Questo numero è plurale e dialettico. Autenticamente, non per formale ed ipocrita concessione ai dettami del politicamente corretto. Ci sono opinioni diverse tra noi sulla questione israelo-palestinese, pur condividendo il comune diritto di esistere di Israele e della Palestina. Due “sentimenti” accomunano i contributi di apertura di Antonio Cantaro, Donato Caporalini e Luigi Alfieri. Un no deontologico: da sostenitori della pace, concordiamo sulla inderogabile necessità di porre fine alla «demonizzazione» del nemico, alla «demonizzazione» al posto del giudizio politico. Un sì metodologico: non abbassare la guardia di fronte alle parole «malate» in cui è avviluppata, non da oggi, la discussione sul conflitto israelo-palestinese. Le parole malate hanno, freudianamente, bisogno di cure come le persone. In tempi bui che confondono il giudizio, la vita e la morte – dice il proverbio – sono affidate alla lingua: si leggano le struggenti Lezioni d’autore di Heba Abu Nada e Paul Celan.
Non tutte le guerre sono eguali. Sostiene Carlo Galli che la guerra non è più la prosecuzione della politica con altri mezzi, ma il suo esaurimento. Basti osservare il fronte russo-ucraino in cui non si scorge più alcun obiettivo politico realistico. Il tabù del nucleare (tattico) è stato definitivamente infranto, da entrambe le parti. L’Ucraina, tramite le armi fornite dalla NATO, ha “osato” attaccare la rete russa dei radar che dovrebbero prevenire un attacco di tipo atomico. Nel mentre i 7 “Grandi” ribadiscono l’imperativo categorico della sconfitta russa e alludono al suo smembramento, sorvolando sulle 6000 testate atomiche in possesso della Russia. D’altro canto, la Russia comincia esercitazioni nucleari a pochi kilometri dal confine con l’Ucraina. E, notizia dell’ultima ora, muove un sommergibile con capacità nucleare in direzione dell’Havana, Cuba…
L’orologio dell’Armageddon segna oggi solo 90 miseri secondi alla Mezzanotte. E pensare che, quando Kennedy e Khrushchev nel 1963 trovarono una mediazione politica alla crisi dei missili cubani, l’orologio segnava 12 minuti all’Apocalisse. Finita la guerra fredda, l’orologio segnava 17 minuti. Da quel momento in poi la Mezzanotte si è costantemente e inesorabilmente riavvicinata. Gli USA si sentivano i “vincitori” unici della guerra fredda. Si sono proclamati l’unica superpotenza nel mondo, quella che unilateralmente poteva scrivere ed imporre le regole dell’ordine internazionale. Dal 1992 in poi – come ricostruisce Salvatore Minolfi nel suo contributo – gli Stati Uniti hanno scatenato guerre globali ed espanso capillarmente la loro rete di basi militari (ottocento e passa), ignorando sdegnosamente ogni “linea rossa” posta da altre Nazioni.
È quello che anche Vincenzo Comito denuncia come un puro dominio militare a cui corrisponde una declinante egemonia, oltre che l’assenza di un qualsivoglia disegno politico per integrare gli “sconfitti” della guerra fredda. Nell’insistere “ciecamente” per l’ingresso dell’Ucraina nella NATO, Biden ha puntato ad una umiliante disfatta per la Russia, ignorando l’ipotesi realistica, prefigurata anche da Papa Francesco, della “neutralità dell’Ucraina, magari come paese candidato ad entrare nell’Unione europea. Nel difendere il Governo di Netanyahu nella sua politica “criminale” ai danni della popolazione di Gaza, che incontra l’ostilità di una parte crescente degli israeliani, gli Usa hanno riattivato una forsennata corsa alle armi nel Medioriente, avvicinando il confronto diretto, per ora solo “virtuale”, tra Israele e Iran. E ancora nel contraddire il principio di una sola Cina, inducono quest’ultima a progettare nel prossimo futuro l’invasione di Taiwan.
Il lento declino dell’unipolarismo a stelle e strisce reca conseguenze gravose anche per il continente africano, il continente del futuro come lo abbiamo definito qualche tempo fa. Un continente segnato dal paradosso di avere la popolazione più giovane al mondo (età media 19 anni) e, allo stesso tempo, le classi dirigenti più vecchie. Con l’eccezione del Sud Africa alle urne a trent’anni dalle prime elezioni democratiche che posero fine all’Apartheid, la cintura del Sahel dall’Atlantico fino al mar Rosso, dalla Guinea al Sudan è intessuta di regimi golpisti. Guerre che non finiscono mai, ma nel migliore dei casi degradano in violenza diffusa a bassa intensità, sgretolando definitivamente le già fragili istituzioni degli Stati nati dalla decolonizzazione: lo racconta ad esempio il Diario di viaggio dal Niger di Padre Mauro Armanino.
L’unica speranza di salvezza, prima dell’Apocalisse – sostiene nel suo contributo Giorgio Grimaldi potrebbe essere un “diritto internazionale” rifondato su basi maggiormente democratiche, condivise e ispirate all’ideale kantiano della “Pace perpetua”. L’attuale diritto internazionale post- Seconda guerra mondiale, però, non gode di buona salute a cominciare dall’ONU ma non solo. Persino, le risoluzioni “vincolanti” del Consiglio di sicurezza sono considerate spesso “carta straccia”. Le sentenze della Corte internazionale di Giustizia sono null’altro che “flatus vocis”, quando ordinano a Israele di porre fine al massacro a Gaza e ad Hamas di rilasciare gli ostaggi. E, d’altro canto, la Corte penale internazionale, salutata come “alfiere” della libertà quando ha incriminato Putin per le stragi in Ucraina, è oggi minacciata dal Congresso USA, nel momento in cui chiede l’incriminazione di Netanyahu e dei leader di Hamas.
In tutto questo – come abbiamo più volte denunciato – l’Europa è silente e complice, priva di qualsiasi autonomia “strategica”. L’Europa – come aveva profeticamente avvertito Piero Calamandrei – avendo rinunciato a porsi come soggetto di mediazione politica tra i due “imperi”, oggi declinanti, è divenuta la trincea di prima linea di eserciti che stanno in riserva al di là dell’Atlantico. E, da ultimo, le recentissime elezioni europee ci offrono un quadro desolante e contradditorio. A chiedere un ripensamento rispetto all’escalation della guerra contro la Russia sono forse politiche di destra estrema che si giovano nella loro ascesa di un clima di apatia e passivizzazione. Quell’infantilizzazione delle masse che altro non è che il riflesso della “volgarizzazione” delle classi dirigenti convertite al verbo del tecno-capitalismo.
A chi non vuole rassegnarsi a questo destino cinico, a guardare passivamente le lancette dell’orologio avvicinarsi sempre più alla fatidica Mezzanotte, è dedicato questo “sofferto” numero di fuoricollana.
A voi come sempre il giudizio finale sul nostro sforzo.