IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Solo i cretini non temono la morte di Bernardo Atxaga

Non riconoscere la morte nella sua realtà è la peggiore delle propagande, dice Bernardo Atxaga, il più importante scrittore basco vivente, nell’intervista tradotta e introdotta da Fabio Frosini

Bernardo Atxaga è lo pseudonimo di Joseba Irazu Garmendia, Joxe per gli amici. Nato nel 1951 ad Asteasu, nella provincia basca di Gipuzkoa/Gipúzcoa (dal 1979 parte della comunità autonoma di Euskadi/País Vasco), Atxaga è – insieme a Joseba Sarrionandia – senza dubbio il più importante scrittore basco vivente. I suoi romanzi hanno ottenuto numerosi premi e sono stati tradotti in varie lingue. Il basco (euskera) è la sua lingua naturale: i libri di Atxaga sono perciò scritti sempre in euskera e solo successivamente da lui stesso o con la sua collaborazione tradotti in spagnolo. Laureato in economia in quella che allora era la Escuela Universitaria de Estudios Empresariales di Bilbao (attualmente incorporata alla Universidad del País Vasco), a lungo si è mantenuto facendo diversi lavori (in banca, come insegnante di euskera, come traduttore, come impiegato di case editrici) riuscendo però insieme a coltivare la sua passione per la scrittura. Dopo aver conquistato la notorietà con il romanzo sul paese immaginario di “Obaba” (Obabakoak, pubblicato nel 1988 e tradotto da Einaudi nel 1991 dalla traduzione spagnola, come purtroppo quasi sempre accade ai libri scritti in euskera), Atxaga ha pubblicato opere di grande complessità ideologica e narrativa, come, in particolare, Gizona bere bakardadean (L’uomo solo, 1993), Soinujolearen semea (Il figlio del fisarmonicista, 2006), Nevadako Egunak (I giorni del Nevada, 2013) e Etxeak eta hilobiak (Case e tombe, 2019). Ha anche scritto libri per ragazzi e per bambini, poesie, teatro, saggi. Attualmente è membro della Real Academia de la Lengua Vasca/Euskaltzaindia. Sposato con Asún Garikano, con la quale ha avuto due figlie, vive nella cittadina di Zalduondo, nella provincia basca di Araba/Álava.

Nella sua opera narrativa Atxaga ama intrecciare e combinare con maestria diversi piani temporali, con singolari effetti di straniamento. Un altro elemento ricorrente è l’irruzione repentina di elementi magici e irrazionali in una storia apparentemente realistica. Il paese immaginario di Obaba, simbolo dell’infanzia e dell’origine, è il grande contenitore dei ricordi dello Atxaga bambino e adolescente, dei giochi e delle prime esperienze. Ma a questa sfera personale sempre si sovrappongono temi più ampi: la guerra civile, le rappresaglie sanguinose durante e dopo di essa, i duri anni della repressione franchista, la nascita di ETA durante la dittatura, i conflitti politici e il terrorismo che hanno lacerato la società basca dopo il 1978, la repressione poliziesca, la militarizzazione della regione e infine la gestione della memoria, personale e collettiva, in un tempo presente caratterizzato, nel Paese Basco, da un pronunciato benessere economico e da una crescente “normalizzazione” politica e culturale. Affrontando i temi della lotta politica, della memoria del terrorismo, della lacerazione della società basca nell’ultimo cinquantennio, Atxaga ha saputo trovare una sua cifra, che rifuggendo dalle figurine stereotipate e caricaturali, e dal facile moralismo (tutte caratteristiche presenti invece in Patria di Aramburu, per citare un libro che ha goduto di ampio e immeritato successo) aspira a mostrare la stratificazione dei motivi, soggettivi e oggettivi, della lotta e le ragioni di una dolorosa ricerca di conciliazione, che non si risolva però nell’oblio e nella cancellazione della memoria dei vinti, o nell’anestetizzante stesura di un velo di conformismo.

In questa intervista (curata da Rosana Lakunza in occasione dell’uscita del libro Desde el otro lado – Alfaguara 2022 – una raccolta di racconti in parte già pubblicati in basco) Atxaga prende le mosse dal proprio mestiere di scrittore, per fare alcune considerazioni sull’attualità politica, compressa tra una martellante propaganda e la superficiale adesione ai modelli dominanti. L’articolo è stato pubblicato il 30 maggio 2022 nel quotidiano «Deia», un giornale legato al centrista PNV (Partito Nazionalista Basco), che dal 1979 è ininterrottamente (tranne il periodo 2009-2012) al governo in Euskadi.

