Capitalismo ecologico?
Lo svolgimento e i risultati della Cop 28 rendono ancora di più attuale la domanda se sia davvero realistico affidare ai meccanismi produttivi e di mercato del capitale contemporaneo il compito di evitare l’esito eco catastrofico dei processi di produzione e consumo generati dallo stesso capitale. Le formidabili resistenze opposte al superamento del sistema basato sull’energia fossile e gli ambigui risultati del vertice sembrerebbero proporre un dualismo di forze contrapposte: da una parte l’oil and gas industry e il suo corredo di lobbisti – opportunamente spalleggiati da negazionisti ed ecoscettici – e dall’altra i fautori della green economy, che fanno proprie le raccomandazioni di rinnovamento tecnologico e produttivo degli scienziati e degli esperti. Tra questi due schieramenti – apparentemente così distanti, ma anche molto articolati e tutt’altro che omogenei al loro interno – vi è però una sostanziale convergenza nel considerare il capitalismo l’unico orizzonte teorico e pratico entro il quale può essere affrontata la questione della crisi ecologica e dell’eventuale transizione a un’economia ambientalmente sostenibile e in grado di evitare il mutamento climatico potenzialmente catastrofico per la sopravvivenza stessa dell’umanità e di molte altre specie viventi animali e vegetali. Dare per presupposta l’imprescindibilità del sistema capitalistico sembra a prima vista una dimostrazione di sano realismo: la fine del XX secolo e l’inizio del XXI hanno visto, infatti, l’affermazione del capitalismo e la sua piena espansione planetaria. Dopo la caduta o la conversione al mercato dei paesi a economia pianificata, non esiste nessuna possibilità alternativa alle economie capitalistiche. Le quali, nello stesso periodo, hanno travolto anche gli istituti socio-economici nei quali si era incarnato il “compromesso socialdemocratico”. I mutamenti che si sono verificati nella struttura delle società capitalistiche negli ultimi quaranta anni sono troppo noti perché sia necessario richiamarli in questa sede. L’unica forza in campo è dunque il Capitale. Ed è alla sua capacità, più volte dimostrata, di saper utilizzare le crisi da lui stesso prodotte per operare un radicale rinnovamento e avanzamento dei suoi sistemi di produzione, che bisogna, inevitabilmente, affidarsi. Analogamente, si sostiene da questo fronte, a quanto è avvenuto, ad esempio, con la crisi pandemica, durante la quale sono state le capacità scientifiche e produttive della grande industria farmaceutica a “scoprire” i vaccini che hanno permesso di superare la fase più critica della pandemia. Naturalmente tutto ciò è reso possibile dalla strettissima compenetrazione di tecnologia e capitale, un rapporto che ha contrassegnato l’affermazione moderna di entrambi, a partire dalla rivoluzione “industriale” fino ai nostri giorni
In fondo la Green Economy altro non è che il tentativo di considerare la crisi ecologica un’altra occasione per lo sviluppo, trasformando i vincoli ambientali in un’opportunità di rilancio, su basi nuove, del processo di accumulazione. E da questo punto di vista il confronto andato in scena alla Cop 28 altro non sarebbe che una partita tra due versioni del capitalismo, divise “soltanto” dalla percezione più o meno illuminata della congiuntura ambientale, dei suoi rischi e delle sue opportunità.
Questa rappresentazione è, ovviamente, basata su una serie abbastanza impressionante di semplificazioni e omissioni. A cominciare dalla presunta capacità del capitalismo di generare autonomamente la propria dinamica e i propri processi di adattamento. A questo proposito si potrebbe, banalmente ricordare il salvataggio pubblico del sistema in occasione dell’ultima crisi finanziaria globale. Ma più importante è osservare come l’apparente onnipotenza del capitalismo sia smentita in questa fase storica dalla sua incapacità, nonostante il sostegno incondizionato che riceve dalla politica e dalle istituzioni pubbliche, di produrre un autentico superamento della crisi e un nuovo ciclo di espansione e stabilità. Le crisi si accavallano senza che siano effettivamente risolte da un nuovo modello di organizzazione sociale. È questo fenomeno, nuovo, a generare quel crollo di aspettative e di sicurezza che caratterizza il nostro presente. Ciò che viene revocata è la fiducia nella promessa di benessere, autodeterminazione e sicurezza che era sottesa alla capacità del capitalismo di produrre sempre maggiore ricchezza e offrire opportunità di impiego dei talenti e delle energie. Il punto è, come sostiene da ultima Nancy Fraser nel suo Capitalismo cannibale , recentemente tradotto in italiano da Laterza, che siamo di fronte è una crisi sistemica risultato non solo delle contraddizioni interne al sistema capitalistico, ma anche “delle contraddizioni tra il sistema economico e le sue condizioni di possibilità”. Le quattro contraddizioni che caratterizzano il capitalismo contemporaneo, quella ecologica, quella sociale, quella politica e quella razziale/imperialista, sono l’espressione della destabilizzazione che il processo di accumulazione illimitata determina nelle “condizioni di possibilità” del sistema. La sua esistenza dipende infatti da
