IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Stato autonomista, Maastricht, regionalismo differenziato

Le autonomie territoriali, specie dopo l’introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione, risultano sempre più funzionalizzate all’indirizzo politico nazionale negoziato con le istituzioni di Bruxelles. Il regionalismo differenziato è davvero una risposta a questa deriva?

Secondo il nostro Costituente, i motori della democratizzazione dello Stato, della sua legittimazione societaria, dovevano essere i partiti, organi di raccordo con la società civile e di messa in forma dei diversi interessi della comunità (e certo non come gli odierni partiti leaderistici) e, allo stesso tempo, le autonomie territoriali (regionali e locali) considerate quali parti ineliminabili dell’intero, dello Stato-ordinamento.

Prima che i vincoli economici e finanziari europei divenissero un fattore condizionante irresistibile, vi è stata una fase storica in cui si è tentato di dare attuazione effettiva alla Carta del 1948, attraverso letture evolutive del modello originario, con riferimento proprio al sistema delle autonomie. È, in particolare, la straordinaria spinta alla partecipazione popolare alla vita pubblica che, a partire dagli anni Sessanta, attraversa trasversalmente la società italiana, a riattualizzare l’idea che il processo di democratizzazione passasse anche per un vigoroso rilancio dell’autonomismo, quale fattore di integrazione della società civile nello Stato, della sua legittimazione societaria (Cantaro 2019).

Un capitolo dimenticato: il Sistema sanitario nazionale

Non andrebbe dimenticato un capitolo importante del protagonismo delle autonomie locali: l’istituzione nel 1978 del Sistema sanitario nazionale in forme persino più avanzate di quelle prefigurate dalla Carta costituzionale (che stabiliva cure gratuite solo per gli “indigenti”). Un sistema sanitario incentrato sui principi di universalità delle prestazioni per tutti i cittadini, di integrazione territoriale dei servizi di prevenzione, cura e riabilitazione e finanziato attraverso la leva solidaristica nazionale del fisco. Un sistema che teneva assieme l’uniformità di tutela del diritto alla salute con un’organizzazione capillare dei servizi alla persona, a partire dal ruolo di impulso affidato alle unità sanitarie locali (USL). È questo un momento alto dell’autonomia territoriale in senso ascendente, della “Repubblica delle autonomie”; di uno Stato riformato dal basso, grazie ad un inedito protagonismo delle comunità radicate nei territori e dei loro enti esponenziali.

La spinta in direzione della valorizzazione delle autonomie territoriali non si arresta neppure dopo l’ingresso del nostro paese nell’UEM, quando attraverso i decreti “Bassanini” si prova ad implementare un “federalismo amministrativo a costituzione invariata”: il conferimento di funzioni e compiti amministrativi, unitamente a risorse umane, materiali e finanziarie, dallo Stato a Regioni ed enti locali.

Certo è anche un momento storico in cui i vincoli di bilancio del Trattato di Maastricht, sensibilmente rafforzati dal patto di stabilità (e crescita), impongono al governo italiano di garantire il rispetto delle regole in materia di deficit e debito pubblico da parte di tutte le pubbliche amministrazioni ad ogni livello di governo territoriale.

Il compromesso tra autonomia (finanziaria) e responsabilità (fiscale)

In questa fase, tuttavia, le ragioni dell’autonomia territoriale non risultano ancora interamente assorbite dalle ragioni della stabilità finanziaria. Il patto di stabilità interno, infatti, pur imponendo a regioni ed enti locali l’obbligo di ridurre il proprio indebitamento in rapporto al PIL, escludeva dal computo del disavanzo le spese di investimento, in linea con la “golden rule” inserita nell’articolo 119, comma 6, dopo la revisione del titolo V della Costituzione.

