IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Polonia e Ungheria alla fine dell’irenismo neoliberale

Cosa c’è dietro il mancato radicamento in Polonia e Ungheria dei valori del costituzionalismo democratico? Il genio maligno della geopolitica nazionalista sta uscendo dalla lampada del neoliberismo, smentendone il suo presunto irenismo. In esclusiva l’introduzione all’ultimo libro di Andrea Guazzarotti (in libreria dal 1° settembre per Franco Angeli)

Il conflitto in Ucraina – sottolinea il ‘nostro’ Andrea Guazzarotti nelle pagine conclusive della sua ricerca (Neoliberismo e difesa dello Stato di diritto in Europa. Riflessioni critiche sulla costituzione materiale dell’UE, Franco Angeli, 2023) – ha nobilitato il ruolo giocato dal nazionalismo polacco e la sua fiera identità anti-russa, ma il governo polacco ha anche rivendicato ingenti risarcimenti di guerra nei confronti della Germania. L’Ungheria di Orbán, a sua volta, sta da tempo sfruttando politicamente la diaspora delle minoranze ungheresi nei Paesi confinanti, create dallo smembramento territoriale del Trattato del Trianon, dopo la Prima guerra mondiale. A seguire il testo integrale dell’introduzione che apre il volume.

“Calorie” dei fondi europei e governi illiberali

Alla fine della Seconda guerra mondiale, quando gli USA, assieme con le altre potenze occidentali vittoriose, dovevano decidere che fare della Germania Ovest, il generale statunitense Lucius Clay affermò che «Non vi è scelta fra l’essere comunisti con 1.500 calorie giornaliere e il credere nella democrazia con un migliaio». E fu così che, abbandonato l’originario approccio punitivo del Piano Morgenthau, iniziò la ricostruzione post-bellica in Europa occidentale. Polacchi e ungheresi sono oggi posti dinanzi all’alternativa se rimanere fieramente “illiberali” con poche calorie giornaliere, o pentirsi e tornare agli impegni europeisti della loro adesione all’UE nel 2004 per poter continuare a godere delle “calorie” dei fondi europei.

A partire da Maastricht, i trattati dell’UE segnano un duplice irrobustimento dei valori che dovrebbero caratterizzare l’identità degli Stati membri e dell’Unione; delle condizioni politiche per l’adesione, cui si aggiunge la procedura per paralizzare quei Paesi che, una volta ammessi, non rispettino più quelle condizioni (artt. 2, 49 e 7 TUE). Dinanzi alle chiare involuzioni illiberali dei governi di Ungheria (dal 2010) e Polonia (dal 2015) e al quasi inevitabile stallo delle procedure unanimistiche necessarie per neutralizzarli (art. 7 TUE), l’Unione ha prima sperimentato strumenti di soft law, poi la via dei contenziosi giurisdizionali, da cui è derivata, però, un’escalation di dimensioni preoccupanti, specie con la Polonia. Nel 2020, in contemporanea con l’approvazione del NGEU, è stato finalmente varato il regolamento sulla condizionalità (2020/2092) per colpire “la borsa” dei Paesi retti da governi illiberali. I ricorsi di Ungheria e Polonia contro tale regolamento sono stati respinti dalla Corte di giustizia con due sentenze del febbraio 2022 in cui si esalta la dimensione identitaria dell’UE e l’imperativo di difendere i suoi valori, aggirando le strettoie poste dall’art. 7 TUE. Ne è seguita l’attivazione da parte della Commissione del regolamento 2092 nei confronti della sola Ungheria e il blocco di finanziamenti europei per c.ca 6,3 miliardi di euro da parte del Consiglio nel dicembre 2022; contemporaneamente, è stato sbloccato il PNRR ungherese, il cui finanziamento europeo resta, tuttavia, concretamente condizionato all’effettiva adozione di riforme nazionali di irrobustimento dello Stato di diritto. Nessuna formale sospensione “sanzionatoria” dei fondi europei è stata attivata, invece, nei confronti della Polonia, che rischia, però, di vedersi bloccata la concreta erogazione dei generosi fondi di coesione finché non venga certificato il rispetto della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e il cui PNRR resta, comunque, concretamente condizionato al ripristino dell’indipendenza della magistratura.

