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cultura politica e costituzionale

IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

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IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Valditara contro il resto del mondo

In un’epoca in cui l’Europa deve decidere qual è il suo posto, in cui USA, Russia e Cina definiscono i rispettivi spazi prescindendo da noi, insegnare che l’Occidente è il fine ultimo della storia non è fascista, non è antidemocratico, non è autoritario. È semplicemente idiota.

Intervengo nel complesso dibattito, appena iniziato e che certo richiederà un tempo molto lungo, sulle “Nuove indicazioni per la scuola dell’infanzia e primo ciclo di istruzione 2025” redatte dalla cosiddetta Commissione Perla: un documento ambizioso e importante, che non va minimamente sottovalutato, nei suoi pregi, che in qualche caso ci sono, e nei suoi limiti, difetti ed errori. Riguardo a questi ultimi, bisogna evitare di puntare su falsi bersagli indulgendo a semplificazioni e banalizzazioni ideologiche. Non è un documento “fascista”, un attentato ai valori costituzionali o allo spirito democratico. I riconoscimenti di rito alla Costituzione, alla democrazia, ai valori civili, ci sono tutti, e non manca neppure qualche tributo alla Resistenza. Semmai si potrebbe osservare che sono un po’ troppo di rito, che non si distaccano da una retorica routinaria. Ma almeno ci sono e non si potrebbe non sottoscriverli. Non abbiamo a che fare con un documento eversivo o con un brutale attacco al sistema educativo di stampo trumpiano. Siamo ampiamente nei limiti della decenza istituzionale. I problemi sono altri. Sono indubbiamente numerosi e chi ha competenze diverse dalle mie ne vedrà sicuramente molti che io non sono in grado di mettere a fuoco. I problemi che vedo io si possono assommare in una formula che enuncio subito, riservandomi poi di chiarirla in maniera più analitica: non si tratta di un documento fascista, e neppure di un documento antidemocratico, ma si tratta ugualmente di un documento, nel complesso, reazionario. Nel senso che mira a una sorta di arresto del cambiamento, a un’inversione di rotta riguardo a molti aspetti della società e della cultura di oggi, forse non tanto in vista di un, comunque, impossibile ritorno al passato, ma piuttosto di un rifiuto di alcune linee di possibile futuro che nell’oggi si vanno affermando. Il rischio non è tanto quello dell’imposizione autoritaria e delle limitazioni di libertà, quanto quello dell’inefficacia, del girare a vuoto, della perdita di tempo riguardo a evidenti esigenze del presente che saranno, lo si voglia o no, realtà del futuro.

Restando nei limiti abbastanza ristretti delle mie competenze e dei miei interessi culturali, mi limiterò a due punti soltanto, il primo obiettivamente secondario anche se tutt’altro che irrilevante, il secondo invece decisivo, a mio parere il più decisivo di tutti.

Sull’insegnamento del latino. Come e perché?

Il primo punto riguarda l’insegnamento del latino nella scuola secondaria di primo grado. Dico subito che non sono contrario. È una bellissima lingua, avere accesso a una dimensione di bellezza è sicuramente un vantaggio, anche se non dovesse comportare una particolare utilità pratica. Però vorrei sapere non tanto come si studierà il latino – non lo si potrà evidentemente imparare in quel contesto, se non in forma elementare – ma con quale finalità lo si studierà, e soprattutto al posto di cosa. Perché la mia sensazione è che lo studio del latino non serva tanto a comprendere e conoscere una dimensione culturale di ovvia importanza, ma a cancellarne un’altra, di importanza almeno uguale.

