Appare ormai diffusa la sensazione che l’economia europea nel suo complesso, al di là dei danni recenti prodotti dal covid e dalla guerra in Ucraina, faccia molta difficoltà ad andare avanti e in particolare riesca sempre meno a reggere l’urto concorrenziale dei due grandi blocchi rappresentati da Stati Uniti e Cina, nonché da quello di alcuni paesi asiatici. E questo non soltanto per quanto riguarda la crescita complessiva media, ma anche per la qualità stessa di tale crescita.
Il settore delle alte tecnologie
Nel settore delle alte tecnologie, che poi sono le più rilevanti per lo sviluppo economico futuro complessivo di un’area, le più importanti imprese europee, dalla tedesca Sap all’olandese ASML, si collocano molto in basso nella classifica mondiale, in ogni caso dopo diverse decine di imprese Usa e cinesi e ancora dopo qualche impresa coreana e giapponese. Tra l’altro per molti decenni a Bruxelles l’ideologia neoliberista (anche nella sua versione ordoliberista tedesca) ha imperversato senza limiti e a sentire da quelle parti anche soltanto pronunciare l’espressione “politica industriale” i funzionari della UE mettevano subito mano alla pistola. Persino un paese storicamente interventista come la Francia si è piegato a suo tempo al diktat ideologico della UE.
Ma ad un certo punto qualcuno, tra la Germania e la Francia, si è svegliato dal lungo sonno – mentre naturalmente il nostro paese continuava a dormire – è si è accorto che in quasi tutti i settori avanzati dominavano ormai americani e cinesi, mentre l’Europa era diventata, almeno per una gran parte, un mercato importante per gli sbocchi dei prodotti delle imprese dei due paesi e poco più.
Rappresentativo di questa situazione è ad esempio il quadro che si presenta oggi nel settore dell’Intelligenza Artificiale, forse quello più importante di tutti; vi si registra una lotta a coltello per il predominio mondiale tra Cina e Stati Uniti, con lo stanziamento dalle due parti di centinaia di miliardi di dollari per gli investimenti, mentre i paesi dell’Unione Europea giocano quasi soltanto il ruolo di portatori d’acqua a favore dei secondi. Per altro verso, si può ancora ricordare come i grandi operatori dell’Information Technology statunitensi, da Facebook ad Amazon, ad Apple, a Google, dominino completamente la scena europea, senza che all’orizzonte si profili una qualche alternativa continentale di minimo peso.
Ecco che allora a Bruxelles, di fronte a tali constatazioni, si è deciso qualche anno fa di varare dei progetti comunitari di sviluppo in alcuni dei settori avanzati ritenuti più importanti, tra i quali quelli per la robotica, per l’Intelligenza Artificiale, per i chip, per le batterie, per il cloud computing.
Mentre va segnalata in positivo la buona volontà di fare finalmente qualcosa a livello di UE, si può comunque affermare che si rischia quasi certamente il “troppo poco, troppo tardi”. Probabilmente è ormai, in effetti, tardi per sperare di raggiungere in relativamente pochi anni i due campioni del settore, anche perché comunque le risorse finanziarie, organizzative ed umane messe in campo appaiono relativamente modeste rispetto agli obbiettivi dichiarati. Ma di più l’UE non sembra poter fare, tra carenza di risorse, gelosie nazionali, pressioni statunitensi, mancanza di grandi spinte di molte imprese ad andare veramente avanti insieme, nonché infine debolezza dei gruppi dirigenti.
Intanto, per quanto riguarda in particolare il settore digitale, da qualche parte si va predicando una “terza via” europea tra il modello Usa, ultra libertario, fondato sullo sfruttamento illimitato e privato dei dati personali e quello cinese tecnologico-autoritario, puntando invece la UE su di una strada fondata sul rispetto delle libertà fondamentali e del primato dell’etica (si veda in proposito un’intervista a Julien Nocetti, apparsa su Le Monde del 29 aprile 2022, a pag. 20). Sono stati varati a questo proposito a Bruxelles un regolamento sulla protezione dei dati e poi, più di recente, il Digital Service Act; si tratta peraltro, alla fine, di normative relativamente deboli rispetto agli obiettivi dichiarati. Ma si può comunque fondare la politica tecnologica europea sui soli valori? Intanto, l’amico americano critica le ambizioni di Bruxelles in proposito e l’UE è accusata dagli alleati di al di là dell’Atlantico di essere protezionista, di impedire l’innovazione e persino di fare il gioco di Pechino (si veda in proposito sempre l’intervista a Julien Nocetti già citata).
