IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Vita e lavoro nel tempo dell’IA

Il testo integrale della “lectio” di Antonio Cantaro alle giornate fanesi organizzate da Itinerari e Inconti (13 -14 settembre 2024) dedicate al tema “L’uomo è antiquato?”. Agere sine intelligere, operare senza decidere, è il codice dell’IA: disumano o un altro modo di essere umano?

Dipende dal punto di vista. Invece di ergerci a maestri di dottrina dell’umano dobbiamo fare i conti sino in fondo con l’inedita sacralità veicolata dall’intelligenza artificiale. Con il suo seducente orizzonte di senso e con la sua concreta funzione pratica. È, infatti, tutt’altro che evidente agli occhi delle donne e degli uomini della società neoliberale, delle giovani generazioni in special modo, che intelligere deinde agere sia meglio di agere sine intelligere.  La sin qui diffusa accettazione sociale dell’odierna forma del lavoro – la sua rappresentazione in termine di capitale umano – ne è la più emblematica conferma. Un compito intellettuale e politico immenso è davanti a noi. Siamo di fronte, infatti, ad una “verità” sostenuta da una duplice, potente, legittimazione. Da una parte, una rappresentazione del tecno-capitalismo come di una forza del passato; dall’altra come di una forza del futuro. Una forza del passato, mitica, nella misura in cui le tecnologie digitali sono vissute come l’ultimo stadio di una lunga storia della razionalità occidentale che grazie alla tecnica si è assicurata un dominio sempre crescente sul corso del mondo, consentendo all’uomo di porre rimedio alla sua ontologica lacunosità. Una forza del futuro, rivoluzionaria, nella misura in cui l’uso massiccio delle tecnologie digitali dà vita ad un mondo nuovo: l’accesso a un bacino inesauribile di informazioni, l’enorme facilitazione delle comunicazioni, l’effettuazione di una grande quantità di azioni a distanza, il tutto accompagnato da un certo senso di compiacimento, di comodità, di potere. Tutto, magicamente, in tempo reale. Un tempo nuovo rispetto alle tre modalità temporali – passato, presente e futuro – che ancora scandivano nel ventesimo secolo la nostra forma di vita. Un tempo inizialmente destinato a facilitare certe pratiche (il riconoscimento dell’identità di un individuo tramite una telecamera di sorveglianza, l’analisi di una radiografia) ma ben presto divenuto un tempo della conoscenza immediata e automatizzata di tutte le situazioni e della conseguente emissione di istruzioni da eseguire seduta stante. L’indicazione di seguire questo o quell’itinerario in funzione dello stato del traffico, la trasmissione di segnali agli addetti alla logistica per ordinare loro di andare a ritirare il tal articolo nel tal momento e poi depositarlo nel tal posto. Cosicché il tempo reale è passato da una iniziale, strumentale, dimensione di comfort che teneva insieme tecnica e attività umana (una accelerazione dell’innovazione tecnologica) alla generalizzazione del fatto che un robot computazionale indica a un essere umano quale comportamento adottare (È. Sadin, 2022). In ogni occasione e situazione.  Che studi intraprendere, quale attività lavorativa, quale sia il profilo ideale del proprio partner. O, persino, indurre – pare sia ‘realmente’ accaduto – una settantaduenne single statunitense a sposarsi con sé stessa.

Confessioni di un integrato riluttante

 Il titolo di questo mio intervento – non saprei bene come definirlo: lezione, relazione, contributo? – è Vita e lavoro nell’epoca dell’intelligenza artificiale. Questa, la provvisoria formulazione cui sono pervenuto. L’ho più volte riformulato, segno inequivocabile di una certa oscillazione, che è tutt’altro che terminata. Troppo ampia la prima parte del titolo – vita e lavoro – e troppo generica la seconda: esiste qualcosa che merita di essere chiamata intelligenza artificiale? E se sì, la nostra è veramente l’epoca dell’intelligenza artificiale?

Credo che questa oscillazione dipenda soprattutto da miei limiti, del tutto evidenti come potrete constatare. Ma credo dipenda anche dal tranchant e inquietante interrogativo posto in testa a queste nostre giornate e a cui si chiede di fornire una risposta. L’uomo è antiquato?

Sono convinto anch’io che la questione posta a metà dello scorso secolo da Günther Anders fosse perspicua e che oggi lo sia ancor più di allora. Per averne emotiva contezza basta sintonizzarsi, in una qualsiasi nostra giornata, con quella rassegna degli orrori che sono i notiziari della sera. Quei notiziari dovrebbero sollecitare in noi un sentimento di ribellione e, quindi, l’urgenza di capire e fare qualcosa. E tuttavia, con le nostre compagne e i nostri compagni, ci scambiamo sbigottiti solo qualche sguardo. Da tempo non diciamo più niente, non abbiamo più niente da dire nella sottintesa convinzione che sì ormai il postumano è tra noi, che Günther Anders ci aveva visto giusto (G. Anders, 2007).

Potrei chiudere qui il mio intervento. Ma finita la quotidiana rassegna degli orrori e dopo essermi ‘disintossicato’ con la visione di qualche film degli anni Cinquanta e Sessanta che parlano, a dispetto della profezia di Anders, di uomini ancora umani, di uomini che si ribellano, anche quando non sanno bene a cosa, sono assalito dal dubbio di essere senilmente cieco e sordo. Quei notiziari ci parlano anche di una quotidiana fiera delle meraviglie. Tecnologie che allungano e rendono meno penosa la nostra vita biologica, tecnologie in grado di rendere quantomai confortevoli e ricche delle più svariate esperienze le giornate dei nostri figli, tecnologie che promettono di rendere in futuro felici, se non immortali, i nostri nipotini. Tecnologie che quando saranno universalmente dispiegate, faranno venir meno quella fiera degli orrori di cui i media sono costretti ancora, per dovere di cronaca, a dare notizia.

A quel punto mi vergogno degli sguardi sbigottiti e muti scambiati con la mia compagna. Quella fiera degli orrori e delle meraviglie che è l’epoca del postumano andrebbe, penso, meglio indagata e compresa.  Ma non ne sono all’altezza e il risultato è quello modesto e confuso che sentirete oggi dalle vostre orecchie. Una continua oscillazione di argomenti tipici dell’apocalittico, come è “politicamente corretto” che sia un intellettuale critico; e di argomenti tipici dell’integrato come si addice a chi si sente parte, a torto o a ragione, delle élite.

O forse no. Forse sto cercando una terza via tra apocalittici e integrati (S. Bianco, 2024). Se per caso l’avessi solo intravista – giudicherete voi – aggiungerò un sottotitolo a questo mio intervento. Confessioni di un apocalittico riluttante. Oppure, meglio, Confessioni di un integrato riluttante.