Il documento non è ingenuo. Vede bene gli aspetti anacronistici della proposta e cerca di darne una giustificazione articolata e almeno in parte sensata: “l’insegnamento del mondo antico ha bisogno di essere giustificato e non è più considerato come un valore di per sé. Occorre perciò agire sulla motivazione, suscitando interesse e passione per la lingua e la cultura latina, facendo comprendere che esse permettono a tutti gli studenti senza alcuna distinzione di intendere meglio la cultura contemporanea e di accedere a mondi di grande fascino. Le discipline classiche potranno mostrare la loro utilità contribuendo alla qualità linguistica dell’espressione degli studenti, ma anche alla migliore comprensione di concetti e idee che fanno ormai parte dell’immaginario europeo e, più latamente, globale”. Direi che anzitutto viene riconosciuto un punto debole: si tratta di suscitare interesse e passione riguardo a qualcosa che di suo non è più in grado di suscitare interesse e passione, dando quasi per scontato che il punto di partenza sarà insegnare qualcosa di cui agli studenti non importa nulla, trovando alquanto volontaristicamente il modo di motivarli. Lasciamo stare il problema comunque grave del come. Mi interessa sapere il perché. Non escludo per niente che ci possa essere un perché valido: non mi pare che lo sia quello proposto. La lingua e cultura latina, si dice, «permettono a tutti gli studenti senza alcuna distinzione di intendere meglio la cultura contemporanea e di accedere a mondi di grande fascino». La seconda cosa, l’accesso a mondi fascinosi, è potenzialmente vera, si tratta di riuscirci. La prima cosa, intendere meglio la cultura contemporanea, è invece falsa, o almeno tanto astratta e generica da essere priva di significato. Cos’è la “cultura contemporanea”? Di chi è e dove è la “cultura contemporanea”? C’è una “cultura contemporanea” di tutti e dovunque che possa essere intesa meglio grazie al latino? Sarebbe persino ridicolo pensarlo. I cinesi o gli arabi, ma anche gli americani o i russi, dovrebbero sapere il latino per avere adeguato accesso alla “cultura contemporanea”? È evidente che un discorso del genere ha un presupposto tacito: che il latino sia una sorta di marchio di fabbrica che segnala un’appartenenza ritenuta imprescindibile. Dobbiamo sapere il latino (o fingere di saperlo) per essere quello che dobbiamo essere. Italiani, europei, cristiani. Tutto il documento, almeno nella sua parte umanistica, ruota su questo cardine. Ma allora l’espressione chiave è appunto “senza alcuna distinzione”. Che significa qualcosa di molto diverso da ciò che sembra significare. Sembra significare: indipendentemente dalle condizioni sociali di partenza e dal percorso di studio che successivamente verrà scelto. Sarebbe un ricorso al principio di uguaglianza. Ma significa invece, con ogni possibile evidenza: indipendentemente dalla cultura di provenienza. La scuola è un meccanismo per produrre italiani, europei, cristiani. Dunque, studierai il latino: anche se sei arabo, o ghanese, o qualsiasi altra cosa. Non puoi dire che a te non importa perché hai un’altra storia alle spalle con cui il latino non c’entra: non conta chi sei, ma chi devi essere. Senza alcuna distinzione. Non è più il principio di uguaglianza. È un principio di esclusione. Lo studio del latino copre e nasconde il disconoscimento della multiculturalità.

