1. Racconta Leonardo Sciascia che, una notte, il sarto Calogero Schirò sognò Stalin. Era in una bara di vetro, le mani secche e dure. Accostò il viso al vetro per scorgerlo meglio, quando sulla bara vide posarsi una grande mano: era la mano di Stalin, era vivo e diceva: «Meglio di così non potevano ammazzarmi; due volte…».
Si svegliò male. Gli era già capitato di sognarlo. La prima volta all’indomani del patto Ribbentrop-Molotov: Stalin gli era apparso per tranquillizzarlo, dicendogli che si trattava di un trucco per poter riuscire, in futuro, a schiacciare il serpe tedesco. La seconda volta era successo nel bel mezzo dell’operazione Barbarossa: c’era molta neve, betulle che fischiavano per il vento, gran formicolare di soldati, e Stalin gli si era materializzato come in dissolvenza, il faccione arguto e sorridente. «Lasciateli correre – diceva – questa la corsa del puledro è», e tirava sbuffi soddisfatti con la pipa. Poi era successo ancora all’alba del 18 aprile 1948, quando Stalin gli aveva anticipato la sconfitta del Blocco del popolo nello scontro elettorale con la Dc: «Calì, in queste elezioni abbiamo da perdere, non c’è niente da fare, i preti hanno la prima mano. Oggi perderemo, la gente non è ancora matura, ma vedrai se non ci arriveremo». Ma quell’ultimo sogno non dava più speranza: l’Espresso aveva appena pubblicato il rapporto Chruščëv, i maggiorenti del partito a Regalpetra gli avevano confermato che al novantanove per cento era tutto vero, che il movimento comunista non si era accorto che portava in grembo un tumore quanto la testa di un bambino, che insomma, sì, c’erano state molte grandi cose ma anche molti grandi errori.
Ne discusse il mattino dopo con l’arciprete del paese. Gli ricordò di don Pepè Milisenda e del notaio Caruso: persone perbene, eppure in vecchiaia erano diventate un po’ strambe. Don Pepè era uscito nudo per strada, il notaio Caruso aveva tagliato le trecce alla cameriera che non voleva andare a letto con lui e voleva perfino di scannare i figli. Ma nessuno gli aveva negato la compassione che si deve ai morti. Perché a Stalin no?
2. A noi non è stato dato di sognare: non di Stalin, e nemmeno di Calogero Schirò. In quanto compaesani di Sciascia, ce lo possiamo soltanto immaginare seduto a cucire nella sua bottega, in una traversa del corso principale, la foto di Stalin ritagliata e incorniciata sulla parete: novello Joseph Dietzgen e come lui filosofo proletario autodidatta. Ma se non Stalin, certo lo «stalinismo»torna continuamente a turbare i nostri sonni: perché non c’è ancora che un nome al posto di un concetto che possa finalmente render comprensibile ai comunisti la loro stessa storia.
Nessun comunista ragionevole, in effetti, può negare che il movimento operaio ha fatto la storia del XX secolo all’insegna di una linea politica e di pratiche staliniste. E tutti devono ammettere che la denuncia del «culto della personalità» fu un escamotage per occultare che di tutto quanto era successo dall’indomani dell’Ottobre nessuno sapeva darsi una spiegazione. Si trattava – notò a ragione Louis Althusser già nei primi anni ’60 del secolo scorso – di uno pseudoconcetto, che spostava nel campo delle sovrastrutture gli «abusi», gli «errori» e naturalmente i crimini, senza però darsi pena d’indagare le loro condizioni. Dimenticando che una spiegazione storica in tanto può rivendicare il titolo di «marxista» in quanto riporti l’agire delle circostanze sovrastrutturali sulla base dei rapporti di produzione.
