IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Trump e la grande “deportazione”

«Finirò il muro e ci sarà la più grande operazione di espulsione (deportation), nella storia del nostro Paese». Trump docet. Se la politica o più verosimilmente il suo simulacro abbatte un altro tabù, con la fondata aspettativa fra l’altro che ciò produca consensi, allora stiamo entrando davvero in terra ignota o più banalmente riprecipitando agli inferi.

I “professionisti dell’informazione” dopo decenni trascorsi ad occuparsi solo di «chiacchiera, curiosità ed equivoco», si dannano l’anima per quello che sta accadendo nella società statunitense e già si preannuncia in quella europea. Si tratta in realtà di processi sostanzialmente analoghi in corso da tempo, solo con un differente gradiente di intensità, che vengono viceversa interpretati in modo infantile come “la calata dei Lanzichenecchi”.

Mai come in questo tumultuoso presente ci possono venire in soccorso due grandi filoni di pensiero che hanno preso avvio da quelli che Ricoeur appellava “i maestri del sospetto”, perché capaci di andare oltre le apparenze e scandagliare livelli di realtà più profondi e per questo più concreti. Mai come in questo caso la buona vecchia critica dell’economia politica inaugurata da Marx ci può tornare utile, per una disamina dei processi materiali in atto, assieme alla psicoanalisi fondata da Freud (interpellando magari i suoi esponenti più eterodossi). Possono fornirci più di una chiave interpretativa per provare a sciogliere l’apparente inestricabile oscurità entro cui si dibatterebbero le masse contemporanee.

Ebbene, quello che stiamo registrando sul piano storico empirico, nelle dimensioni socioeconomiche e antropologiche, sono le conseguenze devastanti dei maltrattamenti subiti dalle società occidentali a seguito della rivoluzione neoliberista realizzatasi a metà degli anni ‘70 del secolo scorso.  Per compendiarla basti richiamare l’aforisma lapidario pronunciato dal più grande economista del ‘900, J.M.Keynes, a suo modo un continuatore di Marx ma non esattamente un pericoloso bolscevico: «Quando l’accumulazione di capitale di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose vadano male». Quel casinò ha assunto nel presente i tratti distopici di un mercato finanziario mondiale accentrato e concentrato in poche mani apparentemente avulso dall’economia reale.

Non ci si può illudere che una “società del rischio” (U. Beck) di queste dimensioni possa risparmiare antropologie dei singoli e soprattutto psiche collettiva, che nella realtà è stata sopraffatta e devastata. Società con un mercato si sono via via ridotte ad essere integralmente di mercato, secondo le analisi condotte da un altro pericoloso estremista, Karl Polanyi ne La grande Trasformazione (1944). Da allora, dopo la parentesi dei Trenta gloriosi (1945-1975), la logica aziendalista e dell’utilità è penetrata ovunque a dettare legge e corrodere il legame sociale. La mercificazione sistematica e contestuale di lavoro, moneta ed ecosistema, che sempre Polanyi ravvisa, ha smosso così tanto e così in profondità la psicologia dei popoli che interpretazioni ordinarie non bastano più e necessitano di un approfondimento ulteriore tramite studi poco convenzionali e apertamente eterodossi.

Allora, per ritornare agli annunci trumpiani, con cui si è aperto, sulla deportation prossima ventura – che è bene sempre tradurre con “espulsione”, “allontanamento” anziché il fuorviante “deportazione” –, a nostro avviso non è rilevante come invece pare esserlo per buona parte degli opinionisti se agli annunci seguiranno poi i fatti.  Conta che quegli annunci siano stati già formulati. Ciò significa che in quella enorme convention repubblicana, svoltasi a Milwaukee, ma soprattutto fuori, c’erano orecchie pronte ad ascoltare: una folla solitaria, fatta per lo più di individui sempre più isolati e impoveriti, che se le aspettava quelle affermazioni, le invocava quasi. Le espulsioni di massa sono la priorità.

Ora, al netto della rilevanza del fenomeno dell’immigrazione clandestina che non pare essere in discussione; anzi si è aggravato enormemente a seguito dei processi di globalizzazione selvaggia a trazione occidentale dopo l’implosione dell’URSS. Ma ciò che colpisce è la ricetta proposta che pare fare scandalo, per il razzismo di cui trasuda, solo presso una ristretta cerchia di intellettuali attempati e non certo in quell’ America profonda, stando perlomeno ai sondaggi commissionati in loco in tempo reale.