Eppure, una soluzione diversa potrebbe essere suggerita, di sicuro involontariamente, dalla frase che segue: «Le discipline classiche potranno mostrare la loro utilità contribuendo alla qualità linguistica dell’espressione degli studenti, ma anche alla migliore comprensione di concetti e idee che fanno ormai parte dell’immaginario europeo e, più latamente, globale». “Discipline classiche” e “latino” non sono la stessa cosa e le discipline classiche non sono soltanto discipline linguistiche. Una soluzione adeguata potrebbe derivare da una riflessione sulla classicità. Ogni cultura, in realtà, ha una propria, e diversa, “classicità”. Cioè un passato in qualche modo esemplare, collegato a una storia in parte reale e in parte mitizzata (il che non è un limite), caratterizzato da espressioni linguistiche, letterarie, artistiche, religiose particolarmente rilevanti, da cui un popolo (più o meno qualsiasi popolo) ritiene di trarre origine, fondamento e legittimazione. C’è una classicità greca e latina che, con qualche abuso e non poche illusioni, possiamo sentire ancora nostra ed ha comunque un enorme valore in sé. Ma c’è anche una “classicità” araba, senza dubbio (tra l’altro, molto intrecciata con quella greca), c’è una classicità cinese, ci sono persino, nonostante la nostra totale ignoranza in proposito, classicità africane, e così via. E allora, il punto è proprio di fare distinzioni. Non siamo, e non è necessario che diventiamo, tutti uguali, purché ci sia un uguale diritto di essere diversi, e un punto d’incontro tra le diversità, che comprensibilmente tenderà ad essere più vicino all’identità maggioritaria, ma non può in tutto e per tutto identificarsi con essa. Ed è indispensabile, nell’incontro, che ognuno sappia, e sappia dire, da dove viene e cosa lo rende quello che è. Con ciò non intendo dire che accanto al latino bisogni insegnare l’arabo coranico o il cinese mandarino. Sarebbe bellissimo ma è evidentemente impossibile. Però, bisogna pure che si sappia che il latino rappresenta (senza esaurirla) la classicità italiana ed europea, ma esistono altre classicità ugualmente importanti, che non si potranno conoscere a fondo e probabilmente neanche superficialmente, ma di cui bisogna sapere che esistono e meritano rispetto, e non si riducono solo alla lingua ma costituiscono un modello di civiltà. A questo punto si potrebbe persino provare a insegnare il latino agli arabi, purché gli altri sappiano, almeno un po’, che gli arabi ci sono e chi sono.

Ma qui si vede bene qual è il vero problema a cui adesso bisogna passare: la storia e il suo insegnamento.

Squillo di tromba numero uno: solo l’Occidente conosce la Storia

Sulla storia, il documento parte da un’affermazione apodittica e perentoria, che suona quasi come uno squillo di tromba: «Solo l’Occidente conosce la Storia». E prova subito ad argomentare, o meglio finge di farlo: «Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia, come compilazioni annalistiche di dinastie o di fatti eminenti succedutisi nel tempo; allo stesso modo, per un certo periodo della loro vicenda secolare anche altre civiltà, altre culture, hanno assistito a un inizio di scrittura che possedeva le caratteristiche della scrittura storica. Ma quell’inizio è ben presto rimasto tale, ripiegando su sé stesso e non dando vita ad alcuno sviluppo; quindi non segnando in alcun modo la propria cultura così come invece la dimensione della Storia ha segnato la nostra».  Con ciò si dà per scontato che avere una storia e scrivere di storia siano la stessa cosa, e così non è. Viene qui rinnegato, senza fornirne alcuna ragione, un concetto che nella storiografia contemporanea ha piena cittadinanza, il concetto di storia orale. In tutto il mondo, compreso il mondo occidentale, compresi soprattutto gli Stati Uniti, esistono decine se non centinaia di istituti universitari specializzati, che non si occupano necessariamente dei cosiddetti popoli senza scrittura (a cui non c’è antropologo contemporaneo che non riconosca comunque una storia), ma precisamente delle fonti orali della nostra storia (ovviamente di quella recente), e non solo come materiale da trascrivere e su cui poi debitamente scrivere di storia, ma come documento storico alternativo alla scrittura che fornisce informazioni irreperibili o insufficienti nei documenti scritti.

C’è qualcosa di ancor più grave, però. In questo modo si reintroduce una distinzione discriminante e gerarchizzante abbandonata da generazioni e oggi unanimemente considerata non scientifica dagli specialisti: quella tra “popoli storici” e “popoli senza storia”, o come si diceva nell’Ottocento (e non oltre il primo Novecento) Kulturvölker e Naturvölker, “civili” appunto i primi, “primitivi” se non addirittura “selvaggi” i secondi. Con l’aggravante che a questo punto selvaggi o almeno poco civili sarebbero assolutamente tutti i popoli non occidentali, antichi e moderni. Provate a dirlo nel tempio di Karnak, o ad Angkor Wat, o nella Grande Moschea di Cordoba. Si vorrebbe poter attribuire una simile enormità a crassa ignoranza, ma un’ignoranza simile non è concepibile, specie tenendo conto dei nomi di coloro che l’hanno scritta o approvata. Dunque, è qualcosa di peggio dell’ignoranza, cioè un’imposizione ideologica, un atto consapevole di negazione dell’evidenza. E si tratta quindi di retorica politica, non di una tesi scientifica, neppure di una tesi scientifica sbagliata.

