L’odierna disputa in ordine all’introduzione di un salario minimo legale è, a ben vedere, un altro segnale dell’insostenibilità dell’ordine economico di Maastricht, in un momento storico in cui il “naufragio dell’iper-globalizzazione neoliberale” (D’Attorre, 2023) rimette al centro l’esigenza di forme più incisive di intervento pubblico sull’economia anche con l’obiettivo di stimolare la domanda interna.
La separazione funzionale tra mercato e Stato sociale
Già in altre circostanze (Losurdo, 2016) si è evidenziato che l’ ordine costituzionale dei “Trenta gloriosi”, incentrato sui pilastri di Bretton Woods e del GATT, ha favorito un equilibrio tra costruzione sul piano sovranazionale di un mercato comune (unico, interno), sotto l’autorità normativa del diritto e della giurisprudenza comunitari (Smith all’estero) e l’edificazione di robusti Stati sociali sotto l’autorità normativa dei governi nazionali cui spettava il controllo della moneta e del bilancio (Keynes in patria).
Le politiche monetarie e fiscali, le leve fondamentali per determinare gli standard qualitativi e quantitativi delle prestazioni sociali offerte ai cittadini, avevano come stella polare l’obiettivo della piena occupazione, in adempimento della promessa scolpita solennemente nelle costituzioni del secondo dopoguerra. La piena occupazione non è, infatti, relegata tra i pii desideri. Ad evidenziarlo non sono solo gli esponenti della scuola keynesiana, ma anche il teorico nazionale della natura “salvifica” del vincolo europeo. Nel suo libro-intervista – Cinquant’anni di vita italiana, Roma, 1982 – Guido Carli sottolinea come gli organismi nati a Bretton Woods abbiano concepito «la rinascita delle nazioni ad economia libera» secondo «i principi della stabilità monetaria, dell’apertura progressiva delle frontiere commerciali, del pieno impiego». Era questa, del resto, la missione che contribuiva alla rilegittimazione politica delle classi dirigenti nazionali dopo le tragedie della seconda guerra mondiale.
Il modello sociale europeo…la “flexsecurity”
Indubbiamente, si trattava di un equilibrio fragile che cominciò a declinare già agli inizi degli anni Settanta, quando il crollo del sistema di Bretton Woods ha aperto il “Vaso di pandora” della libera circolazione dei capitali e il principio comunitario del mutuo riconoscimento, inizialmente confinato alla circolazione delle merci, ha invaso i settori più delicati dei servizi pubblici e del diritto del lavoro (Giubboni, 2012).
La scelta dell’euro muoveva dall’idea di prefigurare un’alternativa al dominio globale del dollaro e di erigere un rinnovato scudo, venuto meno quello di Bretton Woods, alla tirannia dei mercati finanziari speculativi (De Cecco, 1999). L’architettura di Maastricht è un compromesso, assai più arretrato di quello dei Trenta gloriosi, tra la “cessione” della sovranità monetaria al sistema europeo delle Banche centrali e la riserva nazionale della politica fiscale assoggetta ad una sorveglianza multilaterale che, almeno inizialmente, privilegiava la sede della decisione politica, il Consiglio, a discapito di quella tecnica, la Commissione
All’iniziale proposito di garantire un’autonomia dell’economia europea dai mercati finanziari subentra l’intento opposto di utilizzare i mercati, di cui si postula l’intrinseca razionalità, come strumenti di duro disciplinamento degli Stati sociali nazionali. Invece di rafforzare la coesione sociale e territoriale tra gli Stati membri si privilegia una competizione fratricida tra gli stessi incentrata sul circolo virtuoso (che diventerà vizioso) austerità-riforme strutturali. Matura, cioè, nelle classi dirigenti europee la rinuncia ad approfondire l’integrazione sociale tra gli Stati membri esistenti, al fine garantire un’autonomia dello spazio europeo dalla globalizzazione neoliberale e dai mercati finanziari internazionali. Si preferisce, invece, scommettere sull’integrazione dello spazio europeo, in quanto tale, nella globalizzazione, accettandone gli imperativi deregolativi.