“un libero utilizzo della riproduzione sociale, della natura, del potere politico e dell’espropriazione (…) Nel caso delle sue condizioni socioriproduttive, a essere messi in pericolo sono i processi socioculturali che, nutrendo le relazioni solidali, le disposizioni affettive e gli orizzonti valoriali, sostengono la cooperazione sociale e producono degli esseri umani adeguatamente socializzati e qualificati per diventare «forza lavoro». Nel caso delle sue condizioni politiche, a essere compromessi sono i poteri pubblici, sia nazionali che transnazionali, che garantiscono i diritti di proprietà, fanno onorare i contratti, dirimono le controversie, soffocano le ribellioni anticapitalistiche e mantengono l’offerta monetaria. Nel caso della dipendenza del capitale dalla ricchezza espropriata, messi a rischio sono l’universalismo professato dal sistema – e quindi la sua stessa legittimità – e la capacità delle classi dominanti di governare egemonicamente attraverso un mix di consenso e di forza. In ciascuno di questi casi, il sistema ha una tendenza intrinseca all’autodestabilizzazione. Non riuscendo a reintegrare o a riparare le proprie sedi nascoste, il capitale continua a divorare gli stessi supporti da cui dipende”. (Fraser 2023)
Il discorso eco socialista
Anche volendo immaginare che questi fenomeni non siano l’espressione di un’aporia sistemica e che rispondano piuttosto a difficoltà contingenti, resta comunque il fatto non superabile che il capitalismo può cercare di risolvere le crisi che genera solo nella prospettiva di un’ulteriore crescita del suo meccanismo di accumulazione. La distruzione delle forze produttive naturali e umane che si verifica in ogni crisi non è altro che la condizione per la riattivazione su scala allargata dell’accumulazione di valore. In assenza di meccanismi di redistribuzione e/o di un diverso assetto dei rapporti di produzione, ciò comporta un aumento delle diseguaglianze a livello globale e all’interno dei singoli paesi. Oltre a ciò il processo di valorizzazione del capitale genera un aumento del consumo delle risorse naturali finite e una crescita dei conflitti per il controllo delle materie prime e delle catene globali del valore.
È in sostanza questa la critica ecosocialista alle strategie finora adottate per contrastare il cambiamento climatico e le sue conseguenze sistemiche sull’ambiente e sulla vita. Fin dalla Dichiarazione di Belem gli ecosocialisti hanno infatti evidenziato il paradosso rappresentato dal fatto che il sistema globale dominante, responsabile del disastro ecologico, sia anche il soggetto al quale viene affidato il compito di trovare la soluzione a questo stato di cose. Ciò, peraltro, non deve stupire troppo se si valutano i rapporti di forza dati, visto che “il capitale controlla i mezzi di produzione della conoscenza” e di conseguenza “i suoi politici, burocrati, economisti e professori” elaborano tutta una serie di proposte per porre rimedio al danneggiamento dell’ambiente senza rimettere in discussione i meccanismi di mercato e il sistema di accumulazione che governa l’economia globale. Ne è una prova lo stesso Protocollo di Kyoto, con il quale si istituiscono altri mercati per scambiare merci-natura (per esempio la capacità delle foreste di assorbire CO2) con l’intento di ovviare al riscaldamento globale, che altro non è se non una conseguenza della incapacità del mercato di contabilizzare le “esternalità negative”.
La predominanza politica e simbolica del capitalismo è alimentata anche dal discredito che avvolge il socialismo e lo rende quasi impronunciabile, se non come variante del neoliberalismo, incaricata di attenuarne gli effetti più devastanti sul piano sociale. A questa perdita di credibilità concorre ovviamente l’esperienza storica dei paesi socialisti, che oltre alle aberrazioni sul piano delle libertà politiche e civili, non sono riusciti a costruire un sistema economico efficiente e migliore di quello capitalistico sul piano della salvaguardia ambientale.
Le ragioni di tutto ciò vanno, secondo alcuni autori del filone ecosocialista, ricondotte non solo alle specifiche condizioni economiche e socio-politiche di quei paesi, ma anche al paradigma produttivista e antropocentrico che caratterizzerebbe la stessa opera di Marx. Infatti, fin dagli anni Settanta del secolo scorso – e quindi ben prima della rovinosa caduta del “socialismo realizzato” – numerosi studiosi hanno criticato l’opera di Marx per il suo iperproduttivismo e la sua insensibilità nei confronti degli equilibri ecologici. Alcuni di loro hanno indicato nella stessa teoria marxiana del valore-lavoro la causa di questa attitudine, basata sulla assolutizzazione del lavoro umano come fonte del valore e sulla conseguente incapacità di Marx di riconoscere il ruolo della natura. Su questa base si è sviluppato un intenso dibattito che ha visto alcuni studiosi marxisti (definiti “eco socialisti della prima fase”, schierarsi su posizioni più marcatamente critiche nei confronti di Marx. Mentre più recentemente, si è andata formando una corrente (i cosiddetti “ecosocialisti della seconda fase”) che tende invece a valorizzare la componente ecologica in Marx.