 

 

Signor Atxaga, ha mantenuto la sua parola e non ha scritto un nuovo romanzo.

In questo caso, mantenere la parola è stato semplice: comportava più tranquillità e meno lavoro. Mi è risultato molto grato mantenere questa promessa.

Quando disse che non avrebbe scritto altri romanzi, molti dissero che stava annunciando il suo ritiro.

È vero. Forse ci ripenserò e scriverò un altro romanzo, ma non ora. In questo momento mi trovo più a mio agio raccontando storie, scrivendo racconti.

Bernardo, ma è possibile che uno scrittore vada in pensione?

Non credo, è una forma di vita. Non saprei vivere senza prendere appunti nei miei quaderni, senza sedermi davanti al computer e scrivere qualcosa, senza insomma rigirare delle idee nella mia testa. Vivo così e non saprei vivere altrimenti. Inoltre, neanche potrei. Si dice che a una certa età viene il momento di riposare. Riposare? Non ne ho alcun bisogno. Tutto ciò di cui ho bisogno è avere delle buone idee, poter continuare a scrivere e continuare a raccontare delle storie. Inoltre, nel racconto, come dicevo, ho trovato un tipo di scrittura più leggero.

È così duro scrivere un romanzo?

Dipende da come lo si vede. Scrivere un racconto di cinquanta o sessanta pagine richiede un minore sforzo fisico; mentale non saprei, però sicuramente lo sforzo fisico è minore. Mi piacerebbe se tutte le promesse che farò potessero essere di questo genere: non sarebbe difficile mantenerle tutte.

E quando mette il punto finale a un racconto, non le rimane dentro ancora qualcosa da dire?

C’è una frase di Paul Valéry, in cui riferendosi ai propri testi dice che i testi delle poesie si abbandonano, non si finiscono.

Ed è quello che lei fa quando scrive un libro di racconti: abbandonare il testo?

Non so se ciò che dice Valéry è del tutto vero. Già da tempo ho la sensazione che quando si inizia a scrivere c’è come una corrente d’acqua, che le parole iniziano a sgorgare. Il testo ha un suo ritmo proprio e una sua estensione. In questo stesso momento ti potrei dire che una certa idea che mi gira nella testa è adatta per una poesia di cinquanta versi, è adatta a un testo di cinquanta fogli o che invece avrebbe bisogno di un romanzo di cinquecento pagine. Non credo che un genere sia migliore di un altro: nessun genere e nessuna estensione sono migliori di altre.

E chi è che stabilisce quando porre fine al testo?

Lo dicono le muse o il lettore. Certo hai ragione quando dici che alcune cose rimangono fuori dei testi. Però per questo esistono i fogli, esistono le cartelline, e se in questo momento entrassi nella cucina della nostra casa di Zalduondo, vedresti che uno dei due tavoli che sono lì è ingombro di carte con annotazioni. Insomma, ciò che resta fuori se ne va altrove e inizia a essere parte di un altro progetto.

Esistono le muse?

Potremmo dire di sì, che in certi momenti sono lì. Però mai ti dettano ciò che vai scrivendo: questa è un’altra faccenda.

Perché abbandonare il romanzo, un genere che le ha dato tante soddisfazioni?

Non saprei di preciso. È vero che attraverso un momento in cui leggo pochissimi romanzi. Non è il genere che mi attiri di più. Mi interessa di più il saggio, il racconto breve, la poesia. Ultimamente ho tentato di leggere dei romanzi e ammetto che non è stato facile.

In questo libro di racconti lei torna nuovamente a Obaba, non abbandona questo luogo

Solo in parte si tratta di un ritorno. La geografia di Obaba nacque quasi quaranta anni fa nel romanzo Dos hermanos (1985). Ora in questo libro riprendo in mano il luogo e lo applico in questo libro a un altro genere di argomenti.

Che cosa è Obaba?

Obaba è una trascrizione della mia geografia personale. In un determinato ambiente, mettiamo il Paese Basco, non c’è un solo universo: ce ne sono molti. Uno di questi universi è quello che, per me, si trova negli otto chilometri quadrati che circondano il monte Ernio (in Gipuzkoa). Ogni zona è un universo distinto.

Lei usa molto i suoi ricordi…

Attenzione, ho una teoria per ogni argomento. Si parla di memoria e quando lo facciamo sembra quasi che la nostra mente sia divisa in comparti, come una casa. In un posto mettiamo l’intelligenza, in un altro la memoria, in un altro la volontà. Ma tutto ciò che noi siamo è in realtà memoria. Se non esistesse la memoria, non ricorderemmo neanche il nostro nome, il nostro volto. Tutti i giorni dobbiamo lottare contro un cattivo ricordo, e la morte può essere uno di questi cattivi ricordi. I ricordi possono fare molto male.

