più rinviabile, di una sovranità alimentare e di una sovranità sulla biodiversità già codificate in alcune legislazioni “ecologiche” (in particolare in quelle dei Paesi andini). Una sovranità correttamente intesa come autonomia e controllo democratico-comunitario delle materie prime della terra e delle risorse agro-alimentari.

Una sovranità alimentare correttamente intesa

Fuori da ogni tentazione protezionista, autarchica, sovranista, ma come poter delle persone, delle comunità e degli Stati di definire e di determinare il proprio sistema alimentare e agro culturale e di attuare politiche che favoriscano la propria produzione agricola sia nei mercati internazionali che locali.
La globalizzazione è in via di trasformazione, lo ha detto persino Pascal Lamy, ex commissario Ue al commercio. L’Unione può uscirne indebolita o rafforzata. Ne uscirà rafforzata se saprà essere meno sviluppista, più giusta al suo interno e al suo esterno. Il che significa cominciare da subito a mettere fine alla guerra in Ucraina sui tavoli della diplomazia. Da protagonista, non da comprimaria che lascia agli Stati Uniti il compito di imporre una narrazione che affianca Mosca a Pechino secondo una visione conflittuale del tipo “l’occidente contro gli altri”. Lungo questa strada muscolare, difficilmente il diritto ad una vita dignitosa fuoriuscirà dai confini retorici di un imperativo morale per diventare un vero e cogente diritto umano fondamentale. Il modo in cui le risorse sono prodotte e distribuite, più che la loro scarsità, è la via maestra per combattere l’infame sofferenza della fame e le infami guerre che l’alimentano.

“Napoli milionaria”

 Lo sapeva bene l’Unità del 23 giugno del 1977 quando pubblicava in prima pagina un lungo articolo in cui informava i lettori che la mitica «Napoli milionaria» aveva inaugurato il giorno precedente il Festival di Spoleto. “Napoli milionaria nell’Italia di oggi”, si evidenziava nel sottotitolo. Si trattava, infatti, dell’opera dì Eduardo che aveva iniziato, agli albori del 1945, la sua grande stagione e nel 1977 messa liberamente in musica da Nino Rota. Nella versione spoletina cui Eduardo era giunto per successive mediazioni – a cominciare dall’adattamento cinematografico (1950) che genialmente inseriva il tema originale nell’incubo di altre guerre dell’aleggiante minaccia atomica – veniva tolto ogni velo alla violenza disgregatrice, da cui pare posseduta l’intera società. Il dramma di casa Jovene si proietta e si allarga dichiaratamente nel dramma collettivo di una città e di un paese. Lo stesso racconto, stupendo, che nella Napoli milionaria del1945 Gennaro faceva delle traversie sue e dei suoi compagni, si raggruppa – sottolinea l’articolista dell’Unità – in una sintesi aspra che lascia la gola secca: “Fuoco, ingiustizia e polvere, polvere e sangue… La guerra non è finita, e non è finito niente!” Un fosco quadro si sovrappone, insomma, nella Napoli milionaria del 1977, a quello antico, con la coscienza severa del tempo trascorso. La notte non è passata e non si sa quando passerà. Questa è una guerra infame, non finisce, dice Gennaro. La forza di Eduardo, il suo grande coraggio morale, annota Giorgio Amendola nella nota dettata per il programma di Spoleto, è di vedere la realtà così com’è, non come si vorrebbe che fosse. Non nascondendo la più non solo teorica, per tanti popoli del mondo, violenza quotidiana di una fame accresciuta all’ennesima potenza da questa guerra. Una guerra infame, persino più infame di tante altre.

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