È certo frutto di un’astuzia della storia se, a settant’anni dalla morte di Stalin, questa «leggenda nera»è diventata un luogo comune della storiografia borghese, che ha bollato di «stalinismo» tutto ciò che è venuto dall’esperienza dell’Unione Sovietica, inclusi il governo pubblico dell’economia, il partito di massa, i diritti sociali di cittadinanza e la stessa piena occupazione. Una situazione del genere, infatti, costringe inevitabilmente i comunisti a volgersi indietro e a riprendere i fili del problema lì dove essi hanno cominciato ad aggrovigliarsi: più precisamente, in quel «punto zero» della storia dei rapporti di produzione socialisti in cui si è avuto l’incontro tra masse organizzate in un partito, da un lato, e mezzi di produzione e forza-lavoro lasciati «liberi» dalla crisi della riproduzione capitalistica, dall’altro. Un «incontro» affatto casuale: se si vuole, altrettanto «casuale» di quello tra i proprietari di denaro e di mezzi di produzione e i proletari «liberi», venditori della propria forza-lavoro, che Marx ci ha spiegato essere all’origine della storia del modo di produzione capitalistico. Ma al pari di quello destinato a «far presa» e a durare: a «fare epoca», si potrebbe dire con espressione gramsciana. Non certo per una qualche «teleologia» immanente allo sviluppo storico, che dissimulerebbe l’ennesima teologia, ma semplicemente perché i rapporti di produzione che ne sono scaturiti hanno dato luogo ad un sistema economico «vitale», nel limitato eppure preciso senso che gli dava l’economista (e comunista) Piero Sraffa: cioè capace di generare un prodotto idoneo a reintegrare i mezzi di produzione consumati nel corso del processo di produzione ed eventualmente a generare un sovrappiù, da destinare all’allargamento della produzione o all’incremento del consumo.
Vorremmo suggerire che, preso nel suo punto zero, lo «stalinismo» (o la «deviazione staliniana», per dirla ancora con Althusser) è nient’altro che questo. Lo confermò lo stesso Stalin ad una delegazione operaia americana che lo intervistò nel 1927: «da noi il partito dirige il governo», disse, non senza precisare che si trattava di una situazione antitetica rispetto a quella dei paesi capitalistici, dove – ad onta dell’esistenza di grandi parlamenti democratici – i governi rimanevano sotto il ferreo controllo delle istituzioni finanziarie. Ma soprattutto, preso in questa forma «pura», lo stalinismo ha avuto ampiamente corso in quell’Occidente che per insufficiente approssimazione abbiamo continuato a chiamare «capitalistico», nonostante la direzione politica dei processi produttivi, la repressione delle pretese allocative del capitale finanziario e soprattutto la strenua resistenza delle classi proprietarie alla progressiva e inesorabile eutanasia dei rentiers (una resistenza che sfociò nella «guerra civile mondiale» che si combatté ovunque negli anni ’70 del secolo scorso) rappresentassero potenti indizi in senso contrario.
L’unico esito possibile dell’Ottobre? Lo ripetiamo ancora una volta: non è proprio il caso di reintrodurre teologie mascherate di teleologie. Ci basta retrospettivamente prendere atto che quell’«incontro» ha conferito realtà di forma sistemica a elementi – partiti, apparati pubblici, mezzi di produzione, lavoratori – che dopo la dissoluzione della razionalità ordinatrice del modo di produzione capitalistico erano rimasti per lunghissimi e terribili anni nel limbo di un’esistenza fantasmatica, segnata da crisi economiche, disoccupazione di massa e guerre mondiali. Per il resto, ricordiamo che stiamo parlando anche in questo caso di rapporti di produzione: per dirla con Marx, «determinati, necessari, indipendenti dalla volontà» degli individui che vi sono presi e, al pari di quelli capitalistici, «imposti» dalla struttura dei processi di produzione e circolazione e dall’organizzazione del lavoro che le è consustanziale. Si spiega così, per fare solo un esempio, che il potere sovietico, dopo aver instaurato il «controllo operaio» delle fabbriche, dovette quasi subito sovrapporre a quell’embrione di «proprietà sociale» dei mezzi di produzione la direzione pianificata dei processi produttivi:una volta che si fosse permesso a ciascuna fabbrica di relazionarsi con le altre e con i consumatori finali per via esclusivamente monetaria, l’impiego dei mezzi di produzione sarebbe risultato nuovamente asservito alle esigenze di valorizzazione del capitale. Marx lo aveva previsto con largo anticipo in un passo della Guerra civile in Francia (1871), che certi rumorosi apostoli dei«beni comuni» farebbero bene a rileggere: «se la produzione cooperativa non deve restare una finzione e un inganno, se essa deve subentrare al sistema capitalista», allora le «cooperative unite devono regolare la produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro controllo e ponendo fine all’anarchia costante e alle convulsioni periodiche che sono la sorte inevitabile della produzione capitalistica».