Concediamo che sia vero (e non lo è) che per avere una storia occorra scrivere di storia: solo l’Occidente scrive di storia? Decisamente no. La storiografia araba, ad esempio, è immensa, comprende migliaia di testi, risale con certezza sino all’epoca omayyade (VII-VIII sec.: quanta storia si scriveva, in Occidente, in quell’epoca?), probabilmente esistevano testi ancora più antichi non conservati, l’esigenza e la metodologia della ricostruzione storica hanno una valenza religiosa fondamentale perché le gesta e l’insegnamento del Profeta e dei suoi successori hanno valore esemplare in quanto se ne accerti la verità storica. Tutti i generi storici sono ampiamente praticati, dalla storia universale alla biografia, e troverei assai arduo trovare, in Occidente, uno storico medievale paragonabile a Ibn Khaldun. Considerazioni non molto diverse si potrebbero proporre per la storiografia persiana islamica, che risale all’XI secolo, o per quella turco-ottomana. Certo, si potrebbe dire, e io sarei totalmente d’accordo, che la civiltà islamica rientra a pieno titolo nel concetto di Occidente, ma questo non lo si dice, e se poi si vanno a vedere gli argomenti previsti nei diversi cicli di studio l’Islam lo si trova solo sotto forma di “espansione islamica”, quindi come qualcosa che da fuori invade l’Occidente e non come qualcosa che vi appartiene a pieno titolo sin dalle sue origini, come è verità di fatto. E quindi, se l’Islam è Occidente, perché non se ne deve parlare sullo stesso piano delle altre dimensioni storiche occidentali? Mentre, se l’Islam non è Occidente, come si fa a dire che solo l’Occidente conosce la storia?

Ma ammettiamo pure, e il documento non dice questo, che l’Islam rientri nel concetto di Occidente e non smentisca quindi la tesi che solo l’Occidente conosce la storia. Davvero le altre civiltà, non occidentali, si sono limitate a vaghe compilazioni annalistiche? Uno dei classici riconosciuti dalla scuola confuciana (a proposito di classicità…) è appunto un testo storico, Primavere e autunni, attribuito quasi certamente a torto allo stesso Confucio, che è pressocché contemporaneo a Erodoto e, pur essendo assai più stringato, presenta un’accuratezza decisamente maggiore riguardo alla cronologia. È stato oggetto di numerosi ampliamenti e commenti, solo in parte conservati, ed è, come tutti i classici confuciani, uno dei fondamenti della cultura cinese. Cultura che ha attribuito alla storiografia un ruolo assolutamente centrale. Nella Cina antica la storia svolge quasi la funzione del diritto: registra esempi normativi, in positivo o in negativo, riguardo a ciò che governanti e sudditi debbono fare o non fare in determinate circostanze. Per questo l’accertamento della verità dei fatti è fondamentale e la documentazione completa di ciò che accade è indispensabile. Né bisogna pensare a intenti encomiastici o propagandistici: normalmente la storia ufficiale di una dinastia è compilata a cura della dinastia successiva, spesso nemica. L’opera più importante della storiografia cinese medievale, lo Zizhi Tongjian, fu redatto per incarico imperiale da una commissione di studiosi tra il 1065 e il 1084, comprende 294 volumi e fornisce dati biografici di circa tre milioni di personaggi. Mi si indichi un testo paragonabile nella storiografia occidentale. Un po’ più recente è la storiografia giapponese. I primi testi, in gran parte mitologici (ma anche Erodoto è in gran parte mitologico) risalgono all’VIII sec. d. C. Più tardi, a differenza che in Cina, dove la storiografia ha quasi sempre una funzione ufficiale, si sviluppò una vasta letteratura storiografica di carattere popolare, distinta dall’altrettanto popolare letteratura narrativa, sebbene non manchino naturalmente, come peraltro in Occidente, gli intrecci tra i due generi. Ciò detto, le culture non sono tutte uguali ed esistono grandi civiltà poco interessate a scrivere di storia, segnatamente quella indiana, o meglio quelle indiane, al plurale, perché esistono immense differenze all’interno del subcontinente. Mancano qui davvero, fino a tempi recenti, testi storiografici veri e propri, anche se la vastissima e antichissima letteratura narrativa e teatrale ha spesso per oggetto eventi storici, di cui rappresenta a volte l’unica registrazione. Troverei comunque arduo sostenere che, avendo poca storiografia, l’India non abbia una storia. In altri casi, l’“assenza” di storia potrebbe avere cause piuttosto inquietanti e non innocenti. Sappiamo che esistevano intere biblioteche azteche e maya. Cosa contenessero non lo sappiamo, perché gli spagnoli hanno distrutto tutto sistematicamente: migliaia di testi di cui non sapremo più niente (tuttavia, grazie ad acquisizioni archeologiche recenti, siamo ora in grado di leggere le migliaia di steli maya esistenti, da cui emergono date, nomi, registrazioni di eventi, per cui possiamo tracciare a grandi linee una storia dei Maya, che evidentemente dunque una storia l’avrebbero anche avuta).