L’ecosocialismo in Karl Marx
Il libro di Kohei Saito, L’ecosocialismo in Marx, Castelevecchi 2023, si propone esplicitamente – attraverso un dettagliato lavoro filologico che si avvale dell’edizione, peraltro ancora in itinere, della Marx-Engels Gesamtausgabe, nota come MEGA² – il compito di ricostruire in modo sistematico la “critica ecologica di Marx al capitalismo”. La tesi di fondo, per la verità, è che non solo Marx fosse attento all’ecologia, ma che addirittura non sia possibile comprendere tutta la portata della sua critica all’economia politica se si ignora la sua dimensione ecologica.
La parte del volume che appare più convincente e originale è la seconda, che valorizza in particolare l’attenzione di Marx per le scienze naturali e per il contributo del chimico e agronomo Liebig e del fisico e agronomo Fraas alla comprensione del fenomeno dei rendimenti decrescenti in agricoltura. Non potendo entrare nel dettaglio, ci limiteremo a riassumere gli aspetti più rilevanti di questa trattazione.
Dopo aver chiarito come la forma capitalistica del lavoro crei vari squilibri nella vita dei lavoratori (sopralavoro, disturbi fisici e mentali, ecc.) Marx rileva come il capitale estenda la sfera della mercificazione oltre al lavoro di fabbrica, fino a sussumere l’agricoltura, perturbando così in modo distruttivo l’interazione metabolica tra uomo e natura. Secondo Saito, i quaderni di Marx dedicati alla chimica agraria si spiegano soltanto con l’intenzione di comprendere la trasformazione distruttiva del mondo naturale operata dal capitale.
Il tema dal quale prende le mosse questa indagine è quello della critica alla teoria della rendita fondiaria in Ricardo. Che è fondata sul differenziale di potenziale produttivo dei terreni e sulla naturale redditività decrescente dei suoli agricoli. Questa teoria, in ciò simile a quanto sostenuto da Malthus, presuppone una sorte di legge naturale e astorica, che finisce per assolvere il capitalismo da ogni responsabilità e giustificare, soprattutto in Malthus, i bassi salari dei lavoratori. Marx trova invece nell’opera di Liebig (a partire dalla settima edizione della sua Chimica agraria) e successivamente in Carl Fraas, delle spiegazioni scientifiche del deperimento dei suoli fondate sul carattere distruttivo dell’agricoltura moderna. Le teorie di Liebig e Fraas sono in realtà diverse e per certi versi concorrenti, fondandosi l’una sull’impoverimento delle sostanze inorganiche provocato dall’agricoltura di rapina, e l’altra sulla desertificazione del suolo prodotta dai cambiamenti climatici; a loro volta provocati dai disboscamenti e dall’uso produttivo dissennato. In particolare la teoria di Fraas consente a Marx di evitare di cadere in una posizione neomalthusiana o catastrofista. Ma soprattutto di concepire il cambiamento climatico come limite insuperabile nella trasformazione del mondo naturale da parte dell’uomo. Quest’ultimo, infatti, modifica l’ambiente sfruttandone l’elasticità, ma lo fa anche, con il capitalismo, alterando il metabolismo universale nella sua interezza. Secondo l’autore, ciò dimostra l’evoluzione ecologista di Marx, che abbandona il “prometeismo” del Manifesto del partito comunista, per diventare sempre più ecologista, e per affidare al socialismo il compito di operare una riorganizzazione consapevole tra esseri umani e natura.
Ciò che interessa maggiormente in questa sede è rilevare come sia certamente possibile approfondire una linea interpretativa che consenta di emendare, almeno sul piano teorico, quell’interpretazione iperproduttivistica che si è in qualche modo riflessa nelle esperienze del “socialismo realizzato”. Un’interpretazione e una storia che hanno a lungo ostacolato se non addirittura reso impraticabili i rapporti tra socialismo ed ecologismo.
Ma se il socialismo può, anche attraverso il recupero della dimensione ecologista presente nell’opera edita e inedita di Marx, sviluppare un nuovo modo di intendere il rapporto con la natura, è certamente altrettanto vero che l’ambientalismo ha bisogno a sua volta del socialismo e della sua critica della strutturale contraddizione tra il processo capitalistico di accumulazione illimitata del valore e le risorse finite dell’ecosistema.
Semmai, dobbiamo seriamente interrogarci attorno alla praticabilità concreta di un cambiamento così radicale – ma anche così necessario – a fronte della rapidità con la quale il cambiamento sta raggiungendo le soglie di irreversibilità. Se aveva ragione Giorgio Ruffolo a pronosticare che “il capitalismo ha i secoli contati” allora non c’è speranza, perché l’ecosistema non può attendere tanto.