Di ius scholae si è iniziato a discutere concretamente nel corso della XVII legislatura, quando la Camera dei deputati ha approvato un disegno di legge che prevedeva l’acquisto della cittadinanza iure soli per i nati sul territorio della Repubblica da genitori stranieri regolarmente residenti (di cui almeno uno titolare del diritto di soggiorno permanente o di lungo periodo), accompagnata da una ulteriore fattispecie di acquisto della cittadinanza – definita appunto ius scholae – riguardante i minori, nati o entrati in Italia prima dei dodici anni, a seguito della frequenza e/o della conclusione positiva di un percorso formativo di istruzione (quinquennale, riferito a uno o più cicli presso istituti del sistema nazionale) anche professionale (triennale o quadriennale idoneo al conseguimento di una qualifica professionale). La frequenza regolare di un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo, o il conseguimento di una qualifica professionale avrebbe altresì consentito la domanda di concessione della cittadinanza (cd. naturalizzazione) allo straniero entrato nel territorio nazionale prima del compimento della maggiore età e legalmente residente da almeno sei anni.
Ius scholae: strada di accesso alla cittadinanza?
Il progetto di legge (A.S. 2092) non conclude però il percorso al Senato e, nella XVIII legislatura, abbandonata la prospettiva dello ius soli, ne viene riproposta alla Camera (A.C. 105-A) la sola parte relativa al c.d. ius scholae o ius culturae. La varietà lessicale viene impiegata per rimarcare i distinguo in ordine ai requisiti, più o meno ampi, che nelle varie proposte dovrebbero caratterizzare questo percorso di accesso alla cittadinanza: in queste brevi considerazioni si è scelta l’espressione ius scholae come termine generico e comprensivo delle possibili variabili, ad oggi note ed eventualmente future, in considerazione dell’interesse specifico a proporne una riflessione che vuole declinare il rapporto tra scuola, diritto all’istruzione e Costituzione.
Anche l’iter di questo progetto, tuttavia, si ferma allo stadio dell’approvazione in sede referente nella Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati (28 giugno 2022).
Avviata la XIX legislatura, la discussione sulla cittadinanza sembra eclissarsi, fino a quando Antonio Tajani, intervenendo il 22 agosto 2024 al Meeting di Rimini, non lancia un sasso che agita lo stagno della coalizione di governo, rilanciando una nuova versione di ius scholae, in cui il limite temporale del percorso di studio è innalzato a dieci anni. Il progetto di legge ventilato da Forza Italia, però, tarda a concretizzarsi e, a fine settembre, i partiti della maggioranza ritrovano l’unità sul tema della cittadinanza respingendo tutte le mozioni delle opposizioni rivolte a sollecitare una ripresa della discussione (compresa quella del M5S esclusivamente centrata sullo ius scholae che, nelle mozioni delle altre forze, veniva invece variamente combinato con ius soli più o meno temperato).
Ancora una volta è difficile sfuggire la sensazione che lo ius scholae, piuttosto che esprimere una intenzione strutturata di revisione della cittadinanza, si configuri come strumento di tattiche diversive o di aggiramento, facendosi veicolo di altri e diversi obiettivi.
Nella prima metà del 2025, la discussione sulla cittadinanza torna a occupare uno spazio nelle dinamiche istituzionali: dapprima in relazione al referendum abrogativo che sarà sottoposto agli elettori nella tornata referendaria dell’8 e 9 giugno prossimi; e poi, per la presentazione del decreto-legge n. 36 del 28 marzo 2025, che anticipa la decorrenza degli effetti temporali del disegno di legge del governo in materia di cittadinanza (A. S. 1450), presentato al Senato l’8 aprile (disponendo una vera e propria anticipazione in senso sostanziali della revisione proposta dal ddl 1450 e non limitandosi a un effetto sul piano procedurale, di sospensione o moratoria dei termini di domanda di riconoscimento della cittadinanza, il ricorso alla decretazione d’urgenza ha suscitato riserve e critiche: si vedano in particolare le audizioni di Roberta Calvano e Enrico Grosso.