3. Non possiamo dirne compiutamente qui, ma siamo convinti che solo a partire da questa «forma pura» dello stalinismo si può riprendere il filo di un racconto capace di ridare ai comunisti il senso del loro passato, senza il quale – come s’è ampiamente visto in questi anni – non c’è nemmeno futuro. Ostinarsi ad obiettare che nei paesi sedicenti socialisti non era stato costruito nulla di realmente «socialista» e che si sarebbe trattato semplicemente di una variante specifica del funzionamento del modo di produzione capitalistico equivale a dimenticare le dure repliche della storia dell’ultimo trentennio, in cui siamo tornati drammaticamente a sperimentare cosa comporti – in termini di violenza delle fluttuazioni economiche, peggioramento della distribuzione del reddito a danno dei salari e aumento della disoccupazione di massa – l’assenza di un’autorità centrale (non onnipotente, men che meno onnisciente) che semplicemente cerchi di organizzare la produzione, la distribuzione, lo scambio e il consumo senza vincolarli all’obiettivo della valorizzazione del capitale.
Ma soprattutto è nell’ambito dei conflitti generatisi per l’apparire e il successivo consolidarsi di questa «forma pura» che si deve collocare la figura stessa di Stalin. Il quale è stato in ultima analisi un prodotto, non certo l’«autore», dei processi storici del tempo in cui ha vissuto. Certo, con un ruolo decisionale considerevole, ma che esercitò rimanendo nell’ambito di opinioni assai diffuse tra gli stati dirigenti del partito nonché in buona parte della popolazione sovietica. Opinioni che, a loro volta, trovavano alimento nello stato dei «rapporti di forza» esistenti sia all’interno della formazione sociale sovietica che in quelle che rimasero più o meno direttamente coinvolte dalla sua evoluzione: perfino quando si trattava di processi sommari, deportazioni ed esecuzioni di massa, cioè degli aspetti più truci della guerra civile innescata da quella che, con una lungimirante quanto terribile espressione, il trockista Evgenij A. Preobraženskijaveva prefigurato come «l’accumulazione originaria socialista».
Prendendo a prestito la terminologia psicoanalitica, si potrebbe dire che in Stalin si personificò – e per motivi che sono ancora tutti da scrivere – il meccanismo dell’ordine simbolico del «grande Altro» in quel tempo in cui la costituzione materiale della società sovietica virava in direzione della pianificazione. E in effetti, ricordando il giudizio iniziale di quanti fra i suoi compagni non riuscirono a trovare in Stalin alcun tratto distintivo degno di nota, Edward H. Carr notò che si trattava di un fatto assolutamente comprensibile: «pochi grandi uomini sono stati così visibilmente come Stalin il prodotto del tempo e del luogo in cui vissero», un tempo in cui – come avrebbe poi ricordato lo scrittore (e stalinista) Konstantin Simonov – «obbedienza e coscienziosità, disponibilità a superare qualsiasi difficoltà, l’obbligo a dire sì o no, ad amare in modo intenso e a odiare nello stesso modo» erano i valori all’insegna dei quali si formavano le nuove generazioni.
Si capisce allora come Charles Bettelheim, in quell’incompiuto monumento alle contraddizioni dell’Ottobre che furono e tuttora sono Le lotte di classe in Urss (1974-1977) abbia potuto scrivere che Stalin si limitò ad esprimere in modo sistematico i punti di vista di tutto il gruppo dirigente del partito bolscevico, inclusi i suoi oppositori, e perfino quando gli occorse (letteralmente) di passar sopra le loro teste non fece altro che trarre le conseguenze ultime di quei punti di vista: caso mai, è proprio questa «volontà di andare fino in fondo» che apparentemente pose Stalin «al di sopra» del partito e fece apparire come «sue» concezioni che (salvo rare eccezioni) non erano affatto sue personali.