 L’intelligenza artificiale non è intelligente…

 La premessa fatta è diretta anche a giustificare un ulteriore limite del mio discorso. Le fonti di cui mi servirò sono prevalentemente “notizie”, o meglio quelle che coloro che scrivono di intelligenza artificiale considerano tali. Notizie che spesso contraddicono altre notizie. Come quella, sulla quale mi intratterrò subito, secondo cui l’uomo nell’epoca della rivoluzione digitale non è affatto un essere arretrato. Ad affermarlo è, in particolare, Luciano Floridi, professore ordinario presso l’Oxford Internet Institute della Oxford University, una delle voci più ascoltate in tema di filosofia ed etica dell’informazione (L. Floridi, 2022)

Sostiene Floridi: «l’Intelligenza Artificiale (IA) è un ossimoro. Tutto ciò che è veramente intelligente non è mai artificiale e tutto ciò che è artificiale non è mai intelligente». É vero che se giochiamo a scacchi con il nostro cellulare lui gioca meglio di un campione e vince sempre. Ma i nostri cellulari hanno l’intelligenza del frigorifero delle nostre nonne. Se mentre giochiamo scoppia un incendio, noi umani smettiamo saggiamente di giocare a scacchi, ce ne freghiamo della partita e proviamo a salvare la vita, mentre il computer continuerà stupidamente a giocare. Noi umani continuiamo a adattarci meglio dei computer agli imprevisti. Il robottino tagliaerba, se c’è un sasso si ferma, noi lo spostiamo o ci giriamo intorno. Se il codice a barre delle nostre carte di imbarco non funziona a causa di un blocco del sistema informatico, siamo ancora noi umani a porre rimedio all’emergenza. L’intelligenza artificiale, incalza Floridi, è la continuazione dell’intelligenza umana con mezzi stupidi. L’algoritmo «è come un cavallo: ti porta dove vuole se non sai cavalcare, ma se sai domarlo è chiaro che l’intelligente sei tu, non lui».

Bene, sospira l’integrato riluttante che è in me. E, tuttavia, in cuor mio io non sono affatto certo che oggi noi umani sappiamo ancora domare e cavalcare i cavalli. Siamo sicuri che se perdiamo il telefonino, siamo in grado senza Google Maps di andare da qualche parte? Io immigrato digitale ancora sì, mi auguro lo siano ancora le mie figlie che hanno superato la soglia dei trent’anni, sospetto che la maggior parte dei miei giovanissimi studenti – nativi digitali, esemplare incarnazione del postumano – si smarrirebbero.

Purtroppo, come vedete, una seconda notizia, una brutta notizia, è arrivata ed è arrivata molto presto. Quel “mezzo” stupido che è l’intelligenza artificiale retroagisce sull’intelligenza umana, condiziona e trasforma profondamente le nostre capacità cognitive e le nostre abilità pratiche. Ne potenzia alcune, ma ne depotenzia altre a lungo rappresentate dal pensiero, almeno dal pensiero occidentale, come coessenziali agli esseri umani.

Agere sine intelligere, operare senza decidere

La narrazione sulla perdurante superiorità dell’intelligenza umana è un formale omaggio alla visione classica della tecnica e della tecnologia quali forme di azione guidate da regole e orientate, attraverso l’uso di strumenti, verso scopi determinati. Diciamo, in estrema sintesi, la tecnica e la tecnologia come mere estensioni, protesi, delle capacità umana.

Dal punto di vista analitico, la parte più interessante della costruzione di Floridi è, tuttavia, quella nella quale viene squadernato il ruolo pervasivo delle nuove tecnologie digitali nella vita quotidiana, la loro capacità di strutturare in modo profondamente diverso dal passato le relazioni tra gli uomini e di praticare un modo nuovo di conoscere il mondo. Uno scavo di grande profondità sulla morfologia della ragione digitale, sulle condizioni che ne hanno determinato l’ascesa. Uno scavo condito con la ‘proposta’ di limitarne gli eccessi, di mettere al centro le persone in nome di un umanesimo digitale che oggi è parola d’ordine che trasversalmente attraversa significative parti del mondo religioso e laico.  Uno sguardo che rifugge da banalizzazioni quali la neutralità della tecnica e dal ricorso all’esempio trito e ritrito del coltello che può essere usato tanto come ‘strumento’ di morte quanto in cucina per assai utili scopi pratici.

Sostiene Floridi: la cesura dell’epoca digitale con la preistoria e con la storia è netta. Nelle società preistoriche “le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”, le ICT (Information and Communication Technology), sono assenti. Nelle società storiche queste tecnologie, benché grandemente sviluppate, si ‘limitano’ a registrare, trasmettere, utilizzare dati di ogni genere. Nelle società iperstoriche – esemplarmente i paesi del G7 – la capacità delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione di processare dati sono diventate, in virtù di un sempre maggiore potere computazionale fornito dai processori e della disponibilità di una quantità enorme di dati, condizioni essenziali per promuovere lo sviluppo economico e il benessere.

Tutto ciò che è reale è informazionale, tutto ciò che è informazionale è reale, dice hegelianamente Floridi. L’homo digitalis vive nell’iperstoria, altro che alla “fine della storia”. In società iperstoriche, altro che nelle thatcheriane “società che non esistono”. L’homo digitalis vive nell’infosfera, un ambiente fatto solo di informazioni in cui si svolge interamente la sua esistenza, in cui non è possibile distinguere tra vita on-line e vita off-line. L’homo digitalis è sempre connesso, costantemente online, ogni giorno dell’anno, ad ogni ora del giorno, in un eterno presente che mette fuori gioco la nostra ‘arretrata’ percezione del tempo e dello spazio. L’homo digitalis trascorre la sua esistenza in un ambiente che intreccia indissolubilmente offline e online, come l’acqua alla foce del fiume che non è né dolce né salata ma salmastra. Il nostro cellulare ci geo-localizza continuamente, il nostro orologio digitale misura le nostre attività fisiche, noi disponiamo costantemente di un mare di dati che con un semplice click – non se ne abbia il vecchio Lenin – ci forniscono un sicuro orientamento sul che fare: su come, in qualsivoglia situazione, è più opportuno agire e operare.

Nell’infosfera i dati hanno preso il posto delle conoscenze e le connessioni quello delle relazioni. La forza delle connessioni, come recita un martellante spot pubblicitario. Il digitale non è semplicemente uno strumento, non è nemmeno la nostra seconda pelle, ma è l’acqua in cui nuotiamo, un modo in cui mettiamo in forma la nostra esistenza, i nostri pensieri, il mondo che ci circonda. Una forma di vita nella quale le uniche scelte razionali sono quelle basate sul calcolo in ordine al risultato più conveniente da perseguire: agere sine intelligere.