Il referendum sulla cittadinanza, una proposta ragionevole
Le questioni che risultano poste al centro dei processi decisionali referendario e governativo-parlamentare, però, nulla hanno a che vedere con il cosiddetto ius scholae.
Il quesito referendario, a cui è stato attribuito il titolo di «Cittadinanza italiana: Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana», è stato formulato utilizzando le possibilità di manipolazione abrogativa consentita dalla tecnica del ritaglio sulla legge vigente: entro questi limiti, la sua approvazione avrebbe l’effetto di ridurre da dieci a cinque anni il tempo di residenza legale in Italia richiesto per la domanda di acquisto della cittadinanza da parte di stranieri maggiorenni.
La finalità più ampia dei proponenti è chiaramente quella di rilanciare una discussione bloccata da troppo tempo, indirizzando il ripensamento sulla cittadinanza in un’ottica che sia finalmente capace di riconoscere i cambiamenti strutturali che hanno investito la società italiana – nella sua dimensione di paese di immigrazione, nella demografia, nella configurazione come una società irreversibilmente plurale dal punto di vista dell’origine della popolazione residente – e di fornire una risposta ragionevole ai bisogni di riconoscimento e partecipazione delle persone che sono concretamente presenti sul territorio e partecipano alla vita sociale ed economica del paese. Una risposta che è urgente e necessaria, per quanto la semplificazione dell’accesso alla cittadinanza in senso strettamente giuridico sia ben lungi dall’esaurire tutti i profili dell’accesso effettivo ai diritti di cittadinanza.
L’intervento governativo in materia di cittadinanza va, dal canto suo, nella direzione opposta a quella perseguita dai promotori del referendum, essendo volto piuttosto a restringere le condizioni dell’acquisto iure sanguinis, introducendo requisiti attestanti un vincolo effettivo con l’Italia secondo il principio del genuine link, elaborato dalla giurisprudenza internazionale ed eurounitaria: i discendenti di cittadini italiani, nati all’estero, saranno automaticamente cittadini solo per due generazioni e solo chi ha almeno un genitore o un nonno nato in Italia sarà cittadino dalla nascita; i figli di italiani residenti all’estero acquisteranno automaticamente la cittadinanza se nascono in Italia oppure se, prima della loro nascita, uno dei loro genitori cittadini ha risieduto almeno due anni continuativi in Italia.
Non vi è traccia alcuna, nella proposta del governo, di un’idea dinamica dello status civitatis, capace di definire i criteri dell’appartenenza al popolo a partire da una rappresentazione realistica della composizione della popolazione residente e aperta a favorire l’integrazione degli stranieri attivamente presenti sul territorio tramite l’esercizio di tutti i diritti e l’adempimento di tutti i doveri che danno corpo alla cittadinanza e sostanza alla solidarietà sociale, politica ed economica.
Il disegno di legge ancora una volta orienta la cittadinanza su una comunità ripiegata al suo interno, la cui sola preoccupazione è di affiancare all’idea del legame di sangue – che si diluisce con il passare delle generazioni – un contatto minimo con il territorio; una comunità incapace di pensarsi alzando lo sguardo verso chi quotidianamente partecipa alla sua esistenza con il lavoro, inteso come concorso alla vita della società, al suo progresso materiale o spirituale (ai sensi dell’art. 4 Cost.).
Una configurazione della cittadinanza che tradisce l’idea della Repubblica fondata sul lavoro: l’art. 1 Cost., infatti, esprime una opposta concezione dell’identità nazionale costituzionale, che trova nella partecipazione attraverso il lavoro il fondamento di legittimazione sociale dello Stato – concezione che è già stata ricordata su questa rivista come la felice particolarità dell’identità italiana a partire dall’importanza e dal protagonismo dei soggetti umili (A. Cantaro, proprio a proposito di scuola).