La vicenda istituzionale sembra confermare l’auspicio di chi ha visto nella solidarietà del NGEU il dispositivo capace di legittimare strumenti di difesa dei valori europei più incisivi che in passato, secondo la logica “federale” per cui, tanto più ci si integra, tanto più si possono condizionare le scelte valoriali delle singole comunità nazionali.

L’aporia originaria

La prima parte del libro, nel ricostruire la lenta reazione istituzionale dell’UE all’affermarsi delle c.d. democrazie illiberali nell’Europa centrorientale, mette in guardia dall’ottimismo istituzionale di chi vede in tale evoluzione un’ennesima prova di costituzionalizzazione dell’UE: la perdurante asimmetria tra gli strumenti sanzionatori para-federali e le ancora scarse credenziali democratiche dell’UE non sembra giustificare quell’ottimismo.

La condizionalità permette, infatti, un indefinito ampliamento dei poteri “normativi indiretti” dell’UE, stiracchiando ancora un po’ il principio delle competenze attribuite e aggravando lo squilibrio tra i poteri sovranazionali e le gracili fondamenta democratiche dell’Unione. Oltre a ciò, la condizionalità del regolamento 2092 sembra strettamente imparentata con quella che guidò le manageriali procedure di adesione degli Stati dell’Est-Europa; al pari di quella, essa appare difficilmente in grado di attingere alle cause profonde che stanno alla base della mancata adesione sociale diffusa ai valori del costituzionalismo democratico; né sembra risolta l’aporia originaria di voler ricorrere a valori come lo stato di diritto per finalità strumentali ed economiciste.

Formalismo dello Stato di diritto, debolezza della costituzione materiale

La seconda parte del libro ricostruisce la fase delle procedure di adesione dei Paesi dell’ex blocco di Varsavia, per analizzare criticamente l’impatto costituzionale delle condizionalità e della loro unilaterale applicazione (sterilizzazione del dibattito parlamentare e pubblico proprio nella delicata fase della ricostruzione di una democrazia liberale). A tale fase corrispondono le vicende della transizione costituzionale di Ungheria e Polonia che esibiscono analoghe lacune nella creazione di un autentico coinvolgimento popolare. Seguendo la modellistica di Mortati, in entrambi i casi è mancata la costruzione di un solido patto sociale capace di dar vita a una “costituzione materiale” in grado, a sua volta, di gemmare una “costituzione formale”. Con le procedure di adesione, UE ed élites politiche hanno preferito investire sulla costituzione formale degli Stati candidati, puntellandola dall’esterno, senza troppo preoccuparsi della costituzione materiale e della debolezza dei legami che andavano formandosi tra l’una e l’altra. Di qui la celebrazione del ruolo delle Corti costituzionali nazionali e di altri indicatori formali dello stato di diritto, probabilmente fuorvianti.

Apertura indiscriminata dei mercati e disintegrazione economica interna

Una sintetica illustrazione dell’evoluzione socioeconomica di Ungheria e Polonia servirà a supportare la tesi conclusiva del libro.

All’integrazione economica esterna dovuta all’apertura indiscriminata dei mercati (specie dei capitali e del lavoro) è seguita una disintegrazione economica interna (polarizzazione sia territoriale, sia sociale), esplosa durante gli anni della crisi finanziaria del 2008. L’opzione illiberale dei partiti al governo in Ungheria e Polonia potrebbe non essere altro che la risposta adattativa al capitalismo transnazionale che determinate economie periferiche sono riuscite faticosamente a produrre, in un’alleanza tra capitale internazionale e nazionale che non contempla alcuna significativa partecipazione al patto della classe lavoratrice.