Nell’infosfera per agire non serve l’intelligenza umana, qualsivoglia cosa questa sia. E persino l’agire è diventato un mero operare senza decidere sottoposto a una sempre più stringente misurazione (Han, 2015). E non solo nei luoghi di lavoro, come già avveniva nelle fabbriche fordiste, nelle quali, peraltro, gli operai avevano imparato a porre dei limiti ai ritmi senza fiato del taylorismo.

La costituzione del digitale

 Me ne sono occupato in un mio volumetto, Postpandemia. Lì sottolineavo come la costituzione del digitale (M. Ricciardi, 2018) è sempre più la nostra costituzione materiale anche quando le nostre giornate sembrano equamente divise tra la frequentazione dell’antica sfera sociale e la “frequentazione” dell’infosfera. Per farlo mi ero servito di un diario immaginario, ma tutt’altro che improbabile, scritto da Alessandro Vespignani in un libro dal felice titolo L’algoritmo e l’oracolo (A. Vespignani, 2019). Il diario non di un rider – e di tutti quei sempre più numerosi lavoratori il cui capo è anche ‘formalmente’ un algoritmo (A. Aloisi, V. De Stefano, 2020) – ma di un professionista o colletto bianco dei nostri giorni. Vale la pena, per la sua esemplarità, attingervi ancora.

6.30: Suona la sveglia. Guardo fuori dalla finestra, il cielo è nuvoloso. Prendo lo smartphone e guardo le previsioni del meteo. La giornata comincia male, pioggia al 70 per cento fino alle 9.00. Prima di uscire devo prendere l’ombrello.

8.00: stiamo uscendo da casa. Prima fermata: lasciare i figli a scuola. Il telefono fa un sommesso rumore di campanelli. Mi notifica che è previsto traffico sulla tangenziale. Consiglia di prendere l’autobus e attraversare il centro. Il tragitto è quattro minuti più corto. Mi fido.

8.30: Sulla metropolitana ascolto un po’ di musica per ingannare il tempo. La mia applicazione mi mostra due nuovi gruppi che a suo avviso dovrebbero essere di mio gradimento. Ho tempo di ascoltare solo un paio di brani, ma sembra roba forte. Metto dei like e acquisto gli album.

9.00: al lavoro comincio a guardare le nuove mail. Tra queste, Amazon e Springer mi segnalano le uscite editoriali della settimana che potrebbero interessarmi. Sono indietro con le letture, ma non posso perderli. Li sposto nel carrello.

10,30: Un altro rumore nel telefono. Sono i suggerimenti quotidiani del mio servizio digitale di rassegna stampa che indica gli articoli più adatti a me. Li scorro velocemente e mi riservo di leggerne un paio sulla via del ritorno a casa.

11,30: pausa caffè con veloce visita delle pagine dei giornali su internet. Il Ministero della Sanità ha lasciato le ultime predizioni sulla stagione influenzale. Il picco dovrebbe arrivare più tardi quest’anno, ma l’influenza si annuncia severa. Mi devo ricordare di prendere l’appuntamento dal dottore per fare il vaccino.

13,30: Pausa pranzo con i colleghi di lavoro. Lunga discussione sulle ultime predizioni elettorali. Manca ancora un mese al voto, ma le tendenze sembrano ben definite. L’errore statistico lascia però ancora spazio ad accese discussioni.

15,30: Lunga ricerca su internet per lavoro. Sarebbe impossibile senza motori di ricerca come Google o Bing. A ogni ricerca, la lista dei suggerimenti centra in pieno quello che è rilevante per me.

16,30: Buone notizie dalla banca. La mia richiesta di prestito è stata accettata. Apparentemente il mio tasso di affidabilità è piuttosto alto perché mi hanno abbassato di un quarto di punto gli interessi.

17,30: Non resisto dal fare una pausa “social”: la rete mi suggerisce di seguire un certo numero di persone che mi sono affini. Scorro tra i post e le immagini e piazzo un bel numero di like e follow.

18,30: Il telefono mi segnala che il mio autobus passerà alla fermata alle 18,47, meglio cominciarsi a muovere.

19,35: Faccio una piccola spesa al supermercato prima di tornare a casa. Sul retro degli scontrini c’è una serie di buoni acquisti che consigliano prodotti da acquistare. E la carta di fedeltà di quest’anno mi ha già fatto risparmiare oltre 200 euro.

21,30: Giornata lunga, i bambini ormai sono a letto. È il momento di rilassarsi e guardare qualcosa in televisione. Lasciamoci suggerire un film da Netflix…

La nostra dipendenza dagli algoritmi, sottolineavo in Postpandemia, è tutt’altro che diminuita nella pandemia e dopo si è ulteriormente accresciuta. Siamo costantemente “aiutati” da una massa crescente di algoritmi che prevedono tutto quello che ci succede intorno, i nostri bisogni e le nostre prossime mosse. Un mondo magico dove un pantheon di indovini digitali ci ricorda cosa sarebbe meglio che facessimo e in cui possiamo prevedere molte cose ed essere previsti. Per avere un quadro della nostra vita e anticiparne i prossimi risvolti sono sufficienti le informazioni che noi stessi mettiamo a disposizione. Volontariamente, ogni giorno. Tutte le volte che prenotiamo un viaggio online viene registrato il tipo di vacanza che possiamo permetterci e le nostre destinazioni preferite; quando paghiamo la spesa con una carta di credito vengono annotati i prodotti che compriamo con maggior frequenza; lo smartphone tiene una traccia precisa dei nostri spostamenti segnando la nostra posizione con il GPS; i social analizzano in tempo reale le nostre conversazioni, il loro segno emotivo. Questi dati vengono poi confrontati con quelli di milioni di altre persone e ci ingabbiano in profili psicometrici che permettono di prevedere con sempre maggiore facilità i nostri gusti musicali, letterari, cinematografici. Così i dati alimentano le analisi del presente e disegnano le mappe del nostro futuro. Per questa ragione tutto ciò che è reale è informazionale e tutto ciò che è informazionale è reale, può ben dire Floridi.

Come eravamo

Osservare e stare al mondo in termini quantitativi e misurabili non è un portato esclusivo della rivoluzione digitale. È una postura intellettuale di lunga durata della mentalità occidentale.  La superiorità della matematica si nutre anche di motivi arcaici e ancestrali. Una fede potente, la fede incondizionata in un Dio, l’algoritmo, che ci indica in ogni momento la corretta procedura da seguire per superare gli ostacoli che incontriamo nel nostro cammino e per soddisfare i nostri bisogni e desideri. Un Dio artificiale e più rassicurante del Leviatano hobbesiano. Premuroso e attento alle nostre esigenze concrete, pratiche, quotidiane.