Solo il prosieguo della discussione sul ddl 1450 ci dirà se la revisione della cittadinanza, e in essa la prospettiva dello ius scholae, potrà essere positivamente rilanciata e integrata in una visione finalmente dinamica e complessiva.
Lo potrebbe certamente sollecitare il successo del referendum abrogativo al voto l’8 e 9 giugno, se non nel senso pieno dell’esito abrogativo, almeno per una partecipazione al voto significativa e ampiamente favorevole.
Il referendum sulla cittadinanza, come gli altri quattro sul lavoro, è però circondato da una cortina di silenzio, che rende sempre più difficile ipotizzare il raggiungimento del quorum di partecipazione, complice anche l’abbinamento al secondo – eventuale e meno frequentato – turno delle elezioni amministrative della primavera 2025. A fronte dei segnali poco incoraggianti che il pessimismo della ragione deve registrare, è indispensabile che l’ottimismo della volontà sappia declinarsi nella necessità di un rinnovato e sempre maggiore impegno di partecipazione.
Cittadinanza e partecipazione
Anche lo ius scholae – che, nelle questioni di attribuzione dello status civitatis, appare segnato dalla strumentalità e dalla parzialità – guardato dal punto di vista della partecipazione ha, invece, il merito di centrare il ruolo fondamentale del diritto sociale all’istruzione come fattore di promozione sociale per tutti e tutte coloro che frequentano la scuola, valorizzando le differenti funzioni dell’istruzione, come elemento di sviluppo della personalità e come elemento di integrazione nella dimensione interculturale.
Lo sottolinea anche la relazione illustrativa della proposta di legge (A. S. 1226) che ha riproposto nella legislatura corrente i contenuti del progetto discusso alla Camera prima della cessazione anticipata della XVIII legislatura e che dichiara la finalità di estendere l’acquisto della cittadinanza sulla base del principio dello ius scholae, riconoscendo «il potente fattore aggregante della scuola».
La scuola è la prima formazione sociale aperta a tutti (art. 34 Cost.), che può garantire la partecipazione di cui parla l’art. 3, II comma Cost., trascurata dalla linea di azione politica del governo non solo in materia di cittadinanza, ma anche in materia di istruzione: questo significato della scuola in rapporto alla cittadinanza – sia nella dimensione verticale di status di appartenenza, sia nella dimensione orizzontale, sociologica e sostanziale di riconoscimento di diritti – è, infatti, cancellato anche nella visione che ispira le Indicazioni nazionali della Commissione Perla, che all’opposto si fondano, come è stato già criticamente rilevato, su una «ispirazione culturale etnocentrica, e precisamente occidentocentrica [accompagnata da una] ispirazione pedagogica antiegualitaria e determinista» (M. Baldacci, al seminario FLC CGIL, Proteo, Didacta, Firenze 14 marzo 2025 ).
Sulle Indicazioni della commissione incaricata dal ministro Valditara si è già avviato un percorso di approfondimento critico che produrrà i suoi frutti quando sarà stato possibile il coinvolgimento effettivo dei protagonisti, nelle forme e nei tempi necessari – che certamente non sono quelli della pseudo consultazione-lampo offerta alle scuole nella forma di questionario a risposte chiuse. Ma è certo che le potenzialità del rapporto tra ius scholae e dinamiche della cittadinanza e della partecipazione andranno cercate altrimenti.
Secondo Costituzione
Se vogliamo trovare un respiro diverso e collocare le prospettive dello ius scholae nel senso profondo e permanente della Costituzione – un significato che deve comunque sapersi rinnovare – non rinuncerei alla ricerca nelle origini costituenti.