La riforma costituzionale in parola, al di là delle contingenti motivazioni “politiciste” che ne avevano favorito l’approvazione, può considerarsi un “compromesso” tra l’esigenza di rispettare i vincoli di bilancio della costituzione finanziaria europea e l’idea che la responsabilizzazione delle amministrazioni territoriali per il contenimento della spesa pubblica debba essere “compensata” dal riconoscimento di una maggiore autonomia anche sul piano finanziario.

Un bilanciamento tra autonomia (finanziaria) e responsabilità (fiscale) che risponde altresì alla ridefinizione del ruolo dello Stato nazionale, dopo il Trattato di Maastricht. Lo Stato nazionale non è più in grado di stimolare la crescita economica interna attraverso le tradizionali politiche keynesiane espansive gestite dal centro a causa dei vincoli del diritto europeo alla sovranità monetaria e fiscale. D’altro canto, nella costituzione dell’UEM il principio concorrenziale è il motore portante anche delle relazioni tra gli Stati membri chiamati a competere per conseguire i capitali delle grandi imprese multinazionali (concorrenza fiscale) e nuove fette di mercato attraverso lo smantellamento delle legislazioni laburistiche e sindacali (dumping sociale).

La riforma costituzionale del Titolo V si proponeva di riconoscere maggiore autonomia finanziaria a regioni, province e comuni anche con lo scopo di incentivare la competizione tra gli stessi. Nella convinzione che un modello di autonomia competitiva avrebbe indotto una crescita complessiva del paese, tale da compensare gli effetti recessivi dei vincoli sovranazionali di bilancio.

 L’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione

L’introduzione del principio dell’equilibrio di bilancio nell’ordinamento costituzionale è stata preceduta da un’irrituale lettera della Banca centrale europea nell’agosto 2011 con la quale, tra le altre cose, si condizionava l’acquisto dei titoli di debito pubblico italiano (in quel momento a rischio di default) all’impegno del governo “ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le province)”. L’impegno è stato parzialmente adempiuto, sebbene al termine di un percorso tortuoso e contradditorio che si è concluso con la legge “Delrio” (n. 56/2014)  che ha inquadrato le province e le città metropolitane come “enti territoriali di area vasta”, svuotandoli di funzioni e risorse (Salerno, 2015).

La nuova costituzione finanziaria delle autonomie territoriali si articola intorno a tre principi (art. 119, comma 1 e 6): pareggio di bilancio; concorso all’osservanza dei vincoli economico-finanziari dell’Unione; ricorso all’indebitamento condizionato alla sussistenza di una situazione d’equilibrio complessivo all’interno della regione. La dottrina costituzionale più avvertita ha denunciato le crescenti asimmetrie istituzionalizzate nel nuovo disegno dei rapporti finanziari tra centro e periferia, in violazione del principio di equiordinazione tra gli enti costitutivi della Repubblica, principio reso esplicito nella nuova formulazione dell’art. 114 Cost.

Sono, dunque, andate deluse le aspettative suscitate dalla riforma costituzionale del 2001. La trasformazione, grazie all’apporto della giurisprudenza costituzionale, del “coordinamento finanziario” e della “tutela della concorrenza” in competenze legislative “onnivore” ha riscritto la ripartizione delle competenze delineata con la riforma del Titolo V. Inoltre, la filosofia dei “patti di stabilità”, ha posto l’autonomia finanziaria di entrata e spesa di regioni ed enti locali sotto la tutela dell’esecutivo, primo responsabile innanzi alle istituzioni comunitarie per il mantenimento dell’equilibrio finanziario della Repubblica nel suo insieme.

Sul piano dell’autonomia di spesa, la legislazione ha eroso le risorse attribuite al sistema regionale e locale (privilegiando la strada dei tagli lineari). Si sono così attratte in favore dello Stato le decisioni fondamentali non solo sul quantum da destinare ai singoli servizi, ma anche in ordine all’assetto dei livelli di governo territoriale (si pensi all’intervento sul numero dei consiglieri regionali, alla soppressione sostanziale delle province, all’obbligo dell’esercizio associato di funzioni e servizi da parte dei comuni più piccoli).