L’algoritmo emana quel fascino dei numeri che risale alla notte dei tempi e che risponde al “desiderio antico quanto l’uomo” di rivolgersi a indovini che prevedono il futuro e ci consentono di controllarlo (A. Vespignani, 2019). Si legga l’elegante esergo del libro di Vespignani: «Verrà poi l’indovino, o signore di eroi, e ti indicherà il cammino, la lunghezza del viaggio e come potrai ritornare nel mare ricco di pesci» (Omero, Odissea, X). E poi Robert Musil che nel 1930 annuncia che nella matematica «abbiamo la nuova logica (…) qui sono le scaturigini del tempo e le fonti di una portentosa trasformazione» (R. Musil, 1957). E predice che la scienza stava assumendo le forme trascendentali della matematica, una scienza che rivendica un primato dell’astratto sul concreto, un metodo universale che non si identifica con le sue applicazioni concrete, una logica la cui validità è garantita da formule inoppugnabili e inafferrabili.

Una scienza che, almeno in via di principio, non rinuncia al suo statuto teoretico (universalità e astrattezza) e le cui conoscenze possono trasversalmente essere usate tecnologicamente, programmate per intervenire nelle diverse aree della vita, per fare cose in modo riproducibile. L’algoritmo, matematica oggettivata, tecnologia per eccellenza, regola codificata secondo criteri logici che installati in una macchina consentono di individuare la “best solution” nelle scelte che perplimono gli uomini. L’algoritmo, regola che consente di «controllare e prendere decisioni su tutto ciò che ha a che fare con le nostre vite» (D. Bell, 1973).

La bussola di ogni giorno. Quel centro di gravità permanente vanamente cercato da Franco Battiato in un suo celebre motivo e che ricorda quelle “istruzioni a viva voce” contenute in un catechismo. Poche, elementari, chiare e inequivocabili istruzioni destinate a guidare le concrete e contingenti esperienze vissute dagli uomini secondo una prassi sempre conforme alla Parola di Dio. Una parola non umana, esattamente come si presenta oggi un algoritmo che contiene un compito (Beruf) assegnato per risolvere senza incertezze i problemi dell’esistenza e la cui esatta implementazione catechistica ci ricompensa per aver operato in conformità o ci punisce per non averlo fatto. Il fascino antico di una verità sottratta alla caducità, resistente alla contingenza del tempo. Negli odierni algoritmi sentiamo la forza normativa di una Parola rivelata, idonea a supplire, tramite un ordine numerico che riduce e risolve ogni complessità in calcolo, una ragione vacillante. Una Parola che si è fatta macchina (R. Bodei, 2019).

Questa religione dei dati e del calcolo non ha, tuttavia, sempre pervasivamente connotato il nostro pensiero. Il come eravamo è pieno di antidoti che la sintassi del dataismo ha opacizzato, oscurando una semantica ben più ricca. Certo Calculemus era il motto di Leibniz! Certo Hobbes aveva definito il ragionamento nei termini di un calcolo reso possibile dal linguaggio e il digitale è certamente un linguaggio. Ma quella, si è ricordato, era gente che stava fabbricando il pensiero intorno alla centralità dell’intelligenza umana. Mentre oggi – osserva l’apocalittico – è proprio questa centralità che il dominio dei numeri, dei dati, del calcolo mette in discussione (A. Andronico, 2021).

Quale tipo di umana intelligenza? Lascio la parola allo storico israeliano Harari. Non saprei dire di più. Prima che si affermasse il postulato secondo cui «tutto l’universo consiste di flussi di dati e il valore di ciascun fenomeno o entità è determinato dal suo contributo all’elaborazione dei dati, i dati erano concepiti soltanto come il primo passo nella lunga catena dell’attività intellettuale. Si supponeva che gli uomini distillassero dai dati le informazioni, dalle informazioni la conoscenza e dalla conoscenza la saggezza» (Yuval Noah Harari, 2017).

Al contrario, nell’infosfera delle società iperstoriche i dati sono tutto e non v’è necessità di una teoria che spieghi la causalità della loro correlazione. É sufficiente la correlazione in sé tra grandi quantità di dati (i big data) a generare la conoscenza. È la regolarità, sono le correlazioni senza causa, a fare la regola. “Quantitas non auctoritas facit legem” (A. Garapon, J. Lassègue, 2021). La quantitas è auctoritas e veritas, è ciò che determina ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (D. Roccaro, 2023).

È, in tal modo, sancita, la superiorità epistemologica della correlazione di dati, se posseduti in gran numero e connessi tra loro tramite tecnologie digitali. É il declino della teoria come metodo di conoscenza, è il declino del moderno metodo scientifico. È il capovolgimento della posizione ricoperta dagli uomini che da soggetti agenti dell’elaborazione dei dati diventano beneficiari del ‘lavoro’ fatto dagli algoritmi e loro strumento. È il cogente imperativo della nuova costituzione materiale, la costituzione digitale: produrre e consumare più dati possibili, connettere ogni cosa – uomini e oggetti – e lasciare agire una “mano invisibile del flusso di dati” da cui di ricavare ogni significato (Harari, 2017).

La leggenda della fine del lavoro

 Stiamo esagerando, dice con moto di razionale rivolta l’integrato. Non siamo, come evocano gli apocalittici, di fronte alla fine del mondo, siamo ‘solo’ di fronte alla fine di un mondo. È un immaginario ‘arretrato’ che ci fa vedere quanto accade come “disordine privo di senso”, laddove un nuovo senso sta – aveva detto a suo tempo il giurista maledetto del XX secolo – lottando per il suo ordinamento (C. Schmitt, 1986). Questo nuovo senso, quest’uomo nuovo, questo nuovo ordinamento, potrà non piacerci. Ma è di questo che dobbiamo occuparci quando parliamo di intelligenza artificiale.

Parliamone, allora. Parliamo, per capirci concretamente qualcosa, di lavoro. Di quella ‘cosa’ che in epoca moderna è stata vissuta come qualcosa di fondamentale per il nostro essere umani. Per Marx di più, l’essenza dell’uomo. Una rappresentazione che ha alimentato in milioni di persone, le cui giornate trascorrevano in una condizione di penosa fatica, la convinzione che il lavorare, una volta liberato dalla schiavitù salariale in cui il capitalismo lo ingabbiava, conteneva in sé il seme di un oltre, di un’universale umanità. E che per questo quando la reale condizione lavorativa era sideralmente distante da quella futura umanità se ne poteva cantare il tradimento. Se ne poteva piangere e sorridere, anche se amaramente. Il lavoratore salariato della catena di montaggio incarnato da Charlie Chaplin in Tempi moderni è un uomo sconfitto, non vinto.  Quel lavoratore non avrebbe potuto ‘cantare’ la riduzione del suo fare a una attività meramente meccanica, ripetitiva e asservita a un fine esterno, se non avesse avuto consapevolezza che la riduzione del lavoro a mero mezzo di sopravvivenza non era una legge eterna ma un fatto sociale, storico.

