IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Emancipazione e de-emancipazione nella costituzione liberale

Al centro de “La questione comunista” di Domenico Losurdo (Carocci, 2021) la critica radicale del liberalismo teorico e storico. Ma anche il riconoscimento del suo messaggio virtualmente emancipatorio. Una lezione di metodo che interroga anche la nostra critica dell’antropologia e della costituzione neoliberale.

È la seconda volta che mi ritrovo a discutere del saggio postumo di Domenico Losurdo. È inutile nasconderlo. Il titolo (La questione comunista), il sottotitolo (Storia e futuro di un’idea), l’occasione che l’autore intende celebrare (la ricorrenza dei cento anni dalla rivoluzione di ottobre) fanno a pugni con il dominante immaginario occidentale che relega il comunismo teorico e quello realizzato nel catalogo delle cause sbagliate e perse. Perse perché sbagliate.

Un progetto utopico, per i più ‘compassionevoli’. Un progetto criminale e oppressivo per i vincitori della prima guerra fredda che hanno codificato la loro agiografica narrazione del “secolo breve” nella delibera del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 con la quale vengono condannati tutti «i totalitarismi», deliberatamente equiparando l’esperienza sovietica all’impero hitleriano. Una antistorica riscrittura della storia, a uso e consumo di una – come presto si sarebbe capito – latente postura bellicista dell’Unione. Un ‘metodo’ al quale ha attinto, poco tempo dopo, Vladimir Putin nella sua altrettanto strumentale e antistorica condanna di Lenin diretta a legittimare la sua sciagurata operazione militare speciale. Una guerra diventata, paradossalmente, il mito fondativo della nazione ucraina (L. Alfieri, 2023).

La critica del liberalismo teorico e di quello applicato

Un ‘metodo’ distante mille miglia dall’approccio storico-filosofico che permea tutta l’opera losurdiana, anche quella contenuta negli “scritti d’occasione”. E La questione comunista è certamente uno “scritto d’occasione”. Ma tutt’altro che “occasionale”. Losurdo prosegue qui il suo pluridecennale corpo a corpo con le ripetute rimozioni del conflitto delle libertà perpetrate tanto dal liberalismo reale – le concrete e storiche società liberali – quanto dal socialismo irenico, il “comunismo utopico e messianico”.

Questo duplice fronte di battaglia intellettuale è ingaggiato in nome di una idea hegeliana di Stato (R. Cavallo, 2020) che è, per tanti versi, anche quella del costituzionalismo progressista, del costituzionalismo dei governati nel mio lessico. Un costituzionalismo polemico con la tradizione maggioritaria del costituzionalismo liberale e, tuttavia, attento a valorizzarne il virtuale messaggio emancipatorio. Losurdo non flirta mai con la meccanicistica vulgata marxista che vede nello Stato il semplice riflesso dell’economia capitalistica e del dominio borghese. Né cede mai alla tentazione marxiana di una condanna in sé delle istituzioni giuridiche della costituzione liberale, della separazione dei poteri, delle libertà individuali (M. Prospero, 2022). Più che al vuoto simulacro delle parole libertà, Stato, democrazia Losurdo è interessato a mettere in evidenza i macroscopici paradossi dei più influenti teorici del liberalismo.

Ciò non significa che la sua Controstoria del liberalismo sia solo «una controstoria della biografia intellettuale di alcuni pensatori liberali». Losurdo mette a nudo tanto le aporie costitutive del liberalismo classico quanto le clamorose zone d’ombra del «liberalismo applicato», del liberalismo dei governanti nel mio lessico. Le tre clausole d’esclusione a lungo presenti negli ordinamenti liberali (quella censitaria, quella razziale, quella di genere) sono state esplicitamente teorizzate – sottolinea più volte – da Locke, John Stuart Mill, Tocqueville e ripetutamente fatte proprie dalle classi dirigenti liberali.

