Chi scrive ha in passato – sono trascorsi ormai molti anni -, lavorato in tre grandi realtà imprenditoriali nazionali, l’Iri, l’Olivetti, la Lega delle Cooperative; si trattava di tre piste possibili in direzione di uno sviluppo più positivo dell’economia italiana. La triste situazione economica attuale del paese sottolinea come i tre gruppi siano non a caso tutti falliti nel tempo; certo, la Lega delle Cooperative è ancora in qualche modo in piedi e contiene al suo interno molte valide realtà, ma quello che è scomparso è il progetto ideale su cui essa si fondava inizialmente.
Il gruppo Iri rappresentava una via importante per promuovere il ruolo positivo dello Stato imprenditore, che, con le sue imprese, contribuiva, tra l’altro, a spingere in avanti tutta l’economia del paese. L’Olivetti ci ricorda invece, dal canto suo, da una parte il forte accento che è indispensabile porre sugli investimenti nelle nuove tecnologie, dall’altra la necessità di un rapporto organico con i dipendenti, oltre che con l’ambiente sociale e politico in cui la stessa impresa è inserita; si può sottolineare tra l’altro, nella sostanza, come nella visione di Adriano l’industria debba essere guidata dalla politica. La Lega delle cooperative mostrava infine l’opportunità di un coinvolgimento organico dei lavoratori nelle decisioni di impresa, avendo proprio come missione sostanziale quella di far entrare le classi subalterne in una posizione da protagoniste nel mondo dell’economia.
L’Olivetti nella mente di Adriano
La società di Ivrea è giustamente ricordata ancora oggi come un caso molto importante e molto positivo di un’organizzazione imprenditoriale all’avanguardia su molti fronti, rara avis nel panorama nazionale. Ancora oggi si pubblicano importanti studi e ricerche sul tema.
Ma in tutto questo, c’è apparentemente anche un rischio. Adriano Olivetti, il maggior protagonista delle vicende del gruppo, è stato progressivamente trasformato in un santino, mentre ai suoi tempi si doveva scontrare con la forte ostilità del mondo imprenditoriale e politico. I suoi meriti sono stati grandi e la sua figura spicca come quella di un gigante nel panorama del nostro paese, in particolare per la sua visione del ruolo dell’impresa, mentre aveva portato la sua ad essere una protagonista assoluta, a livello mondiale, nel suo settore di attività.
Ma bisogna sottolineare anche i limiti della sua azione, il che non significa certo sminuire la sua opera. Intanto va ricordato che alla sua morte egli non aveva preparato al compito nessun degno erede in grado di gestire la continuità. Certo l’azienda aveva al suo interno degli ottimi manager, specialisti nelle loro attività specifiche, e anche apparentemente persone per la gran parte degne di stima, ma nessuno che avesse una visione complessiva adeguata del business. I responsabili che si sono succeduti dopo di lui nel tempo non hanno potuto evitare il progressivo declino dell’azienda. D’altro canto, un altro limite della sua opera è stato costituito dal suo disprezzo per la finanza; una grande impresa non si può permettere purtroppo tale atteggiamento, anche se si possono comprendere le motivazioni politiche di esso. La finanza, trascurata, si vendica, prima o poi.
Le tecnologie all’avanguardia e la concorrenza USA
Una dimensione imprescindibile della vicenda Olivetti riguarda, come abbiamo già accennato, la questione delle tecnologie. Le fortune dell’azienda furono legate al pieno dominio di quelle meccaniche, in alcuni segmenti dei quali essa aveva un sostanziale monopolio a livello mondiale. Ma, ad un certo punto, arriva l’elettronica, novità che avrà effetti devastanti sul settore.
La società non si farà certo trovare impreparata sul soggetto, anche se la prevalente cultura meccanica della gran parte dei suoi manager relegò i nuovi progetti in un ambito anche geograficamente separato. Si producono i calcolatori non lontano da Milano.
La qualità dei nuovi prodotti sarà all’avanguardia, tanto che quando nelle attività subentreranno gli americani essi sfrutteranno per diversi anni ancora i progetti dell’Olivetti. Intanto in Francia nasceva nel settore il plan calcul con la società Bull, in Germania avanzavano i progetti della Nixdorf, in Gran Bretagna quelli della ICL. Ma falliranno tutti, prima o poi, lasciando il campo libero al monopolio statunitense.