Il caso dei chip
Vediamo soltanto un caso tra quelli citati.
Tra i progetti varati sino ad oggi a Bruxelles, qualche mese fa è stato annunciato quello di un “European Chip Act”, con il quale rilanciare la ricerca e la produzione di semiconduttori, con l’obiettivo di raddoppiare la quota comunitaria rispetto a quella totale mondiale, passando entro il 2030 dal 9% attuale al 20% (un obiettivo sostanzialmente analogo percentualmente si sono posti gli Stati Uniti). Da ricordare incidentalmente che UE e Usa qualche decennio fa dominavano largamente il campo, ma che poi il bastone di comando, per l’insipienza occidentale e l’abilità degli altri, è passato in Asia, in particolare a Taiwan e in Corea del Sud.
A Bruxelles si pensa di mobilitare per il progetto 43 miliardi di euro, di cui circa 15 miliardi di fondi freschi e per il resto utilizzando risorse dei singoli paesi e delle imprese. Il settore è oggi a livello mondiale una macchina pressoché fantastica, che marcia perfettamente mostrando tra l’altro i possibili miracoli della globalizzazione.
Seguendo uno schema di Le Monde del 9 febbraio 2022, da noi un poco arricchito, possiamo dire che è facile che un nuovo chip venga progettato negli Stati Uniti, su di un’architettura della britannica ARM, che le materie prime vengano dalla Cina, che la produzione relativa sia effettuata a Taiwan o in Corea del Sud, su macchine dell’olandese ASML, che la stessa produzione venga poi assemblata in Malasia, con i gas speciali inviati dal Giappone; essa sarà poi venduta soprattutto in Cina o più in generale in Asia, continente che controlla il 70% del mercato mondiale, con la Cina che si colloca da sola intorno al 60%.
Ma il piano della UE presenta dei problemi. In effetti, il mercato mondiale dei chip, secondo una fonte, era pari a circa 440 miliardi di euro nel 2021 e dovrebbe arrivare a più di 900 nel 2030. Dato che ogni miliardo di fatturato in più necessita oggi di circa un miliardo di nuovi investimenti, per ottenere una quota del 20% delle vendite mondiali bisognerebbe investire più o meno 150 miliardi di euro nelle nuove attività, oltre alle somme necessarie per la manutenzione dell’esistente. Sarebbero tra l’altro da costruire diverse decine di nuove fabbriche. Un compito fuori portata, mentre già sullo stanziamento di 43 miliardi ci sono state grandi discussioni a Bruxelles (qualcuno avrebbe persino voluto spendere di meno) e non è detto, che si riuscirà a mobilitate una tale, peraltro relativamente modesta, somma. Ma poi, come si dice, per chi paga poco la messa è breve.
Non essendo le imprese del continente capaci di raccogliere del tutto tale sfida, trattandosi per la gran parte degli attori sostanzialmente di secondo rango nel settore (un salto tecnologico delle stesse appare relativamente improbabile e comunque alcune di esse non hanno mostrato molto entusiasmo per il piano di Bruxelles; fa eccezione come livello tecnologico l’olandese ASML), siamo obbligati a chiedere l’intervento degli americani e degli asiatici, da Intel, a TSMC, a Samsung, coprendoli di denaro, pregandoli di investire da noi, aprendo loro ulteriormente le porte del mercato UE. Da rilevare che, parallelamente, anche gli Stati Uniti, a livello pubblico e privato, la Cina, che sta abbastanza rapidamente guadagnando quote del mercato produttivo mondiale, il Giappone, la stessa India, per non parlare della taiwanese TSMC e della coreana Samsung, hanno grandi programmi per aumentare le loro quote di mercato e il loro livello tecnologico e pensiamo anche per questo che l’UE possa difficilmente riuscire ad uscire vincitrice dalla sfida. L’Asia e gli Stati Uniti appaiono alla fine sempre lontani all’orizzonte.