Chi le rimuove è, per Losurdo, un cultore non della storiografia ma dell’agiografa. Chi le rimuove sorvola sulla contrapposizione che ha attraversato la Costituzione prima formale e poi materiale degli Stati Uniti tra «persone libere» (i bianchi) e il «resto della popolazione» (gli schiavi neri). E ancora ai giorni nostri la logica che sottende la «democrazia per il popolo dei signori» è ben lungi dall’essere dileguata. Possiamo ben ammirare le garanzie giuridiche e il governo della legge negli Stati Uniti, ma che ne è di tutto ciò – osserva Losurdo – per i detenuti di Guantanamo? E il principio della limitazione del potere, che è merito della tradizione liberale aver affermato, svolge un ruolo reale nel rapporto che l’Occidente e gli Stati Uniti istituiscono col resto del mondo?

Per Losurdo, sia sul piano della teoria che della pratica politico-sociale, il liberalismo è sorto come celebrazione non della libertà universale ma di una comunità dei liberi ben determinata. Anzi, è con la modernità liberale che il processo di de-umanizzazione dello schiavo raggiunge il suo apice: la schiavitù ancillare cede il posto alla schiavitù-merce su base razziale, trova la sua consacrazione nella Costituzione americana e sussiste per lungo tempo anche dopo la sua formale abolizione.

Le ipocrisie costituzionali dello Stato liberale

Eppure la Controstoria del liberalismo non è il controcanto del Libro nero sul comunismo. Non è un “Libro nero sul liberalismo”. E non lo è perché – a sottolinearlo è lo stesso Losurdo in un’intervista del maggio 2013Controstoria del liberalismo «ospita un paragrafo finale sull’eredità permanente del liberalismo in cui faccio appello alle correnti anticapitaliste, ai comunisti, perché non sottovalutino questa eredità permanente.

Ne La questione comunista Losurdo ritorna sulle fondamentali ragioni teoretiche e storico-politiche di questa eredità permanente, sulla necessità che il movimento comunista prenda autocriticamente atto dello straordinario valore di certe acquisizioni del liberalismo. Una necessità presente in più parti del volume, talvolta in modo apodittico, anche perché il serrato “corpo a corpo” non fa, neanche in questa occasione, alcuno sconto all’universalismo parziale del liberalismo, alle sue trasfigurazioni ideologiche della realtà.

Quel liberalismo che, avendo postulato che la piena umanità appartiene solo ai maschi bianchi e proprietari, ha giustificato la più brutale schiavitù a carico dei popoli coloniali, il dispotismo e l’assimilazione dei lavoratori salariati a meri strumenti di lavoro. Un serrato corpo a corpo che non risparmia liberalsocialismo e neoliberalismo i quali, auspicando una decontaminazione dei regimi “democratici” dalle idee socialiste, escludono la maggioranza della popolazione mondiale dalla piena cittadinanza. Ipocrisie costituzionali, secondo la perspicua definizione coniata da Massimo Severo Giannini. Per uno dei più autorevoli giuristi italiani dello scorso secolo lo Stato liberale dell’Ottocento è uno Stato borghese monoclasse.

L’affermazione che il movimento comunista deve prendere atto dello straordinario valore di certe acquisizioni del liberalismo è, dunque, un’affermazione apodittica ed estemporanea? Le pagine 92 e 93 de La questione comunista smentiscono questa possibile interpretazione.

Non esistono libertas minor

Il liberalsocialismo – osserva Losurdo – è nato da un equivoco di cui non è il responsabile unico. Agli inizi della guerra fredda, Isaiah Berlin, esponente del liberalismo classico, scioglieva un inno all’Occidente in questi termini: se anche sussistevano aree di miseria che inceppavano la “libertà positiva” (l’accesso all’istruzione, alla salute, al tempo libero), garantita per tutti era comunque la “libertà negativa”, la libertà liberale propriamente detta, la sfera di autonomia individuale dell’individuo. Cinque anni dopo, Galvano della Volpe, in quel momento forse il più illustre filosofo comunista italiano, rispondeva contrapponendo alla libertas minor la libertas major, la superiorità dei diritti economico-sociali (la libertà positiva) sulla libertà liberale (la libertà negativa)”.