Tenendo conto di questo e di altri casi simili, la tesi che solo l’Occidente ha una storia acquista tutto un altro sapore, decisamente cattivo. Non senza evidente compiacimento, si afferma infatti che attraverso la «disposizione d’animo e gli strumenti d’indagine» prodotti dalla storia, «la cultura occidentale è stata in grado di farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo, di conoscerlo, di conquistarlo per secoli e di modellarlo». Si sfiora dunque la rivendicazione orgogliosa del colonialismo, senza dire che esso ha comportato la distruzione della storia altrui, sia in quanto corso di eventi autonomamente gestito, sia in quanto memoria storica e storiografia. Certo, se distruggiamo la storia degli altri, poi diventa vero che la storia ce l’abbiamo solo noi, ma non parrebbe tanto il caso di gloriarsene. Per fortuna, a distruggere la storia altrui non ci siamo sempre riusciti. E meno male, dunque, che siamo ancora in grado di percepire che l’esclusivismo storico dell’Occidente è, di fatto, una falsità.

Squillo di tromba numero due: solo l’Occidente ha una filosofia

Ma se il documento sostiene senza pudore una falsità di fatto, è perché vuole collocarsi su un orizzonte superiore alla banalità dei fatti, del tutto ideale, spirituale, filosofico. Se solo l’Occidente ha una storia, è perché solo l’Occidente ha una filosofia vera. È questa la tesi, implicita ma non troppo. L’Occidente ha storia perché pensa la storia, e la pensa secondo verità, una verità che è conquista progressiva e si identifica in sostanza con la storia stessa. Prima i greci, poi i romani, poi il cristianesimo. Attraverso questa successione, lineare, ascendente e non contraddittoria, «si affermò così l’idea di una storia dal tempo lineare, fatta interamente dagli uomini (cioè con l’ovvia esclusione di qualunque intervento esterno di natura magica da parte di individui o cose dotati di poteri straordinari) e avente un fine eminentemente positivo quale la salvezza. Un fine positivo che, grazie al processo di laicizzazione che la cultura occidentale comincerà a conoscere dal Seicento, muterà la propria natura cessando di essere quello della salvezza ultraterrena per divenire il fine del progresso». Bisogna dunque essere storicisti. La scuola deve fondarsi su una filosofia ufficiale, da cui derivi il dovere di sostenere che la storia è progressiva e l’Occidente ne è il protagonista e il culmine.