All’origine di tale débacle europea c’era certamente il fatto che le singole unità imprenditoriali dei paesi del continente erano di dimensioni troppo contenute; esse operavano prevalentemente nei loro mercati nazionali, mentre quelle presenti in Usa potevano contare su di uno spazio molto più grande e più sofisticato, nonché su di una capacità di penetrazione all’estero molto più forte. Poi, almeno nel caso italiano, c’è da rimarcare anche il mancato sostegno pubblico; quando l’azienda si rivolge a Roma per un coinvolgimento nel capitale, i politici rispondono picche, mentre non mancano di correre invece al soccorso di aziende come Motta e Alemagna.
Quante similitudini si possono ricontrare con il presente! Il tema delle tecnologie e delle scelte dell’Europa si ripropone oggi in maniera ancora più drammatico di allora. Nel campo delle tecnologie avanzate assistiamo in effetti ad una situazione di sostanziale duopolio Cina-Usa, mentre l’UE arranca molto indietro. Per molti anni è prevalsa a Bruxelles la repulsione per qualsiasi decisione che sentisse anche da lontano di politica industriale. Tale atteggiamento aveva anche contagiato i singoli paesi dell’Unione. Negli ultimi tempi certo nella città belga hanno cercato di cambiare e di avviare programmi in diverse tecnologie di punta; ma sembra alla fine troppo poco (gli stanziamenti in ricerca e investimenti di Cina e Stati Uniti sono enormemente più rilevanti) e forse troppo tardi.
Il rispetto della dignità del lavoratore
L’altro grande tema dell’impresa di Ivrea riguarda la gestione del personale. Essa era al centro delle attenzioni dell’azienda; anche questa preoccupazione era insolita nel panorama di allora, se pensiamo ad esempio ai reparti confino della Fiat (un’impresa caserma) e alla continua insistenza della Confindustria sui troppo elevati costi del lavoro nel nostro paese! C’erano allora all’Olivetti asili, scuole, colonie, biblioteche, programmi cinematografici e teatrali per i dipendenti. Gli stipendi erano per lo meno dignitosi e certamente superiori a quelli della Fiat. Se qualcuno subiva un infortunio o aveva problemi mentali, l’azienda si preoccupava di assisterlo e di trovare per lui una collocazione dignitosa in azienda.
Più in generale, nel panorama delle grandi organizzazioni nazionali, economiche e non, amministrative, burocratiche, pubbliche e private, l’Olivetti era quasi unica nel trattare i dipendenti come esseri umani degni sempre di rispetto.
Certo l’azienda si poteva permettere tale generosità; essa era resa possibile anche dal fatto che i suoi prodotti di punta avevano margini molto elevati. Così la sua calcolatrice stampante quattro operazioni aveva ad un certo punto un costo industriale di 30.000 lire a si vendeva invece a 350.000 lire (cito le cifre a memoria). Va comunque sottolineato che mentre la Olivetti spendeva positivamente i suoi larghi profitti, altri gruppi nazionali, grandi e piccini, anche geograficamente vicini ad Ivrea, li portavano invece in Svizzera o anche più lontano.
Era poi molto importante il suo sforzo di far incontrare la cultura con l’impresa. E’ noto come molti intellettuali, oltre che Paolo Volponi, abbiano lavorato per l’azienda, da Franco Fortini, a Luciano Gallino, a Renzo Zorzi, a Tiziano Terzani, a Geno Pampaloni, a Giorgio Soavi, a Giovanni Giudici, a Leonardo Sinisgalli, nonché dei designer d’avanguardia. Purtroppo la lezione dell’Olivetti non sarà accettata da molti, se guardiamo al fatto che oggi la sottocultura domina indisturbata.
I nuovi assunti a livello di quadri e dirigenti venivano selezionati non tanto e con solo sulla base delle loro competenze tecniche, ma soprattutto in relazione alle loro qualità umane, culturali, e di sensibilità sociale. Così l’azienda era piena di filosofi. Essi venivano poi obbligati a lavorare per i primi mesi dall’arrivo in azienda nei reparti di fabbrica, per conoscere da vicino la situazione del lavoro operaio.