L’auto, un settore tradizionale in pieno rinnovamento
E veniamo ad un settore che vede tradizionalmente una forte presenza dell’industria europea, quello automobilistico, anzi un suo ruolo dominante dal punto di vista tecnologico, in particolare con la Germania. Per sottolineare l’importanza del settore nel nostro continente segnaliamo soltanto che ancora oggi esso dà lavoro, sempre in Germania, direttamente o indirettamente, a circa 15 milioni di persone. Anche se negli altri paesi europei il suo peso è in qualche modo minore, comunque vi rappresenta molto spesso il settore industriale più importante (anche in Italia).
Ora esso è soggetto da qualche tempo nel mondo a dalle grandi trasformazioni, quali non si erano viste per importanza sin dai primi momenti di sviluppo dello stesso ai primi del Novecento, con delle conseguenze ancora più decisive che non quelle portate dalla rivoluzione tayloristica.
Intanto, il baricentro del mercato e della produzione è passato dall’Occidente all’Oriente, con al centro la Cina; tra l’altro, ormai si producono nel paese asiatico da parte dei produttori tedeschi più auto che in Germania, mentre la produzione complessiva cinese equivale grosso modo a quella degli Usa e dell’UE messi insieme. Inoltre, vanno avanti velocemente i processi di elettrificazione delle vetture, mentre avanza, sia pure con qualche difficoltà, la vettura autonoma ed essa diventa comunque sempre più imbottita di elettronica (il software tende a pesare in generale più dell’hardware), mentre tendono anche a cambiare sostanzialmente e profondamente le modalità d’uso del mezzo, cambiamenti che tendono comunque a penalizzare le vetture di maggiore qualità come quelle tedesche.
Nell’ambito di questi importanti processi i costruttori europei di vetture e forse ancora di più le aziende di componentistica rischiano molto seriamente di perdere il treno. In effetti, le trasformazioni sopra descritte sono guidate dalla Cina (così oggi il 70-80% della filiera elettrica è governata da tale paese) e dagli Stati Uniti, con il fenomeno Tesla e dei grandi produttori di software. Le case francesi, Renault e Stellantis, sembrano al momento solo delle also run, mentre quelle tedesche sono partite in ritardo sui processi di trasformazione e rischiano di diventare sostanzialmente cinesi per vendite, produzione, tecnologie. Perdere tale settore o anche solo assistere a un forte ridimensionamento dello stesso è per l’Europa quasi come perdere l’anima economica.
Il resto dell’economia
Per brevità accenniamo soltanto, a questo punto, al settore bancario, nel quale le più grandi imprese come dimensioni sono al mondo cinesi, mentre quelle statunitensi hanno in media una redditività pari al doppio di quella degli istituti europei. E tralasciamo del tutto il comparto del fintech.
La stessa frettolosa sintesi facciamo per quanto riguarda le telecomunicazioni. Le società europee erano una volta degli attori fondamentali del settore e del quadro economico continentale, mentre ora sono ridotte per la gran parte a dei fantasmi di loro stesse, vittime certo dell’evoluzione tecnologica, ma anche delle loro azioni ed inazioni, nonché dell’imprevidenza della politica.
Naturalmente, ci sono dei settori e dei paesi che reggono ancora in qualche modo il colpo. Segnaliamo così, ad esempio, la capacità di esportazione ancora rilevante dell’industria tedesca e di quella italiana (ma quanto resisteranno esse ai nuovi prezzi dell’energia e delle materie prime e alla nuova concorrenza asiatica?), una presenza di peso nel nostro continente dell’industria aeronautica franco-tedesca e di quella meccanica e così via. Ma nella sostanza le coeur n’y est plus.
L’Europa come colonia agricola?
I problemi dell’economia europea non si limitano ai settori avanzati, né, in generale, all’industria o alla finanza. Essi toccano anche aree più tradizionali e nelle quali si pensava che i paesi della UE avessero ancora molto da dire. Ora, un gruppo di ricercatori francesi (G. Allaire ed altri, Pourquoi l’Europe est une colonie agricole, Le Monde, 9-10 gennaio 2022) ha di recente analizzato l’apparente paradosso di un’Europa diventata una vera e propria colonia agricola.