In questa cornice il Trattato di Amsterdam con il quale si volevano compensare gli effetti dell’integrazione economica e monetaria, prefigurando un modello sociale europeo, sintesi delle principali tradizioni degli Stati membri, produsse un risultato assai deludente.
La politica europea dell’occupazione, condizionata dal principio della “crescita non inflazionistica” e dal voto all’unanimità, ha partorito il principio della “flexsecurity”: massima flessibilità per quanto concerne il rapporto di lavoro (con la possibilità di licenziamento senza giusta causa) e l’organizzazione aziendale (con l’indebolimento del ruolo della contrattazione collettiva nazionale) e “sicurezza” del posto di lavoro, a prescindere dalla sua stabilità. Ma con la possibilità teorica di accedere ogni volta ad un nuovo posto di lavoro (quale che sia), usufruendo di opportunità di riqualificazione e formazione nell’intervallo tra un impiego e l’altro.
Quando si bloccano le catene globali del valore
Questa politica sociale europea orientata alla produttività e alla competitività internazionale presupponeva, però, il buon funzionamento delle catene globali del valore, cosa che consentiva la delocalizzazione delle filiere a minor valore aggiunto, mantenendo il controllo su quelle a maggior valore aggiunto. Si tratta del modello tedesco dell’“austerità espansiva” che, a partire dall’agenda Schröder 2010 (le riforme Hartz III-IV) è divenuto il modello europeo di riferimento.
Sennonché prima la pandemia e poi la guerra russo-ucraina hanno determinato crescenti segmentazioni dei mercati internazionali: si assiste ad una ridefinizione della globalizzazione sulla base di faglie geopolitiche. Le catene globali del valore sono “ostruite” e tornano sulla scena inedite forme di protezionismo che prendono il nome di de-coupling, friend-shoring. In questo contesto, torna ad acquisire una marcata centralità il tema del sostegno alla domanda interna, anche incentivando la crescita dei salari.
Un’esigenza testimoniata anche dal fatto che alcune regole fondamentali dell’ordine di Maastricht sono state “sospese”: il patto di stabilità, il divieto degli aiuti di stato, l’esclusione di trasferimenti di risorse tramite una capacità fiscale comune, il divieto di monetizzazione. Senza dimenticare l’adozione del SURE un fondo europeo di integrazione degli strumenti nazionali di sostegno salariale per fronteggiare il calo dell’occupazione a causa della pandemia.
Salario minimo ed economia sociale di mercato
Secondo alcuni sarebbe il ritorno di un’Europa sociale, un vero cambio di paradigma. Ooccorre evidenziare che il tema della retribuzione minima a livello di ordinamento costituzionale ha come caposaldo il principio d’eguaglianza sostanziale, mentre a livello europeo il principio dell’economia sociale di mercato. È questa è una differenza di grande rilievo.
È noto che nell’ordinamento italiano, la “proporzionalità” e la “sufficienza” (art. 36 Cost.) costituiscono parametri di riferimento imprescindibili tanto rispetto alla determinazione convenzionale del salario tramite lo strumento privilegiato della contrattazione collettiva, quanto rispetto all’ipotesi di determinazione legale. Mentre il limite della “proporzionalità” potrebbe essere visto come declinazione dell’eguaglianza in senso formale, il criterio della “sufficienza a garantire al lavoratore e alla sua famiglia una vita dignitosa”, è una declinazione dell’eguaglianza sostanziale.
Nell’ordinamento europeo, invece, la questione del salario minimo va inquadrata in quel bilanciamento ineguale sancito a più riprese dalla Corte di Giustizia che privilegia le libertà economiche fondamentali e segnatamente la libertà d’impresa sui diritti sociali collettivi. Una giurisprudenza culminata con il caso Iraklis del 2016 in cui la Corte di giustizia ha sancito l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di una legge greca che stabiliva una limitazione della possibilità di licenziamenti collettivi, subordinandola ad una valutazione discrezionale del governo).