Ecco che siamo arrivati al punto di snodo decisivo. La società occidentale devitalizzata per i trattamenti neoliberisti subiti in questi decenni pare da ultimo aver quasi completamente smarrito quei tratti di umanità che in un passato non remoto, come testimoniato anche dalla filmografia di Ken Loach, parevano caratterizzarne comunque le reazioni. Quello che fa propriamente strappare i capelli e gridare allo scandalo il circo mediatico, paventando il ritorno imminente dei barbari. Che magari è un pericolo reale, ma va spiegato nella sua genealogia. Che cosa è potuto accadere nel frattempo che ha contribuito ad offuscare la mente e soprattutto «appestare l’anima» (Reich) dei ceti popolari? In prima battuta, l’intensificazione e l’estensione dei processi di sfruttamento e competizione tra autoctoni e immigrati irregolari sapientemente miscelata dal blocco oligarchico dominante per alimentare una concorrenza orizzontale in luogo di un conflitto verticale servo-signore. In virtù poi di quegli stessi processi di spersonalizzazione e reificazione integrale, che l’uso capitalistico delle tecnologie ha implementato, la risposta che si articola è nei termini elementari di un ostacolo da abbattere, di un ingombro da rimuovere; con le parole acclamate di Trump: «Siamo diventati una discarica per il mondo, che ride di noi».

E qui dovrebbe esser messo un punto fermo inemendabile: che umani non si nasce ma si diventa; detto altrimenti, che l’umanizzazione dell’essere umano non è un dato di natura né un risultato acquisito una volta per sempre, ma l’esito fragile di un processo culturale esposto a mille insidie che se non costantemente rilanciato mediante l’educazione, il lavoro e le pratiche del riconoscimento, da curare a partire dalle aule scolastiche, si disperde e si rovescia nel suo esatto contrario. L’umano può a certe condizioni e in certi contesti sostenere un livello di frustrazioni, ma non oltre una certa soglia e soprattutto non per un tempo illimitato. Altrimenti è inevitabile subentri il rancore e da ultimo gli odi. “Passioni tristi” che ci fanno assumere una postura persecutoria che ci induce alla ricerca ossessiva del capro espiatorio. E una volta identificato o più spesso cinicamente additato da chi sta in alto, è inevitabile si proiettino su di esso le peggiori cose, fino ad arrivare a forme estreme e tragiche di «sadismo collettivo». E la storia del passato ed anche la cronaca odierna è piena di esempi del genere, che stanno pericolosamente fermentando.

Ecco, quel temine “deportazione”, con tutto l’impianto concettuale e simbolico che si porta dietro, fatto risuonare nella convention repubblicana fra il tripudio generale senza creare scandalo alcuno, da chi tra qualche mese con ogni probabilità siederà alla Casa Bianca, lascia attoniti. Attesta che una ulteriore soglia che si reputava inviolabile è stata invece varcata, in un crescendo di disumanizzazione, che trova un suo corrispettivo in quel quotidiano massacro di innocenti in terra di Palestina, che si sta consumando nella sostanziale indifferenza dei governi occidentali e nel silenzio assordante dei media dominanti.

La salvezza non può che venire dalla resistenza e poi dalla testimonianza delle stesse vittime, come è sempre avvenuto nella storia, se sopravvissute al massacro e alle stragi; naturalmente ciò si può fermare o prevenire se dei pezzi crescenti di establishment si staccano dal troncone ufficiale principale e decidono di giocare una partita in proprio. Forme di “diserzione” sul piano individuale si registrano qua e là nelle redazioni e in alcune riviste ma perlopiù si riversano in instant book che ne recano testimonianza. Ingoiati dal buco nero dell’industria culturale. Viceversa, devono riguardare le redazione delle principali testate giornalistiche ed emittenti televisive e soprattutto   devono essere organizzate e non condotte da “lupi solitari”. Quei pochi soggetti collettivi ancora superstiti: partiti, sindacato, associazioni e movimenti dovrebbero incoraggiare dal basso, se attraversati al proprio interno da forme di scissione/rifondazione, processi di dissenso crescente in una circolarità basso-alto. Solo così si sarà in grado di riaprire una prospettiva di cambiamento ed emancipazione. Senza che vi sia una rivolta salutare anche all’interno delle élite, frutto del risveglio di coscienze da troppo tempo sopite, risulta difficile immaginare un futuro migliore anzi più semplicemente un futuro.

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