Si ignora spesso, infatti, che la regressione illiberale in questi Paesi è stata preceduta dall’attacco alla “democrazia economica” e ai diritti dei lavoratori. La repentina fuga del capitale transnazionale nel 2008 e il crollo che ne è seguito, specie in Ungheria, ha dato l’innesco al contro-movimento “à la Polanyi” della piccola e media borghesia, fino a quel momento penalizzata dal patto tra élite politiche e capitale.

L’alleanza tra capitale transnazionale e borghesie nazionali

Dalla nuova alleanza tra governanti e borghesia nazionale è nato un assetto assai più stabile del precedente, in cui il capitale transnazionale – espulso da settori sensibili, come media e utilities, ma ampiamente fidelizzato in quelli dell’auto o delle tecnologie – gioca ancora un ruolo cruciale. Detassazione delle multinazionali, sussidi alle imprese e politiche di “workfare”, da un lato, distribuzione clientelare dei fondi europei agli imprenditori locali e sussidi alle famiglie numerose, da un altro lato, costituiscono lo stabile mix di politiche prodotto da quell’alleanza. La legittimazione delle élite politiche, un tempo cercata nell’ammissione all’UE, oggi viene direttamente dal capitale transnazionale e dalla ritrovata armonia con la borghesia nazionale.

Questo nuovo assetto sembra assai più stabile del precedente, tanto da aver dato vita a una “costituzione materiale” che si è liberata (Ungheria) o si sta liberando (Polonia) della precedente “costituzione formale”.

L’ambigua “costituzione” dell’Ue

Il ruolo giocato dall’UE in tale evoluzione è ambiguo: le vicende analizzate in questo libro illuminano la duplicità della sua “costituzione”, quella materiale (libera circolazione dei capitali) e quella formale (Carta dei diritti e valori comuni). Presentatasi come “Unione di competitività”, priva di autentica solidarietà e di proprie politiche industriali, l’Unione ha senz’altro facilitato la presa del capitale transnazionale sulle società dell’Europa centrorientale; mentre ha strozzato sul nascere, nel mezzo della crisi finanziaria, i tentativi democratici di ridistribuire ricchezza dall’alto al basso nella Grecia di Syriza, essa ha tollerato per anni i governi illiberali capaci di garantire lucrosi affari al capitale transnazionale (i profitti estratti da Ungheria e Polonia sono di gran lunga superiori ai fondi europei a favore di queste ultime).

Ora l’Europa (inclusi i governi nazionali che siedono nel Consiglio) pretende affiancare all’Unione di competitività l’Unione dei valori, facendo leva sulle condizionalità economiche anziché su politiche sociali e industriali para-federali – al momento impossibili – in grado di addomesticare le multinazionali e il loro potere di indurre la competizione al ribasso tra sistemi giuridici nazionali (c.d. “law shopping”).

Si può bloccare, ricorrendo a valori come lo stato di diritto, l’alleanza tra capitale transnazionale ed élite politiche illiberali che cementa la costituzione materiale di quei Paesi? Il capitale transnazionale non è lo stesso che cementa – alleandosi con le élite cosmopolite liberali nazionali e quelle tecnocratiche di Bruxelles e Francoforte – la costituzione materiale dell’UE?

Le fondamenta per un nuovo patto sociale

Le leve della condizionalità ispirata ai valori rischiano di essere strumenti superficiali con cui allineare le costituzioni formali nazionali alla costituzione formale dell’UE, senza attingere alle rispettive costituzioni materiali. Forse uno sguardo alla democrazia economica e al ruolo dei sindacati sarebbe un modo per tentare un nuovo inizio, i lavoratori essendo stati, fin qui, non uno dei soggetti del patto costitutivo bensì l’oggetto dell’accordo tra capitale transnazionale e classi politiche illiberali, le quali hanno garantito al primo l’immunizzazione da ogni conflittualità sindacale e rigide politiche di workfare. Ma ciò, appunto, comporta una (limitata) centralizzazione delle relazioni industriali capace di limitare la competizione tra sistemi giuridici e di detronizzare il capitale transnazionale, ossia la revisione del patto sociale che attualmente cementa la costituzione materiale dell’UE.

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