La ratio sottesa alla direttiva europea sul salario minimo diventa più chiara se si pone a mente la celebre sentenza Laval del 2007. In questa pronuncia la Corte di Giustizia ha sancito che, il diritto di sciopero, pur essendo un diritto fondamentale, debba conformarsi al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali, bilanciandosi con la libertà dell’impresa. Nel caso specifico – proseguiva la Corte – uno sciopero, la cui finalità è costringere un’impresa ad applicare un contratto collettivo migliore per i lavoratori rispetto a quello applicato dall’impresa, «non può essere giustificato» alla stregua di una protezione degli interessi dei lavoratori, perché così lo sciopero renderebbe «in pratica impossibile o eccessivamente difficile la determinazione, da parte di tale impresa degli obblighi cui dovrebbe conformarsi in materia di minimi salariali».
In altre parole, la Corte di Giustizia disconosce il fine perseguito dallo sciopero – cioè la modifica delle condizioni salariali – perché così facendo si altera la certezza dei costi che quell’impresa ha programmato.
La ratio della direttiva europea sul salario minimo
La direttiva europea sul salario minimo e nella stessa direzione l’approvazione del “Pilastro europeo dei diritti sociali” potrebbero indicare un possibile cambio di passo delle istituzioni europee in direzione di un diverso equilibrio tra mercato e istanze sociali, in ragione di un ripensamento sulle virtù della concorrenza come motore dell’allocazione ottimale della ricchezza.
Ma occorre non dimenticare che il riconoscimento di tali istanze sociali si inquadra in un bilanciamento ineguale con le libertà economiche fondamentali. Se guardiamo ai lavori preparatori della direttiva, si ricava che essa aveva come “principali” destinatari i paesi dell’Europa dell’est i quali hanno standard sociali assai più bassi dei paesi della “vecchia” Europa. Le grandi imprese, grazie alla cura delle ricette neoliberali a cui i paesi dell’Est si erano (loro malgrado) sottoposti, hanno infatti potuto delocalizzare i propri impianti produttivi in Stati membri con standard più bassi in termini di sicurezza sociale e di relazioni industriali.
Pertanto, da un lato, la direttiva sembra orientata all’obiettivo “progressivo” di contenere il dumping sociale e promuovere livelli maggiori di copertura sindacale nei paesi della “nuova” Europa. La direttiva in parola contiene un riferimento anche ad un criterio materiale per la fissazione del salario minimo («Oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali», considerando 29). Dall’altro, in linea con l’orientamento giurisprudenziale Laval, la stessa normativa sembra altresì rivolta a garantire una certezza dei costi salariali, specie a carico delle piccole e medie imprese in modo tale da garantirne la perdurante capacità di competitività internazionale.
Quello che manca all’Unione europea
Per quanto positiva, non può certo bastare una misura come il salario minimo legale e la sospensione “emergenziale” del patto di stabilità a fronteggiare un mondo segnato dal declino della globalizzazione neoliberale e dal ritorno del conflitto geopolitico (Galli, 2023). Occorrerebbero interventi coordinati a livello europeo e una revisione organica delle regole fiscali dell’eurozona per rafforzare l’apparato produttivo europeo che non può contare su un quadro di sostegni pubblici paragonabile a quello di altri “capitalismi di Stato” (la Cina ma anche gli USA con il varo di un formidabile gamma di sussidi alle proprie aziende private), nemmeno ipotizzabile entro un impianto ordoliberale.
In assenza di ciò, scaricare solo sui singoli Stati membri il peso economico degli investimenti e dei sostegni alle imprese, necessari nel quadro di una nuova politica industriale, significherebbe acuire ulteriormente le divergenze fra i paesi dell’Unione con nuovi rischi per la tenuta del processo d’integrazione e della stessa moneta unica.
(link alla registrazione dell’evento: https://www.radioradicale.it/scheda/715307/salario-minimo-e-costituzione)