Volponi entra alla Olivetti
Paolo Volponi entrò alla Olivetti nel 1956 e, dopo in particolare un’attività nei servizi sociali dell’azienda, fu nominato direttore del personale della società, incarico che ricoprì dal 1966 al 1971. E, come è noto, l’impresa e la sue attività furono al centro dalla sua attività di scrittore. Questo in particolare ne Memoriale, Le mosche del capitale, La macchina mondiale, Corporale, mentre il soggiorno ad Urbino gli ispirerà tra l’altro Il sipario ducale.
Ma la sua visione del mondo dell’impresa non era del tutto positiva; in particolare e nella sostanza egli metteva l’accento soprattutto sull’alienazione dell’uomo nella società industriale. Così si può registrare una differenza di fondo tra la sua visione e quella di Adriano: quest’ultimo credeva nella possibilità di conciliare l’umano, l’etica, con un capitalismo sia pure riformato, mentre Volponi pensava che questo non fosse possibile.
In particolare poi per un comunista come lui era piuttosto difficile occuparsi delle attività di gestione delle persone che si scontravano a volte con le esigenze produttive e di mercato dell’azienda e questo traspariva anche a volte sulla sua espressione del volto spesso tormentata. Dopo la morte di Adriano l’area del personale era rimasta quella più vicina alle esigenze culturali e sociali del fondatore, ma essa si dovette trovare sempre più a disagio rispetto all’evoluzione della realtà economica dell’impresa, in Italia e all’estero.
Non è del tutto chiaro perché lo scrittore andò poi via dalla Olivetti per sbarcare nell’orbita della Fiat. Le possibili motivazioni sono numerose. La stanchezza per un’azienda in cui aveva passato così tanto tempo e in cui si sussurra che gli era stato promesso il ruolo di amministratore delegato, poi assegnato ad un’altra persona? Una crisi più generale di fronte alla realtà della gestione di un’impresa capitalistica (lo scrittore accusa in qualche modo i nuovi dirigenti, tra l’altro, di non tenere fede al progetto di Adriano e di dissiparne progressivamente l’eredità)? Il disagio crescente per un orizzonte chiuso come quello di Ivrea? In particolare la volontà di lasciare un ruolo molto operativo e difficile come quello che aveva all’Olivetti, come abbiamo sopra accennato e sbarcare in un’attività di studio e di ricerca più consona ai suoi interessi, come quella offerta dalla fondazione Agnelli? Il fascino dell’Avvocato che intanto, come sembrerebbero indicare gli attuali processi della famiglia, accumulava forse fondi neri nei vari paradisi fiscali? Volontà di misurarsi con una sfida nuova e più grande e in particolare aiutare un’azienda –caserma ad accettare modalità di lavoro più adeguate ai tempi e alle esigenze del paese? Forse giocarono diverse tra tali ragioni.
La formazione dei quadri dirigenti
Nell’ambito dei servizi del personale un posto importante era ricoperto dalle attività di formazione e addestramento. Ai tempi di Volponi fu avviata e poi consolidata, tra l’altro, una importante iniziativa di formazione dei quadri tecnici che pensiamo non abbia avuto uguali nelle grandi imprese italiane. Ogni anno veniva varato un programma di studio per gli addetti alle linee produttive (capi reparto, capi squadra, personale degli staff tecnici) che mirava, attraverso un corso biennale, a farne dei manager di livello più elevato. La scuola era di alto livello e prevedeva anche il coinvolgimento di docenti universitari italiani e di altri paesi.
Le attività di formazione nelle grandi imprese del nostro paese, come più in generale tutte le attività con un orizzonte di lungo termine (la ricerca, la pianificazione strategica e così via) non hanno quasi mai avuto l’attenzione che meritavano in imprese, come quelle nazionali, volte troppo spesso ad un orizzonte strettamente di breve periodo. Naturalmente con qualche eccezione, quali, oltre alla Olivetti, quella del gruppo Iri con la sua Ifap. Per mostrare comunque un’immagine positiva magari diverse grandi imprese attribuivano alle attività di formazione degli edifici importanti in posti di particolare bellezza, ma il contenuto effettivo dei programmi che vi si svolgevano era piuttosto limitato, dalla copiatura delle ultime novità tecniche americane alla esaltazione delle magnifiche sorti dell’azienda.