Poco importa quanto fondato fosse il postulato a fondamento di questa consapevolezza. Il postulato che il capitale è lavoro morto e che, viceversa, è la forza lavoro, il lavoro concreto, a produrre valore vivo, il valore d’uso delle cose. Importa che questa semantica del lavoro alimentava la convinzione che il lavoro oltre ad essere un mezzo di sopravvivenza fosse la più alta delle forme di vita.   Quella funzione o attività che concorre al progresso materiale e spirituale della società, come si evince dall’art. 4 della nostra Costituzione.

Una semantica – osserva l’integrato – che nelle nostre società iper-storiche non c’è più. Ed ha ragione. Quando leggo in aula ai miei studenti la formula costituzionale appaio ai loro occhi uno zombie, un morto che parla. E tuttavia, ai miei studenti apparirei ugualmente uno zombie – e sarei comunque un cattivo maestro – se dicessi loro che per effetto della rivoluzione tecnologica e digitale le nostre società stanno diventando società del non lavoro. I miei studenti temono di non trovare lavoro, ma vedono all’opera intorno a loro una società di iper-lavoratori.  Per loro la profezia del non lavoro è una leggenda consolatoria. I loro genitori e conoscenti, i loro coetanei che hanno una occupazione, lavorano senza fiato e nella stragrande maggioranza dei casi non hanno alcuna intenzione, né concreta possibilità, di smettere di farlo.

Nella morsa di questa contraddizione tra leggenda e realtà, l’apocalittico è chiamato a fare i conti con quella che per l’integrato è una buona notizia. L’avvento dell’intelligenza artificiale non sta affatto comportando la fine del lavoro. Dall’inizio dell’ultimo boom dell’intelligenza artificiale non si è prodotta alcuna disoccupazione di massa ed è possibile, anzi, che in futuro l’occupazione nel suo complesso sia destinata a crescere. Qui le fonti sono meno note di quelle alle quali abbiamo attinto sin qui ma ugualmente degne di considerazione.

La profezia della fine del lavoro narrava che la diffusione dell’intelligenza artificiale avrebbe prodotto una crescita della disoccupazione tecnologica, che l’automazione avrebbe alimentato la tendenza a sostituire progressivamente con le macchine un numero crescenti di lavoratori.  Un fenomeno che riguarda qualche settore rappresentato come una ‘legge’ universale. Ma oggi sappiamo che la tendenza più generale non è quella di una completa sostituzione dei lavoratori quanto quella dell’automazione di micro-compiti modulari e del connesso rafforzamento della polarizzazione tra lavoratori qualificati e lavoratori non qualificati nel mercato del lavoro (M. Pasquinelli, 2024).

È ciò che emerge plasticamente dal modo come le piattaforme dell’intelligenza artificiale organizzano la vita di tanti lavoratori e utenti. Prendiamo ChatGpt. Milioni di lavoratori e utenti collegati da casa o dall’ufficio a un solo data center situato negli Stati Uniti (Utah) che elargisce loro risposte cogenti sul che fare. Un monopolio globale del lavoro in rete e una forma reticolare di automazione nella quale i lavoratori operano come organismi cibernetici (cyborgs) che forniscono una miriade di micro-compiti automatizzati. Un sistema che non sostituisce affatto i lavoratori. Li moltiplica, genera una crescita della sottooccupazione, chiede a crescenti masse di persone di lavorare in modo più saltuario e frammentato. Non di meno ma di più.

La leggenda della fine del lavoro è, poi, smentita dal parallelo aumento esponenziale dell’area del lavoro gratuito. Quel lavoro invisibile che viene esternalizzato da imprese e pubblica amministrazione quando viene chiesto a utenti e cittadini – i c.d. prosumatori – di contribuire alla produzione degli stessi servizi che consumano. Un fenomeno che si è ampliato con la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. A partire dal lettore ottico e del codice a barre dagli anni Settanta dello scorso secolo abbiamo assistito ad una proliferazione di dispostivi tele-tecnici volti a catturare, accumulare e commercializzare dati relativi alle nostre forme di vita, ai nostri comportamenti, alle nostre attività in ambiti che un tempo consideravamo extra-lavorativi.

Lavoro senza fine

 Una messa al lavoro della vita, della vita biologica e psichica. Un lavoro senza fine (A. Cantaro, D. Caporalini, 2024). Per la felicità delle grandi corporation della Silicon Valley (M. Bertorello, C. Marazzi, 2024), annota il redivivo apocalittico, prendendosi una rivincita sull’integrato. Gli umani – osserva – quanto a sfruttamento non se la passano oggi meglio della natura. Automazione e digitalizzazione non ci stanno affatto facendo faticare di meno. Assistiamo, anzi, ad una continua richiesta di intensificare i ritmi di lavoro, di adattare ritmi del lavoro e del consumo a quelli senza respiro delle macchine (G. Maran, 2024). Fare di più, farlo nello stesso tempo, con lo stesso salario, con un salario minore, sotto il ricatto che, se non saremo flessibili e resilienti, le macchine dell’intelligenza artificiale – un nuovo marxiano esercito industriale di riserva – ci ruberanno il lavoro.

Un mondo di lavoratori senza lavoro – quel mondo profetizzato e aborrito da Hanna Arendt nella sua magistrale opera La condizione umana – è l’attuale condizione esistenziale dei lavoratori dei nostri giorni, dei lavoratori digitali. Lavoratori senza lavoro. Lavoriamo tutti e tutti più di prima ma in assenza della semantica del ventesimo secolo, della semantica del secolo del lavoro.  Senza sentire di “concorrere al progresso materiale e spirituale della società”, a partire dal nostro personale progresso, dal nostro incivilimento.

La nuova semantica è quella, intimamente interiorizzata, del massimo rendimento, secondo quanto esige la parola magica – performance – dei nostri tempi postmoderni e postumani. Lo spettacolo di una riuscita totale agita dall’imperativo del massimo rendimento, del rendimento estremo, dall’imperativo di esseri sempre iperattivi e ultra-reattivi, di “sfondarci” di lavoro. E poi, coloro che possono, dedicare quel poco che residua al godimento estremo, estremo come il tempo in cui ci si sfonda di lavoro: lo shopping, gli inderogabili aperitivi serali, il sacro week end. Umano, troppo umano.