Il dibattito costituente sulla scuola e l’istruzione è stato spesso giudicato “arretrato” e responsabile di un condizionamento negativo degli sviluppi attuativi, in termini di ritardo e inefficacia (si vedano ancora recentemente le relazioni al Seminario AIC di Modena, 22 settembre 2023, L’istruzione come fattore di partecipazione). A me pare di poter obiettare che tutta la costituzionalizzazione dei diritti sociali è stata operazione oggettivamente complessa, che ci ha comunque consegnato una categoria completamente nuova di diritti sociali di rango costituzionale, da valorizzare adeguatamente nell’attuazione legislativa – che, per necessità strutturale, è la condizione dinamica di permanente sviluppo di questi diritti, che non possono trovare una loro garanzia di effettività una volta per tutte, ma solo in processi dinamici rinnovantisi incessantemente. Il progetto trasformativo ed emancipante è saldamente ancorato nelle disposizioni costituzionali, ma proprio in ragione della sua novità ha avuto bisogno di saldarsi a strutture e a politiche altrettanto nuove e tutte da inventare. Molto più che l’arretratezza del dibattito costituente a pesare negativamente sul diritto sociale all’istruzione è stato il congelamento della costituzione, l’attiva reazione opposta contro quel progetto – anche se non dimentichiamo che proprio la riforma della scuola media unica nel 1962 può essere considerata un primo passo, se non un innesco, della stagione del disgelo costituzionale che troverà compimento nel decennio successivo.
Il valore originario di liberazione – dal bisogno e dalla subordinazione, come dall’esercizio autoritario del potere – potenzialmente iscritto nella scuola della Costituzione va allora ricostruito non solo attraverso il dibattito costituente, ma anche, con altrettanta se non maggiore rilevanza, nelle esperienze concrete di pratiche sociali che hanno saputo dare vita a una scuola nuova, una scuola della «rinascita» alla democrazia, alla libertà, alla partecipazione.
Esperienze sulle quali tornare a riflettere, sia per arricchire la nostra capacità di interpretare i principi fondamentali della Costituzione proiettandone incessantemente l’attuazione coerente nel tempo – in modo adeguato ai tempi che cambiano –, sia per avere materiali viventi da offrire – nella pratica quotidiana dell’esperienza di fare scuola – alla ricerca del senso profondo dell’origine nazionale, che non può ridursi alla visione ripiegata in se stessa, e reazionaria, che troviamo negli indirizzi della Commissione Perla.
Lo sta facendo il gruppo di lavoro nazionale di Proteo, che ha attivato una ricerca sulla esperienza dei Convitti della Rinascita [su cui v. da ultimo B. Maida, A scuola di resistenza: i Convitti della Rinascita, in Resistenza, La guerra partigiana in Italia (1943-1945), a cura di F. Focardi e S. Peli, Carocci, 2025], esplorando una vicenda che ha origine nei percorsi formativi strutturati, nell’ottobre 1944, per iniziativa dei partigiani della Val d’Ossola internati nel campo di prigionia svizzero di Schwarzsee sotto la guida di Luciano Raimondi, ripresa dopo la Liberazione con la fondazione di undici convitti, che hanno sviluppato, tra il 1945 e il 1952, ricche e diversificate esperienze di effettivo sostegno al diritto allo studio, di istruzione a tutti i livelli e di formazione alla vita democratica e alla solidarietà. Il gruppo di lavoro ha assunto e sviluppato questa ricerca nella prospettiva dichiarata di contrasto all’offensiva ideologica della destra e alle stesse Indicazioni nazionali della commissione nominata dal ministro Valditara [volte a «ridurre la storia a semplice narrazione e aneddotica, dove le conoscenze anziché essere interconnesse si presentano disgiunte, a volte semplificate, non utili a formare delle menti (“La testa ben fatta” di Edgar Morin) che sappiano cogliere la complessità del mondo in cui viviamo»: v. la Prefazione al volume Per una pedagogia della Resistenza. I Convitti Scuola della Rinascita, a cura di Dario Missaglia e Antonio Bettoni, in corso di pubblicazione]: ponendosi, e proponendoci, l’interrogativo su quale scuola per quale società e indirizzando la risposta verso una scuola che formi cittadini liberi, solidali, consapevoli e responsabili, attori del proprio destino, aperti al mondo, capaci di leggere le trasformazioni sociali e di contribuire al cambiamento in senso democratico.