Si deve piuttosto rimarcare che il limite degli oppositori di Stalin consistette proprio nel rifiuto delle necessarie implicazioni di un discorso che pure, nelle sue premesse, condividevano. La supremazia della pianificazione sulle varie forme di autorganizzazione economica, la necessità di sciogliere l’ambiguità nascosta dal consenso contadino alla rivoluzione socialista e la disponibilità a farlo anche con l’uso della forza erano, alla morte di Lenin, convincimenti comuni a tutto il gruppo dirigente bolscevico, benché se ne traessero conseguenze divergenti quanto al «che fare». E se nel corso della famosa discussione sulla «rivoluzione permanente» e il «socialismo in un solo paese» (1924-1926) Stalin riuscì a sbaragliare tanto la «destra» di Bucharin quanto la «sinistra» di Trockij fu proprio e solo per aver risolto l’equazione lasciata in eredità da Lenin nell’unico modo possibile. Era questa, in effetti, la peculiarità della logica staliniana, come osservò Franz Marek: «semplice, cogente e convincente, una volta che si fosse accettata la premessa».
Tanto drammaticamente semplice e cogente era la conclusione che i suoi oppositori non riuscirono mai a concepire una credibile alternativa e si ridussero semplicemente a odiarlo, accusandolo di «degenerazione» e «tradimento» e finendo così per subire passivamente quella stessa «autorità eccezionale» (giusta ancora l’espressione di Bettelheim) che egli era in grado di conferire alle decisioni cui dava il suo appoggio. La vicenda del «testamento di Lenin», sotto questo profilo, è esemplare: per ben due volte, tra il 1924 e il 1925, Stalin rimise il mandato di segretario generale del partito nelle mani del Comitato centrale, dopo che era stata letta la famosa lettera in cui Lenin, ormai alla fine, lo definiva «rozzo» e manifestava perplessità sulla sua capacità di gestire in modo non burocratico il considerevole potere conferitogli da quella carica, ed entrambe le volte il Comitato centrale – inclusi Zinov′ev, Kamenev e, in un caso, Trockij – respinse le sue dimissioni.
«Queste azioni coatte in due tempi, in cui il primo tempo è annullato dal secondo, si verificano tipicamente nella nevrosi ossessiva», aveva spiegato alcuni anni prima Freud nell’Uomo dei topi (1909): e in effetti il comportamento degli oppositori di Stalin sembra riprodurre quello stesso conflitto fra opposti sentimenti che produce la paralisi della volontà dei nevrotici, presi in trappola da un «odio» che non è riuscito a spegnere l’«amore» ma l’ha solo respinto nell’inconscio, dove pure, al riparo dall’azione demolitrice della coscienza, esso può vivere e perfino accrescersi. Del resto, se appena si ricorda quanto la strategia della collettivizzazione forzata e della «dekulakizzazione» dovesse alle teoria dell’«accumulazione originaria socialista» di Preobraženskij e quanto il convincimento circa la possibilità di costruire «il socialismo in un solo paese» fosse debitore delle critiche buchariniane alla versione trockista della «rivoluzione permanente», si può facilmente comprendere come il dubbio fosse la cifra prevalente del loro atteggiamento: dal conflitto tra due sentimenti così radicalmente antitetici non poteva che venire un freno a qualsiasi prospettiva d’azione.
In questo senso Stalin diventò, letteralmente, la loro ossessione. Il «pensiero» di organizzare un’opposizione capace di scalzarlo dal potere finì per tener luogo di un’azione politicamente idonea allo scopo, e ciò – si badi bene – ben prima che si esaurissero i suoi margini di possibilità: per quanto la storiografia sia ancora divisa sul momento in cui il potere del gruppo dirigente staliniano pervenne ad una relativa stabilizzazione, sembra davvero arduo retrodatarlo (come taluni hanno proposto) addirittura al 1925, quando i giochi erano ancora lungi dall’essersi conclusi. Basterà solo ricordare che, recatosi in Unione Sovietica giusto in quell’anno, Keynes nemmeno menzionò Stalin nel resoconto del viaggio che pubblicò per i tipi della Hogarth Press, la casa editrice dei suoi grandi amici Leonard e Virginia Woolf.