Tutto già iscritto nella Weltanschauung della ragione neoliberale, nel postulato in questi anni largamente inveratosi nella realtà che tutto ciò che ciascuno individuo possiede e fa può essere messo a valore. Che non è la forza lavoro ad avere un valore, ma tutta la persona – tutte le sue capacità fisiche cognitive ed emotive – ad avere un valore, ad essere un capitale, un capitale umano. Che l’attività lavorativa non è la messa a disposizione di forza-lavoro in cambio di un salario, ma l’attività di chi in base ad un razionale calcolo costi/benefici mette a frutto tutte le risorse di cui dispone al fine di ottenerne un rendimento. Una suadente promessa che non lascia spazio nemmeno alla soggettività alienata e, tuttavia, critica dell’operaio di Tempi moderni.

Il rendimento/reddito che ciascuno individuo ottiene dipende solo dalla razionale e intensiva messa a frutto delle sue capacità umane. Il lavoratore non ha un capitale, è un capitale. A disporre di capitale non è, infatti, solo chi dispone di proprietà in senso giuridico – banchiere e imprenditore – ma ciascun individuo in virtù delle capacità qualitative di cui dispone in termini di forza biologica, di attitudini, di conoscenze. Non si dà alcuna differenza tra un finanziere di Wall Street e un minatore cileno. Entrambi lavorano, anzi più esattamente investono il capitale umano di cui dispongono. La differenza è solo di grado. Il finanziere percepirà un reddito superiore a quello del minatore perché farà fruttare un capitale maggiore di competenze e attitudini. Democratico, troppo democratico.

 Prolegomeni per un’altra antropologia civica e politica

 È tempo di mettere dei punti fermi, oltre il salomonico gioco del pendolo tra integrato e apocalittico su cui ho troppo indugiato.

Primo punto. Le tecnologie non sono mai neutrali, tanto meno quelle odierne. A rivelarcelo sono le opposte reazioni emotive, di aprioristico entusiasmo o di grande paura, che suscitano in noi. La tecnica ci entusiasma perché promette di liberarci dai nostri limiti. Ma, allo stesso tempo, ci angoscia per i nuovi vincoli che ci impone: la tecnica è affrancamento e schiavitù.  Prometeo, il titano che dona agli uomini il fuoco, incarna il sentimento che spinge l’uomo a superarsi. La feroce punizione a cui lo sottopone Zeus incarna l’oscuro timore che la sua audacia sia punita per aver sfidato la sacralità della natura, per aver valicato le Colonne d’Ercole poste a limite della sua hybris (G. O. Longo, 2016).  Antiquato – questo è il mio primo punto fermo – è chi non prova entusiasmo per la tecnica ma anche chi non ne prova paura.

Secondo punto. L’homo sapiens è un homo technologicus. Dalla notte dei tempi costruisce strumenti per interagire con l’ambiente, conoscerlo e trasformarlo. Gli strumenti, a loro volta, retroagiscono sull’uomo, lo modificano, ne foggiano l’essenza. Un processo dinamico fatto di evoluzione biologica ed evoluzione tecnologica talmente intrecciate da fare dell’homo technologicus un simbionte, un ibrido di biologia e tecnologia. La metafora della simbiosi (vita in comune, in greco) che diamo per scontata a proposito del nostro rapporto con batteri, cibi, piante, animali domestici, è altrettanto efficace a rappresentare il rapporto dell’uomo biologico con la tecnologia. L’homo sapiens non è “homo sapiens più tecnologia”, ma “homo sapiens trasformato dalla tecnologia (G. O. Longo, 2010 e 2018). E dato che l’attività tecnica non conosce pause, questo homo sapiens/simbionte è sempre soggetto a trasformazione. L’odierna accelerazione della tecnologia ci fa vedere quello che in passato non abbiamo visto nitidamente: che da sempre corpo e mente vengono modificati, potenziati e depotenziati da strumenti che circondando e invadendo l’uomo influiscono profondamente sulle sue facoltà percettive e cognitive. Facoltà che postulavamo condizionate dai nostri limiti biologici ma che oggi ci si propone di superare tramite protesi sempre più ibridanti. Con il computer, con tecniche genomiche, con dispositivi miniaturizzati che interagiscono con organi e cellule del corpo, dando vita ad un simbionte di nuovo tipo dotato di capacità inedite e imprevedibili. È il postumano, bellezza! Si ripropone all’ennesima potenza l’interrogativo al centro delle nostre giornate: è antiquato l’uomo entusiasta per un postumano che supera antichi limiti biologici o l’uomo che ne prova paura?

Terzo punto. Oggi siamo oltre le tecnologie riparative, quali la genomica e le tecnologie biomediche. Siamo nel tempo anche delle tecnologie potenziative che fanno di ciascuno di noi una cellula ibrida di un macrorganismo che invade tutto il globo di cui Internet è il sistema nervoso embrionale e di cui noi ci avviamo a diventare gli elementi costitutivi di una creatura planetaria virtualmente capace di auto organizzarsi e di auto evolversi. Questo sempre più intimo intreccio di biologia e tecnologia, di interconnessione in rete dei simbionti, mette in discussione l’immagine plurimillenaria di un mondo del vivente ben separato dal mondo del non vivente artificiale. Siamo ad uno stadio evolutivo ulteriore rispetto all’homo sapiens? Sta sorgendo una nuova specie che andrà oltre i risultati dell’homo sapiens così come questo aveva superato quelli dell’Homo erectus?  A questo interrogativo il matematico ed epistemologo Giuseppe Longo risponde che “così come Homo sapiens è sempre stato Homo technologicus, allo stesso modo Homo technologicus è sempre stato Post-umano, cioè si è sempre trasceso proprio grazie alla tecnologia. Oggi il carattere permanentemente post-umano dell’uomo è visibilissimo, mentre in passato era impercettibile. Di fatto non esiste una tecnologia grazie alla quale, o un momento nel quale, nasce il post-umano” (G. O. Longo, 2010 e 2018). Dunque, un mondo, aggiungo io, popolato da postumani. Un mondo fantascientifico ma oggi divenuto plausibile per il riduzionismo informazionale per il quale, come sappiamo, tutto ciò che è informazionale è reale e tutto ciò che è reale è informazionale.