La Commissione di Bruxelles, affermano non senza fondamento i ricercatori, attraverso la politica agricola comune sovvenziona in maniera massiccia una produzione di grandi colture cerealicole e oleaginose destinate queste ultime all’alimentazione animale. Ma per la produzione relativa si utilizzano dei prodotti chimici e meccanici, dal petrolio alle sementi ai concimi, nonché del software, provenienti dai paesi extra-UE i più vari, come ci ha almeno in parte mostrato la crisi ucraina; la gran parte delle aziende agricole è poi largamente meccanizzata e occupa pochi addetti, mentre le stesse produzioni sono a debole valore aggiunto e mentre le lavorazioni lasciano qua e là una falda freatica inquinata e dei suoli super sfruttati. Una parte crescente delle produzioni è poi esportata verso dei paesi come la Cina, mentre la stessa Europa acquista dal paese asiatico in misura crescente produzioni industriali a rilevante valore aggiunto.
Si tratta chiaramente, dicono i ricercatori, di uno scambio ineguale; per la prima volta (e forse, per altri versi, era ora che ciò accadesse), l’Europa mantiene così in piedi delle ragioni di scambio a lei sfavorevoli. Il mondo gira…Il nostro continente appare così sempre più integrato nell’ordine economico est-asiatico, affermano ancora gli autori della ricerca. Forse una esagerazione, ma nella sostanza si tratta di un giudizio che fotografa in maniera abbastanza adeguata una situazione poco brillante.
La dimensione demografica
Già da tempo e da più parti si mette in rilievo come la demografia abbia un ruolo fondamentale nella crescita dell’economia di un paese, sia per la sua influenza sul suo sviluppo complessivo che sulle direzioni dello stesso.
Un aumento della popolazione porta con se in generale, ceteris paribus, ad uno sviluppo dell’economia dal lato delle domanda, mentre la presenza di una maggiore percentuale di persone giovani in una popolazione che cresce rispetto ad una situazione di demografia stagnante dà in ogni caso una spinta ad una maggiore dinamica tecnologica e più in generale innovativa.
La popolazione europea dovrebbe raggiungere un massimo di 450 milioni di persone entro pochi anni per poi cominciare a declinare, arrivando, secondo alcune stime, ai 424 milioni di abitanti nel 2070 (vedi The Economist del 30 aprile 2022, pag.47). Altre stime sono anche più pessimistiche. Il fatto è che le nascite sono ormai inferiori alle morti in un gran numero di paesi del nostro continente, con l’Italia in prima fila, al di là del fattore contingente rappresentato dal covid, che ha contribuito notevolmente negli ultimi due anni a peggiorare ulteriormente la dinamica demografica. L’età media della popolazione della UE è oggi di 43 anni, posizionando l’area come la regione più anziana al mondo, persino più elevata di 4 anni rispetto a quella statunitense. Per contrasto, ricordiamo come quella indiana sia di 28,4 anni.
Certo, un rimedio a tale situazione sarebbe quello di far entrare nella regione 2,5-3,0 milioni di immigrati all’anno, ma, come è noto, l’opinione pubblica radicalmente contraria ed assistiamo tra l’altro ogni giorno al respingimento anche drammatico di tante persone alle nostre frontiere. Prima la guerra in Siria, ora la tragedia ucraina, hanno d’altro canto portato all’immigrazione forzata nella UE di qualche milione di persone, ma non si può certo auspicare una guerra ogni cinque anni per migliorare le prospettive demografiche dell’Unione.
Conclusioni
L’economia europea non ha davanti a sé un avvenire brillante. E anche se non manca qua e là qualche isola più felice al suo interno, gli sforzi recenti non sembrano adeguati. Nel frattempo incalza un nuovo ciclo economico, con un forte rialzo dell’inflazione, dei prezzi e della disponibilità di materie prime e prodotti energetici. E in tale quadro sembra essere assente a Bruxelles un serio tentativo di varare una politica economica comune che indichi una chiara e adeguata direzione di marcia. L’attuale gruppo dirigente dell’Unione Europea appare drammaticamente di un livello molto inadeguato rispetto ai bisogni.