Ecco, se c’è un punto in cui il documento è fascista, non tanto nei contenuti specifici, ma nella funzione che assegna alla scuola pubblica e quindi allo Stato, è esattamente questo. Ma lasciamo stare quest’aspetto, entriamo nel merito. Se l’Occidente in quanto tale è storicista, allora bisogna espungerne i greci e i romani. Non Erodoto, ma neanche Tucidide, ma neanche Tito Livio (e nessun altro), si sognavano minimamente di pensare che ci fosse una storia lineare, fatta interamente dagli uomini e avente un fine di salvezza. La continuità tra greci, romani e cristianesimo è un luogo comune stantio che non ha mai sfiorato neppure per sbaglio una verità di fatto. Come ben sapevano e rivendicavano tutti i pensatori cristiani almeno fino alle soglie della modernità, ma ancora non di rado nell’Ottocento se non pure dopo, tra antichità classica e cristianesimo c’è contrapposizione radicale. Il cristianesimo vincitore si è appropriato delle spoglie dell’antichità vinta e le ha ostentate trionfalmente. In questo modo, certo, le ha anche conservate e tramandate: avendone però distrutto il senso originario. La dovremmo smettere di raccontarci questa favola inconsistente della continuità tra mondo classico e cristianesimo. La vera continuità, non senza naturalmente aspetti anche drammatici di conflittualità, è con l’ebraismo e la concezione della storia come processo di salvezza non nasce, né si vede come avrebbe potuto nascere, né ad Atene né a Roma, ma, del tutto ovviamente, a Gerusalemme. Di ciò, nel documento, non si fa minimamente cenno. Come non si fa cenno del fatto che lo storicismo come dottrina filosofica è comunque lontanissimo dal rappresentare l’essenza del pensiero occidentale: non ne esiste la più pallida traccia prima del medioevo, dove appare peraltro in un’ottica miracolistica e apocalittica, è caratteristica saliente di una fase importantissima ma breve del pensiero ottocentesco quasi esclusivamente in Germania (con qualche prosecuzione tardiva in paesi provinciali, tra cui il nostro), incontra avversari assai robusti come Schopenhauer e Nietzsche, si risolve in forme assai mutate nel marxismo e si esaurisce con esso (e in qualche tardo hegeliano ingenuo sino al ridicolo, come il meritatamente dimenticato Francis Fukuyama). Andrebbe anche detto, ma tralasciamo pure questo punto, che neppure tutto il marxismo, specie quello più recente, è ascrivibile a una visione storicista. Ma la cosa ha poca importanza perché dal marxismo bisogna comunque tenersi ben lontani. Occorre infatti smentire, dice il documento con paterna sollecitudine, «ogni sopravvalutazione degli elementi economici e strutturali»: il dato storico principale, semmai, è quello “religioso”. Con questo salvifico intento il documento ministeriale tenta di resuscitare un cadavere, e a scuola bisognerebbe sostenere che questo cadavere è vivo e percorre esultante cammini di gloria.

Una delle ragioni per cui il cadavere andrebbe tolto dalla tomba e messo sugli altari, o almeno sulle cattedre, è intensamente patriottica: lo storicismo è roba nostra, è la quintessenza filosofica dell’italianità. È ciò che fa assurgere l’italianità ad essenza filosofica, a verità indiscutibile ben al di sopra dei fatti volgari. Si può dire infatti, proclama squillante il documento, «che in generale la storia abbia rappresentato l’alimento decisivo che nel corso della modernità ha dato al pensiero italiano quella caratteristica assolutamente sua e peculiare che un filosofo ha chiamato ‘pensiero vivente’. Per un Paese come il nostro dove lo ‘storicismo’ – vale a dire l’affermazione circa il carattere storico di ogni conoscenza umana e l’assorbimento nella dimensione della prassi di ogni significato o prodotto della conoscenza stessa – lo storicismo, dicevamo, vuoi nella sua versione idealistica crociana che in quella dell’attualismo di Giovanni Gentile, vuoi nella versione marxista di Antonio Gramsci, ha influenzato in maniera decisiva l’intero corso del Novecento».

