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IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

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IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Regime change, rischi letali per il Cremlino

Nel panorama complesso delle relazioni internazionali post-2022, la Federazione Russa ha intrapreso un processo di ricalibratura delle proprie alleanze, proiettando una rete densa, ma spesso fragile, di cooperazione strategica con attori regionali ostili all’ordine occidentale. Tra questi, l’Iran si distingue non solo per la sua prossimità ideologica a Mosca in termini di antagonismo sistemico verso gli Stati Uniti e i loro alleati, ma per il suo ruolo di pivot nel garantire profondità logistica, flessibilità diplomatica e continuità nelle operazioni di influenza russa in Medio Oriente, Caucaso e Asia centrale. La possibile caduta del regime degli ayatollah, ipotesi tornata d’attualità nelle ultime ore, rappresenterebbe per il Cremlino non soltanto una perdita strategica, ma una cesura potenzialmente disgregativa nell’ architettura del potere russo.

L’Iran come Pivot Strategico nella Proiezione Russa

A differenza del caso siriano, dove il sostegno a Bashar al-Assad ha rappresentato per Mosca una dimostrazione muscolare più che una necessità strutturale, l’Iran costituisce per la Russia un elemento di equilibrio. Dalla logistica militare alla cooperazione energetica, fino al coordinamento tecnico-industriale nel settore della difesa, la Repubblica Islamica ha garantito al Cremlino un accesso stabile e scalabile a risorse e infrastrutture necessarie alla prosecuzione della sua narrativa internazionale post-imperiale. La Siria, negli ultimi anni, è stata teatro di un progressivo disimpegno russo, più tattico che strategico. L’Iran, al contrario, è oggi un nodo imprescindibile della penetrazione russa nell’Eurasia sud-occidentale.

La caduta del regime di Teheran segnerebbe per Mosca il secondo colpo in pochi anni a una catena di alleanze che sempre più somiglia a una rete a maglie larghe: non più sistemi autoritari solidali, ma regimi in transizione, instabili, talvolta passivi. Perdere l’Iran significherebbe perdere una piattaforma di proiezione simultanea su Israele, l’Iraq sciita, l’Afghanistan e l’intero Golfo Persico — senza considerare le conseguenze sul Caspio e sul corridoio Nord-Sud, oggi più che mai strategico per bypassare le sanzioni occidentali.

Il Discredito della Rete: La Solitudine dell’Orso

Il fallimento russo nel sostenere concretamente i propri alleati — già visibile in Ucraina nel 2014 con l’esilio dorato di Viktor Yanukovich, e poi in Siria con una protezione sempre più “simbolica” di Assad — rischia di trasformarsi in un vero boomerang geopolitico. Se Mosca non sarà in grado di offrire un’ancora credibile alla leadership iraniana in difficoltà, la sua immagine di “protettore dei regimi non allineati” verrebbe ulteriormente incrinata.

In un’epoca in cui la diplomazia parallela russa si fonda sull’evocazione di un ordine multipolare alternativo, ogni cedimento nel sostegno ai regimi amici mina la narrazione di Mosca come attore affidabile e coerente. Peggio ancora, in un contesto in cui anche la Cina sembra ricalibrare con prudenza i propri legami con l’Iran, l’eventuale distacco russo — fosse anche per calcolo o impotenza — accelererebbe il collasso del cosiddetto Asse della Resilienza che include Teheran, Damasco, Mosca e, in forme più elastiche, anche Caracas e Pyongyang.

Un’Eco Interna: Le Fragilità della Verticale del Potere

Ma vi è una terza dimensione, ancor più profonda, che rende pericolosa per Mosca l’eventualità di un cambio di regime a Teheran: la riflessione a specchio sul proprio modello di potere. La caduta di un alleato sistemico, ancorato come la Russia a una “verticale del potere” che combina autoritarismo, consenso selettivo e religione politica (nel caso iraniano, sciismo rivoluzionario; in quello russo, ortodossia imperial-statale), potrebbe scatenare un effetto disgregante anche all’interno del Cremlino.

La leadership russa, lungi dall’essere monolitica, si regge su un equilibrio rotatorio tra siloviki, tecnocrati, imprenditori di Stato e oligarchi “nazionalizzati”. In un tale contesto, ogni evento che alteri le coordinate geopolitiche esterne può essere letto come un segnale di vulnerabilità interna. La caduta del regime iraniano potrebbe quindi alimentare una nuova stagione di instabilità dentro i palazzi di Mosca: rimescolamenti, epurazioni, sfide di successione indirette. Non si tratterebbe necessariamente di un cambio di regime, ma di un “riassestamento” delle forze centripete e centrifughe che regolano la gestione del potere in Russia. Un effetto domino elitario, non popolare.

L’Iran come Cartina di Tornasole del Post-2022

In sintesi, la caduta del regime degli ayatollah non rappresenterebbe per Mosca solo una sconfitta tattica o un impoverimento delle proprie opzioni esterne. Sarebbe una cesura strategica, una conferma della fragilità della sua rete internazionale e, soprattutto, un rischio diretto per la tenuta interna del sistema di potere russo. In un mondo dove le alleanze non sono più garantite dalle ideologie, ma dai benefici concreti e immediati, la Russia rischia di trovarsi sola, senza la capacità di sostenere né gli altri né sé stessa.

Il 2022 ha segnato l’inizio di una nuova fase del “nuovo impero russo”: non quella della conquista, ma quella della conservazione. L’Iran, in questo schema, è un bastione più che un alleato. Se cade, il Cremlino dovrà chiedersi non chi sarà il prossimo a cadere, ma quanto a lungo potrà restare in piedi.

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