4. Del resto, bisognerà una volta buona pur intendersi su cosa sia una «tirannide». In uno scritto giustamente celebre, Alexandre Kojève irrise quanti supponevano trattarsi di un potere personale basato sul terrore: il terrore puro presuppone in ultima analisi la sola forza fisica, e con la sola forza fisica «un uomo può dominare dei fanciulli, dei vecchi e qualche donna, ma non può imporsi a lungo su un gruppo, sia pure poco numeroso, di uomini robusti». Proprio per ciò, l’autorità di un capo di stato doveva a suo avviso poggiare su qualcos’altro che sulla sola forza: doveva pur esserci di mezzo un «riconoscimento» di quell’autorità che proveniva da una parte significativa della popolazione.
Kojève coerentemente suggeriva di riservare il termine «tirannide» a quei casi in cui il pubblico potere è utilizzato da una parte della popolazione (non importa se maggioritaria o minoritaria) per imporre alla restante parte le proprie idee e la propria forma di vita: «è chiaro che possono farlo solo con la “forza” o il “terrore”, giocando in ultima analisi sulla paura della morte violenta che possono infliggere agli altri». In questo senso non può essere dubbio che il sistema di potere usualmente denominato «stalinismo» sia stato una forma di tirannide; bisognerebbe però aggiungere che ogni rivoluzione dà luogo ad una «tirannide», come in genere ogni forma di potere che si proponga di conseguire i suoi obiettivi senza concedere alcuna forma di compromesso ai suoi oppositori. Tutto sommato, Stalin non avrebbe avuto bisogno di scatenare la «lotta di classe contro i kulak» se i contadini, invece di ribellarsi, avessero «spontaneamente» acconsentito a cedere il sovrappiù agricolo con cui finanziare le importazioni di tecnologia necessarie all’industrializzazione di base e al mantenimento della forza-lavoro industriale.
Certo, c’è modo e modo di fare uso della forza, ed è questa la lezione più drammatica di quel periodo storico:senza forzare i termini di un discorso storiograficamente assai complesso, pochi dubbi possono sussistere circa il fatto che il principio di legalità dell’azione pubblica e la nozione di «costituzione rigida»si devono anche e soprattutto all’elaborazione dei lutti e delle tragedie di quegli anni. Ma solo un «umanesimo» insipiente, che – giusta l’ironia di Althusser – si contenti di invocare «l’Uomo e i suoi diritti, opponendo l’Uomo alla violazione dei suoi Diritti (o semplicemente i “consigli operai” alla “burocrazia”)» può negare che negli anni ’30 in Urss c’era una guerra civile o dimenticare che, quando negli anni ’70 istanze di collettivizzazione altrettanto marcate (ancorché pienamente legalitarie) avrebbero permeato l’Occidente,sarebbero esplose le bombe.
Che poi, dopo il ’68, codesto «umanesimo» abbia finito col trionfare, col suo inevitabile corredo di difesa dei «diritti dell’Uomo», della «libertà» e della «giustizia», è un fatto sul quale qui non possiamo soffermarci, se non per constatare come alle spalle dell’«Uomo» e dei suoi pretesi diritti abbia ancora una volta trionfato il laissez-faire di Adam Smith e Jeremy Bentham. Ci preme invece aggiungere che Stalin fu tra i pochi a comprendere che l’«accerchiamento capitalista» non era tanto l’effetto di vicini ingombranti, ma piuttosto un problema che quei nuovi rapporti di produzione avrebbero incontrato ovunque gli fosse accaduto di far presa sulla realtà data in modo altrettanto durevole. Lo mise nero su bianco nel suo ultimo scritto, Problemi economici del socialismo nell’Urss (1952): una volta che il potere politico si fosse impadronito non di tutti i mezzi di produzione, ma solo di una parte di essi, non si sarebbe potuto semplicemente distruggere la residua produzione capitalistica: essa sarebbe rimasta necessariamente ad operare accanto a quella socialista. E anche se ciò avrebbe implicato una qualche sopravvivenza della «legge del valore», si sarebbe potuto e dovuto circoscriverne il funzionamento in modo da scansare il rischio che essa tornasse a regolare l’allocazione del lavoro sociale tra le varie branche della produzione e scatenasse le inevitabili e rovinose crisi da sovrapproduzione. In una parola, i rapporti di produzione capitalistici dovevano retrocedere al rango di «elementi» del più vasto sistema economico socialista: al rango di mera «produzione mercantile» subordinata. La famosa «alleanza tra operai e contadini» e l’altrettanto famoso ruolo «dirigente» del proletariato di fabbrica ne sarebbero stati la figurazione ideologica.