Conosco e stimo il filosofo che, in uno dei suoi libri meno felici, ha tentato di costruire una “Italian Theory” fondata sul concetto di “pensiero vivente” (che non sarebbe poi la stessa, stessissima cosa dello storicismo come comunemente inteso). Non credo che questo filosofo si senta particolarmente onorato da una simile citazione. Trovo comunque irritante e inutile questa ennesima riproposizione della vecchia fola consolatoria del primato morale e civile degli italiani, che presuppone la consapevolezza dolorosa e taciuta del contrario. A parte ciò, salta agli occhi che qui si fa di tutta l’erba un fascio: espressione che in questo caso suona particolarmente pregnante. Croce, Gentile e Gramsci. Triade pacificata e retoricamente ammorbidita – come un tempo Cavour, Garibaldi e Mazzini – in cui si confondono allegramente insieme, nel nome del sacro storicismo, liberalismo, fascismo e marxismo, si annulla gioiosamente la differenza tra fascismo e antifascismo e tra chi è morto in galera e chi in galera ce l’ha mandato e si dichiara quello che sembra uno dei principali intenti del documento: la rifondazione, con qualche aggiornamento e qualche correttivo, della scuola gentiliana.

Poi c’è pure qualche lacrima di coccodrillo, decisamente poco convinta e poco convincente. Ebbene sì, lo storicismo, e con esso l’Occidente, ha fatto anche dei danni: «nella coscienza europea ed occidentale del XIX secolo la storia, la propria storia, – che proprio allora assiste alla vasta diffusione dei diritti dell’uomo e dei principi costituzionali, alla straordinaria crescita economica e del benessere, a risultati strabilianti nell’ambito della scienza e della tecnologia – assurge altresì a motivo decisivo per la formulazione di una presunta superiorità nei confronti di ogni altra popolazione e cultura della terra. Di quelle popolazioni e culture che nulla sanno di quanto sopra perché la loro storia ha seguito un tracciato assolutamente diverso non rivestendo perciò ad occhi occidentali alcun significato, potendo essere quindi tranquillamente ignorata. Come ogni sapere umano pure la storia, insomma, offre il destro di essere piegata al pregiudizio e alla discriminazione». Quindi in fondo anche quegli altri, gli sventurati non occidentali, avrebbero avuto una propria storia, che “ha seguito un tracciato assolutamente diverso”. Poverini, gli abbiamo fatto un po’ male, ci dispiace, li abbiamo un pochettino sottovalutati e discriminati. Però in fondo mica avevamo tutti i torti. La “vasta diffusione dei diritti dell’uomo e dei principi costituzionali”, la “straordinaria crescita economica e del benessere”, i “risultati strabilianti nell’ambito della scienza e della tecnologia” sono roba tutta nostra, come avremmo potuto non pensare che la storia degli altri potesse essere “tranquillamente ignorata”?

