IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Chi ha spento le luci della pace?

L’orologio della guerra è un libro meditato. La responsabilità della guerra in atto grava su chi l’ha iniziata, ma anche su chi non l’ha saputa prevenire. Il libro semmai parla poco dell’Ucraina, una nazione che sta vivendo adesso il suo mito fondativo. Quale che sia l’esito del conflitto, una sconfitta per Putin.

Questo bel libro di Antonio Cantaro, L’orologio della guerra. Chi ha spento le luci della pace (NTS Media, Roma 2023, pp. 212), in presa diretta sugli eventi, ricco di un intenso e sofferto impegno etico-politico, non è per questo meno lucido e meditato. Raccoglie, assai opportunamente, una nutrita serie di interventi, prevalentemente ma non esclusivamente sul tema della guerra in Ucraina, svolti in varie circostanze nel corso dell’ultimo, drammatico anno. Non solo sul tema della guerra, si diceva: da segnalare in proposito i due brevi scritti su Bruno Trentin (pp. 121-137) e su Enrico Berlinguer (pp. 157-164), esponenti di una sinistra forte, libera, civile, che sembra essere sparita, quasi di colpo, in un altro universo. Ma il tema della guerra è di gran lunga prevalente, e del resto fra il tramonto della pace nell’orizzonte europeo e la dissoluzione dell’impegno politico e di pensiero di quella sinistra immediatamente post-marxista (o criticamente marxista, forse: ci sarebbe da discuterne) c’è un legame non casuale.

Gorbaciov, un appuntamento mancato

Cantaro non tace, naturalmente, che la responsabilità della guerra grava in primissimo luogo su chi l’ha iniziata, mediante un’ingiusta aggressione in clamoroso contrasto col diritto internazionale: la Russia di Putin. Ma non è manicheo né semplificatorio: ogni guerra ha cause radicate, di lungo periodo, ed è responsabilità non solo di chi l’ha decisa, ma anche di chi, negli anni o decenni, non l’ha saputa prevedere e prevenire. E sotto questo profilo la sparizione della sinistra c’entra eccome. Quel che è accaduto in Italia discende da eventi globali, e la causa, remota ma determinante, della guerra in atto è stato il tramonto di modelli alternativi a quello che, negli Stati Uniti come in Europa è sembrato per decenni il modello sociale vincente ed anzi, ormai, l’unico possibile, perché indiscutibilmente il migliore: il neoliberismo tecnocratico e, in politica internazionale, la leadership unipolare degli Stati Uniti.
A farlo comprendere basta un nome: Gorbačëv (pp. 69-83). Il suo progetto politico di riforma interna dell’Unione Sovietica richiedeva un panorama internazionale di pace e collaborazione in un’ottica multipolare. Un superamento della guerra che avrebbe potuto essere (per quanto umanamente possibile) definitivo, ma in un mondo complesso e multiforme, non appiattito su un unico modello. Non voleva essere, quel progetto, una resa dell’Unione Sovietica e una sottomissione adorante all’Occidente. E per questo, nonostante la peraltro superficiale popolarità mediatica del suo autore, all’Occidente il progetto di Gorbačëv non piaceva. Venne interpretato come un atto di debolezza in cui si manifestava la vittoria finale dell’Occidente, e in quest’ottica agirono gli Stati Uniti, con Reagan e ancor più con Bush. “La via auspicata e tracciata da Gorbačëv è stravolta. Netto il capovolgimento di orizzonti. Ci si appropria del traguardo indicato dal leader sovietico per mutare percorso e punto di arrivo. In luogo dell’incontro fecondo di universi il nuovo ordine mondiale origina una epocale asimmetria, segnata dall’unilateralismo a stelle e strisce e dalla dipendenza di Sud ed Est del mondo dall’Occidente” (pp. 75-76). Dal vertice G7 di Londra del luglio ‘91 Gorbačëv uscì delegittimato: “Di fatto è il via libera ai golpisti, alla dissoluzione dell’URSS, a Eltsin, alla rivolta della nomenklatura che nelle varie realtà sceglierà la propria sopravvivenza, la via oligarchica, la privatizzazione generalizzata” (p. 76). In quello stesso mese, il 1° luglio, si scioglie il Patto di Varsavia. Nel novembre, a Roma, si svolge il Meeting dei capi di Stato e di governo della Nato. La Nato, naturalmente, non si scioglie. Si considera vincitrice. L’occasione, unica, eccezionale, quasi miracolosa, del superamento delle alleanze militari contrapposte con la possibile apertura di un’era di pace globale non viene colta. Anzi, viene modificato il senso stesso dell’Alleanza, che cessa ufficialmente di essere solo difensiva per trasformarsi in organismo securitario che può intervenire dovunque sorgano minacce. E inizia la sua espansione a Est, in evidente funzione antirussa, nonostante l’Unione Sovietica abbia cessato di esistere nell’agosto dello stesso fatidico 1991 e la Russia, in caotica crisi di trasformazione, non rappresenti in nessun modo una minaccia ed anzi cessi di essere, per un lungo periodo, un attore politico globale.

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