Proprio nell’annuncio di questa coesistenza di rapporti di produzione differenti entro una medesima formazione sociale (e, ben s’intende, delle contraddizioni che un fatto del genere avrebbe inevitabilmente generato) si colloca, a nostro avviso, il «testamento di Stalin», che poi è ciò che – dato il «residuo» di potere statale tuttora incorporato nelle strutture pubbliche sopravvissute alla stagione privatizzatrice dell’ultimo trentennio – potrebbe fare dello «stalinismo» una questione attuale e non puramente storica o teorica. Non si potrebbe dirlo meglio che con le sue stesse parole: «Il fatto è che lo sviluppo economico non si attua mediante rivoluzioni, ma attraverso modificazioni graduali; il vecchio non viene semplicemente liquidato, ma modifica la sua natura in relazione al nuovo, conservando soltanto la sua forma, mentre il nuovo non distrugge semplicemente il vecchio ma penetra in esso, modifica la sua natura, le sue funzioni, senza distruggerne la forma, ma impiegandola per lo sviluppo del nuovo». Come dire: denaro, banche, debito pubblico, e poi naturalmente apparati pubblici, partiti, sindacati, imprese e lavoratori salariati erano istituzioni che, sebbene nate all’ombra del modo di produzione capitalistico, erano suscettibili di mutare la loro natura ovunque avesse fatto presa un «incontro» analogo a quello che stava all’origine dell’esperimento dell’Ottobre.
Sfortunatamente, a capirlo – specie in Occidente – sono state soprattutto le classi borghesi, che si sono avvalse dell’insorgenza anarchica sessantottesca per far sì che i medesimi tentativi di pianificazione e programmazione condotti nel Secondo dopoguerra sotto il nome ben più rispettabile di Lord Keynes naufragassero prima che le spinte sovvertitrici che essi alimentavano potessero rimettere in questione i rapporti di proprietà. Si spiega così che, da trent’anni in qua, Stalin e Keynes siano finiti accomunati dalla medesima damnatio memoriae e sempre così si spiega che il tentativo degli eredi del movimento operaio di costruire una teoria politica basata sulla rimozione del socialismo realizzato da Stalin abbia finito per condurre, come comprese tempestivamente Rita di Leo, «a una serie lunga e inaspettata di rifiuti, che vanno da Lenin a Engels, a Marx e arrivano a Hegel e Rousseau»: fintanto che non ci si disporrà a studiare lo stalinismo come un sistema di potere e non come la degenerazione del socialismo di Marx e Lenin, mettendo al centro dell’analisi il partito bolscevico e lo Stato sovietico e non le purghe e i campi di concentramento, non si potrà mai produrre una conoscenza che, oltre a «spiegare il mondo», sia capace anche di cambiarlo.
Bisognerebbe raccogliere la sfida, tanto più che – come ci ha spiegato Freud – la rimozione e il ritorno del rimosso fanno sempre tutt’uno. Se ne dovette accorgere anche Sciascia, che sul finire degli anni ’70 infilò nel suo Candido un dialogo che sembrava riprendere quello di vent’anni prima tra l’arciprete e Calogero Schirò: «“Torniamo allo stalinismo: è un argomento che mi interessa” disse Candido. “Torniamoci” disse don Antonio. E ambiguamente aggiunse: “Ci torneremo sempre”»