Quarto punto. Il postumano del riduzionismo informazionale è un essere disincarnato. Il suo corpo è indifferente, superfluo, sostituito da un supporto arbitrario che serve solo a contenere lo sciame di bit che ne descrivono la struttura. Ciò che conta non è la materia, l’hardware, ma il software. L’informazione contenuta nel suo corpo può essere estratta e introdotta in un altro corpo, in una macchina, nella ferraglia e nel silicio di un robot. Se l’identità di un Sé consiste in una certa configurazione neuronale, in un insieme di forme d’onda, allora il corpo (biologico o biotecnologico) diventa una sede occasionale e trascurabile del Sé che può essere trasferito in qualunque altro supporto. Ad essere ‘antiquata’ non è più solo l’anima ma anche quell’ingombrante fardello che è il corpo, la sua riottosa propensione al peccato, la sua imbarazzante capacità seduttiva, la sua scandalosa attività copulatoria, la sua miserabile caducità. Il riduzionismo informazionale, oltre ad opporsi alla natura trasgressiva e imprevedibile del genio al quale preferisce la mente calcolante e funzionalista dell’intelligenza artificiale, si oppone anche alla natura insubordinata del corpo, al suo «pescare» incessantemente nell’ambiente, al suo ricevere senso dalle interazioni che intrattiene con il contesto (G.O. Longo, 2010). Il riduzionismo informazionale è distante anni luce da quel “noi diacronico e sincronico” di cui parla Luigi Alfieri in un suo toccante e pervasivo scritto (L. Alfieri, 2023).

Quinto punto. É questo senso – il senso incalcolabile che promana dal contesto delle relazioni affettive, sociali, storiche – che la ragione digitale intende mettere fuori gioco in nome di un altro senso che vuole rendere il mondo più controllabile, misurabile, prevedibile. Non serve che io ricordi quali interessi potenti veicolano questa Weltanschauung. Non serve che io dica quanto temerario sia opporvisi. Le tecnologie digitali agite dal tecno-capitalismo irrompono in un “mondo” che ha già ampiamente interiorizzato la convinzione che “stabilire dei fini e deliberare coerentemente” è una qualità superflua. Le tecnologie digitali lasciate libere di dispiegarsi incentivano all’ennesima potenza questa convinzione. L’esposizione ripetuta e intensiva alle tecnologie on line sta già cambiando il nostro cervello, spostando l’attività neurale dall’ippocampo (l’area del cervello coinvolta nel pensiero profondo) verso la corteccia prefrontale (la parte del cervello coinvolta nelle transazioni rapide, subconsce).

Sesto punto. Non esistono risposte individuali per combattere l’ingiunzione ad essere permanentemente connessi. La tecnofobia ha un terribile costo sociale. Ci trasforma in cittadini inutili e improduttivi. Essere offline equivale ad avere un’esistenza totalmente ignorata, come l’albero secolare che crolla nella foresta quando non c’è nessuno a sentire il rumore dello schianto. Certo, possiamo bloccare le app e limitare l’accesso a Internet ed evitare, così, alcune “distrazioni digitali”. Tuttavia, è difficile rinunciarvi (T. Chamorro-Premuzic, 2023; A. Cantaro, 2024). L’intelligenza artificiale rende la nostra vita comoda. Controlliamo l’app delle previsioni del tempo prima di scegliere che cosa indossare; usiamo “Vivino” per vedere la valutazione data a un vino dagli utenti. È già per tanti una prassi chiedere a Google cosa studiare, dove lavorare, chi sposare. La combinazione di biotech e tecnologie digitali potrebbe giungere a un punto in cui gli algoritmi ci capiscono meglio di quanto comprendiamo noi stessi.  Nei prossimi anni – ricorda Harari – dovremo affrontare la discriminazione individuale e potrebbe essere basata su una ‘buona’ valutazione di ciascuno di noi. Se gli algoritmi impiegati da un’azienda cercano il nostro profilo Facebook o il nostro DNA potrebbero capire con precisione, per ciò che loro serve, chi siamo. Non saremo in grado di fare nulla contro queste discriminazioni. Non verremo discriminati perché ebrei o gay ma perché siamo noi stessi (Yuval Noah Harari, 2024).

Settimo punto. A fronte di questi scenari tanti auspicano una rinnovata etica – l’algoretica – che “regolamenti” il lato pericoloso delle nuove tecnologie. Un’ impresa, temo, che va al di là delle possibilità delle scienze umane. Più promettente è l’orizzonte indicato da Èric Sadin: «presto – questo è il suo auspicio – ci renderemo conto che abbiamo bisogno molto più di mobilitazione che di regolamentazione. È il caso degli sceneggiatori di Hollywood che, nel maggio 2023, quando si sono resi conto che il loro lavoro era in pericolo si sono opposti con coraggio e determinazione per vincere la loro causa”. Non si sono affidati alla regolamentazione che per salvare capre e cavoli li avrebbe mandati al patibolo (È. Sadin, 2024). Fare diventare le mobilitazioni collettive il motore di una consapevolezza più vasta è la strada giusta. Non esistono scorciatoie se non ricostruire la genealogia del dominio della tecnoscienza, se non si comprendono le ragioni del perché ad essa deleghiamo la nostra vita, se non si mette in forma un’altra antropologia che riabiliti l’essere relazionale dell’uomo. Perché, come è stato detto, se il pensiero senza il controllo del calcolo è delirio, il calcolo, sottratto al governo della vita pensante, è insensatezza (A. Masullo, 2011).

Ottavo punto. Noi viviamo oggi in un mondo senza uomini, “l’uomo è antiquato” è la formidabile profezia che ha reso Günther Anders un’icona. Ma al tema dei temi – mettere in forma un’altra antropologia civile e politica – il filosofo austriaco non fornisce risposta. Tuttavia, Anders ha in controluce indicato, in uno scritto del 1984, Eccesso di mondo, una pista ‘pasoliniana’ che va esplorata.  La seguente. L’humus in cui si sviluppa la condizione di un mondo senza uomini è l’essere gli uomini della società delle merci e dei consumi degli uomini senza mondo.  Uomini costretti a vivere all’interno di un mondo che, benché prodotto in funzione della loro vita quotidiana, “non è costruito per loro”.  Il simbolo di questa condizione è il “servo hegeliano”, il cui “essere servo” non è “un essere nel mondo”, poiché egli non vive nel suo mondo ma nel e per il mondo del “padrone”. Una condizione vissuta altresì dal proletariato marxiano che, non possedendo i mezzi di produzione mediante i quali produce, non vive nel suo mondo ma nel e per il mondo del capitalista. Una radicale condizione di illibertà, osserva Anders sviluppando la tesi marxiana, in quanto il proletariato non riesce più nemmeno a immaginare un mondo diverso da quello della classe dominante che, anzi, ormai difende “con i denti e con le unghie”[1]. Nei suoi sviluppi contemporanei, l’epoca del pluralismo culturale, la condizione di uomini senza mondo – osserva Anders – si è allargata a tutte le classi in virtù un universale imperativo della tolleranza che chiede a ciascuno di noi di essere partecipe di molti mondi. Troppi mondi, un eccesso di mondi che non ci fa appartenere più a nessuno mondo determinato. Non solo, infatti, si devono tollerano le ‘divinità altrui’ – gli altrui stili e credi – ma, soprattutto se si è “liberal” e di sinistra, le si deve venerare[2].  “Uomini di mondo”, in realtà “uomini senza mondo”. Questo-e-quest’altro è la parola sacra dei nostri giorni, oggi tutti devono partecipare emotivamente a tutto. Un politeismo dell’al di qua” in cui tutte le merci-divinità e le divinità-merci in concorrenza tra loro, si offrono a pari diritto. Ognuno di noi deve riservare a ogni divinità, quale possibile ospite, un posto a tavola e coloro che avanzano obiezioni a questa promiscuità culturale passano per retrivi, ottusi, provinciali, chiusi, intolleranti, antidemocratici. Una barbarie. La negazione dell’appartenenza a una comunità, a un “mondo vitale”, propagandata come cultura. Un indifferentismo che non ci fa prendere sul serio né la pretesa di verità della posizione tollerata né la nostra verità. Riabilitare le esperienze che ci restituiscono un senso di appartenenza è il primo ineludibile passo per mettere in forma un’altra antropologia civile e politica, alternativa a quella degli apostoli dell’ideologia californiana. L’Universo deve tornare ad essere un pluriverso. Chiedo scusa, ho dimenticato di ricordare il sottotitolo dello scritto di Günther Anders del 1984. “Processi di globalizzazione e crisi del sociale”.