Sul piano dell’autonomia di entrata, la legislazione statale ha frequentemente previsto incrementi automatici della pressione fiscale regionale e locale, nel caso del mancato rispetto degli obiettivi di finanza pubblica o per compensare le regioni e gli enti locali dei tagli subiti. Si è così contraddetto l’intento originario di coniugare autonomia finanziaria e responsabilità del sistema politico territoriale per la gestione delle risorse pubbliche affidate.

L’autonomia “funzionalizzata”

In definitiva, le autonomie territoriali sembrano godere di una autonomia prevalentemente di natura esecutiva, nella misura in cui gran parte delle attribuzioni spettanti alle regioni e agli enti locali sono funzionalizzate all’indirizzo politico-finanziario dello Stato centrale “negoziato” con le istituzioni di Bruxelles.

Una deriva che trova conferma nel PNRR, adottato dall’Italia nel quadro del NGEU. Il PNRR degrada gli enti locali a meri “soggetti attuatori” degli interventi e degli investimenti, individuando la titolarità degli stessi esclusivamente in capo alle amministrazioni centrali dello Stato. L’aver ipotizzato che l’intera macchina degli interventi potesse funzionare soltanto se diretta e comandata dal centro confligge con l’assetto del nostro ordinamento repubblicano, un ordinamento, come si è cercato di mostrare, permeato dal decentramento istituzionale e territoriale. Per di più tale strategia si è rilevata anche profondamente inefficiente, mettendo a repentaglio il rispetto delle condizionalità (i target e i milestones) sottese al NGEU e, di conseguenza, l’erogazione dei vitali finanziamenti per il rilancio della nostra economia (Salmoni, 2021).

Se le amministrazioni centrali sono largamente svuotate di risorse, competenze e capacità, dopo anni di austerità e tagli lineari, immaginare che l’intero processo potesse svolgersi in modo meccanico, come se vi fosse una “intendenza” che dovesse seguire il comando centrale, si è rilevato improvvido, in assenza di un rafforzamento delle capacità progettuali delle amministrazioni territoriali (specie quelle dei comuni più piccoli e di quelli situati nel Mezzogiorno).

Regionalismo differenziato e uniformità dei diritti fondamentali

In questo quadro, la recente richiesta di alcune regioni ordinarie (per l’esattezza nove) di conseguire “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, secondo lo schema delineato dall’art. 116, comma 3, Cost., può essere letta anche una forma di reazione al processo di ri-centralizzazione delle competenze legislative, amministrative e finanziarie dell’ultimo decennio e, allo stesso tempo, alla mancata attuazione del “federalismo fiscale”.

Il regionalismo differenziato in mancanza di garanzie sulla perequazione delle risorse fiscali e delle dotazioni infrastrutturali è destinato ad accrescere i divari territoriali e a mettere a repentaglio l’uniformità delle condizioni di vita su tutto il territorio nazionale. La formula costituzionale di “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e politici” è riduttiva, poiché richiama la mera eguaglianza in senso formale delle prestazioni, traducendosi in una cristallizzazione dei divari territoriali esistenti. Mentre l’uniformità delle condizioni di vita attiene ad una applicazione dell’eguaglianza in senso sostanziale, come principio trasformatore dello status quo che richiede allo Stato l’adozione di politiche pubbliche non di mera compensazione degli effetti negativi del mercato, ma di vera redistribuzione della ricchezza (Guazzarotti, 2019).

Infine, il concetto di livello essenziale delle prestazioni richiede non solo la determinazione dei livelli quantitativi (il quanto) ma anche la definizione della struttura organizzativa che assicura l’erogazione delle prestazioni (il come). Il regionalismo differenziato, conferendo a certe regioni la competenza esclusiva su materie quali l’organizzazione sanitaria e quella scolastica, potrebbe creare le condizioni per la formazione di venti sistemi sanitari, venti sistemi scolastici, prosciugando in radice lo spazio deliberativo riconosciuto in materia allo Stato.

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