Tant’è vero che siamo fermamente intenzionati a continuare a ignorarla. «I contenuti seguenti assegnano uno spazio largamente prevalente alla storia europea e degli Stati Uniti per una precisa ragione. Pur essendo sempre più venute alla nostra attenzione le vicende dell’intero pianeta, resta il fatto che le finalità indicate sopra possono essere raggiunte solo rinunciando preliminarmente all’ambizione enciclopedica di parlare della storia universale, che vorrebbe dire necessariamente occuparsi un poco, o pochissimo, di ogni cosa. Per contro tali finalità implicano la centralità della storia occidentale, ed europea in particolare, storia che ha rappresentato in misura decisiva il contesto in cui affonda le sue radici la secolare vicenda italiana. Contesto solo intendendo il quale si può capire il processo di formazione della nostra cultura e delle nostre istituzioni democratiche». Si prega di ammirare la logica stringente con cui si afferma che niente è meglio di poco. Di sicuro, non si potrebbe parlare di tutto in maniera approfondita. Ma non si vede cosa impedisca di fornire quelle poche informazioni di base che consentirebbero agli studenti, persino (perché no?) a quelli della scuola primaria, di sapere che esiste appunto una storia universale e che al mondo non ci siamo solo noi. Altrimenti, visto che il mondo comunque esiste e non possiamo rimpicciolirlo a nostro piacimento, gli studenti si troveranno di colpo, senza nessuno strumento cognitivo a disposizione, a dover fare i conti col fatto che intorno a noi esiste un mondo alquanto più grande di noi, che sarà a quel punto completamente ignoto, incomprensibile e perciò minaccioso, rispetto al quale non sapranno come orientarsi. È così difficile insegnare che il mondo è grande, vario e pieno di cose belle e interessanti? Poi, certo, del tutto ragionevolmente si approfondiranno solo quelle dimensioni storiche che ci riguardano più direttamente, ma almeno si avrà un contesto, e pure un senso delle proporzioni. Perché gli studenti debbono sapere (visto che ciò è previsto dai programmi) che sono esistite grandi civiltà extraeuropee antiche, ma non che ve ne sono state anche di medievali e moderne? Perché debbono sapere qualcosa dei Sumeri ma nulla della Cina? Perché debbono sapere chi erano i guelfi e i ghibellini, ma non che all’epoca dei guelfi e ghibellini il Cairo era la città più grande, bella e ricca del mondo? Perché non debbono sapere che quando l’Europa era straziata dalle guerre di religione l’impero Moghul, nell’India settentrionale, superava di dieci volte la Francia che era il più ricco Stato europeo?

E perché, soprattutto, non solo debbono ignorare la parte di gran lunga maggiore della storia mondiale, ma sul resto del mondo bisogna insegnargli il falso, cioè la “centralità della storia occidentale, ed europea in particolare”? Cioè una visione ottocentesca francamente colonialistica ed implicitamente razzista che, semplicemente, non è più da tempo di questo mondo? Perché la scuola deve mentire, insegnando non la storia, ma la favola forse rassicurante ma di sicuro stupida che il mondo è nostro, anzi che il mondo siamo noi?

Occidentalismo ideologico. Peggio: mitologico

Non mi pronuncio su altri aspetti del documento, segnatamente quelli che riguardano le discipline scientifiche. In proposito ci sono state autorevoli dichiarazioni a favore, da parte dei geografi in particolare, e non ho motivo di mettere in dubbio che ci siano anche aspetti molto positivi. Ma quello che vedo, fin dove arrivano le mie competenze, è desolante. C’è una scelta di fondo per la non scientificità, la retorica vuota, il rifiuto della realtà, la negazione dell’evidenza. Non, lo ripeto, in un’ottica propriamente fascista o antidemocratica, non è questo il punto, non è questo il problema. Ma nell’ottica di un occidentalismo ideologico, o piuttosto mitologico, che ripropone schemi mentali in parte da guerra fredda, in parte addirittura ottocenteschi. E questo proprio nell’anno che gli storici futuri identificheranno probabilmente come quello in cui il “tramonto dell’Occidente”, già ben percepibile fin dal primo Novecento, si è definitivamente concluso. In un mondo in cui Europa e Stati Uniti non sono più congiunti dalla nozione, appunto, di Occidente, ma separati, forse non per sempre, ma certo con conseguenze di lungo periodo, da un oceano di incomprensioni, ostilità e disprezzo. In un’epoca in cui l’Europa deve decidere qual è il suo posto, e se può ancora avere un posto, in un mondo in cui Stati Uniti, Russia e Cina tentano di definire i rispettivi spazi prescindendo completamente da noi. In un mondo del genere, insegnare che l’Occidente è il punto culminante e il fine ultimo della storia universale non è fascista, non è antidemocratico, non è autoritario. È molto, molto peggio: è semplicemente idiota.

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