In questo libro lei parla della morte, una circostanza che ricorre in molte delle sue opere. La maggior parte dell’umanità sfugge a questo fatto. Perché?

Credo che la morte sia un tema comunissimo. La grande differenza consiste nel modo di trattarlo. L’umor nero è un’approssimazione alla morte.

Umore?

Già, almeno fino a quando la realtà non ti prende a schiaffi.

Ha paura della morte?

Come tutti. Solo i cretini non temono la morte. Nell’epica, nella propaganda militarista si elude la paura della morte. Tutto è predisposto a questo fine, nella propaganda, per dissimulare la morte: anche il lessico, perché non si dice “morte” ma si parla di “perdite”. È un brutto segno, quando non si riconosce la morte nella sua realtà. Ci troviamo allora dinnanzi alla peggiore delle propagande.

Nel suo aspetto più estremo, la morte si manifesta ora molto vicino a noi, in Ucraina. Una guerra che, come cittadini, ci colpisce più di altre.

Il colore della pelle fa sì che ci sentiamo più o meno lontani, e nel caso dell’Ucraina ci avvicina. Non è cinismo: è terribile, ma è così. Essere bianchi o neri ci avvicina o ci allontana. Ma questa prossimità viene appoggiata con una propaganda e una pubblicità estreme. Non c’è da stracciarsi le vesti, perché tutto ciò non è niente di nuovo, sempre c’è stata della propaganda, sempre c’è stata esagerazione e manipolazione delle menti. Guarda per esempio, quando morì la principessa Diana del Galles l’accaduto fu nella bocca di tutti e sembrava che fosse morta una ragazza di Zalduondo.

I messaggi sono di solito molto ripetitivi?

Esattamente. Fino a che tutti non li abbiamo assimilati e ciò che è lontano è diventato vicino. Ma lasciando da parte questo tema della prossimità e del colore della pelle, aggiungerei ancora qualcosa: ciò che ora soprattutto importa, è di rendere meno difficile la situazione alle persone che la stanno vivendo. Non dobbiamo teorizzare su ciò che sta accadendo, fino a quando non avremo saputo molto più di ciò che conosciamo in questo momento. Per esempio, nessuno parla del colpo di Stato del 2014 in Ucraina. Per finire direi insomma: “compagni di questo mondo, dobbiamo stare molto attenti e iniziare a proteggerci”.

Dalla Russia?

Ma no! Mi riferivo a proteggerci da tanta informazione, che generalmente è pubblicità e propaganda. Penso che questi siano gli insegnamenti che dobbiamo tenere presenti. Tra le tante cose che si possono pensare di quanto sta accadendo, una di esse è che mi sembra osceno che l’Europa approfitti di queste circostanze – la guerra, i morti, i bambini – per darsi un po’ di coraggio. Per dire che “noi siamo così”. Sembra la storia di sempre, la storia militarista del “noi” e “loro”.

E come è questo “noi” che viene usato dall’Europa?

Non possiamo dimenticare la storia dell’Europa del ventesimo secolo. Basta pensare a ciò che fece il Belgio in Congo, dove morirono più di dieci milioni di persone; basti pensare al Mali. Ciò che sta accadendo è osceno.

Vedo che tra le sue aspirazioni non è mai rientrata quella di diventare un politico.

No. In questo momento la politica è tanto strettamente unita alla propaganda, che non so cosa potrebbe accadere. Ci sono momenti nella storia in cui la politica diventa estremamente violenta. No, tra le mie aspirazioni non c’è mai stata quella di fare il politico. Inoltre non sono certo un uomo capace di dire e disdire. Essere un politico sarebbe per me qualcosa di terribile. Direi di fermarci al mestiere di scrittore, una professione che mi piace tantissimo. Mi piace parlare con i giornalisti dei libri che scrivo, mi piace molto che i lettori mi parlino delle loro reazioni, che mi comunichino la loro opinione su ciò che ho fatto… La mia è una vita molto semplice, e se facessi il politico cesserebbe di esserlo.

Se le avessero detto, quando cominciò…

… che staremmo qui a parlare su tutto questo, che sono trascorsi più di cinquanta anni e che continuo a scrivere, ti direi di no: non l’ho mai pensato, e proprio oggi ne parlavo con un amico: da bambino avevo una grande passione per la scrittura e la letteratura, ma è impossibile che da giovani si possa pensare a ciò che si potrà ottenere nella vita.

 

 

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