Riferimenti bibliografici

L. Alfieri, Essere uomini, essere in-relazione, in https://fuoricollana.it/essere-uomini-essere-in-relazione/, aprile 2024.
A. Aloisi, V. De Stefano, Il mio capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano, Laterza, 2020.
G. Anders, L’uomo è antiquato, vo. I e II, Bollati Boringhieri, 2007.
G. Anders, Eccesso di mondo. Processi di globalizzazione e crisi del sociale, in G. Anders, Uomo senza mondo. Scritti sull’arte e la letteratura (1984), Spazio libri editori, tr.it. 1991.
A . Andronico, Giustizia digitale e forme di vita. Alcune riflessioni sul nostro nuovo mondo, in “Teoria e Critica della Regolazione sociale”, n. 2, 2021.
H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, 2017.
D. Bell, The Coming of Post Industrial Society, Heinemann, London, 1973.
M. Bertorello, C. Marazzi, Il lavoro non riconosciuto, in https://jacobinitalia.it/rivista/lintelligenza-artificiale-e-la-nostra/, 2024.
S. Bianco, Critica alle magnifiche e progressive sorti dell’IA, in https://fuoricollana.it/critica-alle-magnifiche-e-progressive-sorti-dellia/ , aprile 2024.
R. Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza artificiale, Il Mulino, 2019.
A. Cantaro, D. Caporalini, Fine del lavoro, lavoro senza fine, in https://fuoricollana.it/fine-del-lavoro-lavoro-senza-fine/, febbraio 2024.
A. Cantaro, Intelligenza artificiale. O della “guerra all’umano”, in https://fuoricollana.it/intelligenza-artificiale-o-della-guerra-allumano/, aprile 2024.
T. Chamorro-Premuzic , Io umano. AI, automazione e il tentativo di recuperare quello che ci rende umani, Apogeo, 2023.
L. Floridi, Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide, Raffaello Cortiana Editore, 2022.
A. Garapon, J. Lassègue, La giustizia digitale. La giustizia digitale. Determinismo tecnologico e libertà, il Mulino, 2021.
Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, 2015.
Yuval Noah Harari, Homo deus: breve storia del futuro, Bompiani, 2017.
Harari Yuval Noah, Il futuro tra automazione, nuova moralità e una «classe globale inutile», in https://www.mosaico-cem.it/cultura-e-societa/personaggi-e-storie/futuro-yuval-noah-harari/, 12 aprile 2024.
Giuseppe O. Longo, Morte e immortalità nell’epoca del post–umano, in https://ojs.unito.it/index.php/tropos/article/view/8125, 2016.
Giuseppe O. Longo, Riduzionismo informazionale e postumano, in «Atti della Accademia Roveretana degli Agiati. B, Classe di scienze matematiche, fisiche e naturali», v. 10, 2010.
Giuseppe O. Longo, Il post-umano e il declino dell’Occidente, in C. Bordoni (a cura di), Il declino dell’occidente revisited, Mimesis, 2018.
C. Maran, La lotta per liberare il tempo, in https://jacobinitalia.it/rivista/lintelligenza-artificiale-e-la-nostra/, 2024.
A. Masullo, La libertà e le occasioni, Jaca Book, 2011.
R. Musil, L’uomo senza qualità, trad. it., Einaudi, 1957.
M. Ricciardi, La Costituzione del digitale, in DigitCult- Scientific Journal on Digitales Culture, vol. 3, n. 3, 2018.
M. Pasquinelli, Operai e algoritmi, in https://jacobinitalia.it/rivista/lintelligenza-artificiale-e-la-nostra/, 2024.
D. Roccaro, Predizioni normative. Giustizia e rivoluzione digitale, Mimesis, 2023.
È. Sadin, Secessione. Una politica di noi stessi, LUISS University Press, 2022.
É Sadin., Regolamentare l’IA non serve, è il momento di mobilitarsi, in https://www.editorialedomani.it/idee/cultura/intelligenza-artificiale-ia regolamentazionetecnologia-qpc71fpk , 27 marzo 2024.
C. Schmitt, Terra e mare, Milano, 1986.
A. Vespignani, L’algoritmo e l’oracolo. Come la scienza predice il futuro e ci aiuta a cambiarlo, Il Saggiatore, 2019.

 

[1] Quando, ad esempio, lotta per un posto di lavoro in cui si producono spesso cose prive di senso o, peggio, che provocano catastrofi e al quale afferma di avere sacrosanto diritto.

[2] Questa pretesa di tolleranza assoluta è talmente interiorizzata che dà per vere cose che sentiamo come false. E poiché le diverse e innumerevoli divinità che veneriamo non hanno niente a che fare tra loro, esse non formano neppure un’orda o un party divino, ma solo un brulichio. Le religioni diventano ambiti culturali quando non vengono più credute. Il plurale “Cristi”, nonostante il fatto che migliaia di figure di Cristo si trovino nei luoghi di preghiera, non esiste nella religione: per il credente diecimila figure di Cristo, anche se diverse nell’aspetto del corpo, del viso, nella dimensione e appartenenti a differenti stili, non sono diecimila; tra le diecimila riproduzioni il credente coglie sempre e solo un Cristo.

Stampa o salva l’articolo in Pdf

Newsletter

Privacy *

Ultimi articoli pubblicati