La sentenza” non potrebbe essere più netta. Per Losurdo, pur «facendo ricorso a giudizi di valore contrapposti, Berlin e della Volpe erano d’accordo nel configurare lo scontro tra mondo liberale e mondo comunista come la contesa tra la libertà liberale e i diritti economico-sociali». Entrambi, chiosa il “dispositivo della sentenza”, avevano torto. Il liberalismo non può essere ridotto alla apologetica della causa della libertà individuale. Il comunismo non può essere ridotto alla apologetica della causa della giustizia sociale e dell’eguaglianza. Il declassamento delle libertà negative stride con una prassi «che ha visto sempre impegnati i comunisti a loro difesa sino al sacrificio della vita»; in prima linea contro le clausole di esclusione dalle libertà civili e politiche a danno dei popoli coloniali, delle classi subalterne, delle donne; sempre impegnati a denunciare il processo di de-umanizzazione consumato nelle società liberali e a rendere universali le premesse e le promesse del liberalismo.

Una cosa è condannare – precisa Losurdo – come monca una libertà che escluda i diritti sociali ed economici, ai giorni nostri contestati anche sul piano teorico dalla reazione neoliberista, un’altra cosa è liquidare in blocco la libertà liberale quale libertas minor e libertà formale. Al contrario, l’ideale della libertà appartiene ai punti alti della tradizione liberale da cui il comunismo ha da apprendere se vuole coltivare il suo ambizioso, e senza precedenti, progetto di una emancipazione politica e sociale dell’umanità nel suo complesso.

È quello che postula il costituzionalismo liberal-democratico e il costituzionalismo democratico-sociale. Che la libertà costituisce, insieme al principio lavorista e all’eguaglianza sostanziale, l’orizzonte simbolico e morale della nostra Carta fondamentale e di tutte le Costituzioni del secondo dopoguerra che hanno sancito la fine dell’età dell’innocenza de liberalismo.

Un revisionismo salutare

Al pari del costituzionalismo democratico-sociale, Losurdo è interessato non solo a salvare le libertà liberali dalle clausole di esclusione del liberalismo storico ma anche i pregi del liberalismo come dottrina costituzionale.

La lapidaria affermazione contenuta a pagina 93 non lascia adito a dubbi. «L’elaborazione della teoria marxista e comunista della libertà è stata resa ulteriormente difficile dall’attesa dell’estinzione dello Stato dopo un breve periodo di transizione. Messa a confronto dall’esaltante prospettiva del dileguare del potere in quanto tale, la limitazione del potere mediante il governo della legge, mediante la rule of law, non poteva che apparire come una libertas minor, formale, destinata a dileguarsi assieme allo Stato».

Chi ha intravisto in queste affermazioni un cedimento trasformista di Losurdo nella sua lotta corpo a corpo con liberalismo e liberalsocialismo, ha sottovalutato un risalente asse della sua ricerca. E vede trasformismo laddove c’è un sano revisionismo di una tradizione volgare del marxismo che Losurdo affida ad una citazione di Lucio Lombardo Radice: «Il mondo evolve, ma le verità del mondo che tramonta sono raccolte dal nuovo mondo».

Un’esemplare lezione di metodo, di sano revisionismo. Losurdo è implacabile con il revisionismo storico, ideologico, del ‘900, ma si propone anche di innovare profondamente una maggioritaria tradizione del marxismo, riconoscendo i meriti e i punti di forza della storia del pensiero liberale.

Come limpidamente emerge in alcuni passaggi di Controstoria del liberalismo. Dopo aver ricostruito i crimini imputabili all’ideologia liberale – schiavismo, razzismo, sfruttamento classista – Losurdo osserva come «proprio da questa ricostruzione storica emergono i reali meriti e i reali punti di forza del liberalismo. Dando prova di una straordinaria duttilità, esso ha cercato costantemente di rispondere e adattarsi alle sfide del tempo. Il liberalismo ha saputo apprendere dal suo antagonista ben più di quanto il suo antagonista abbia saputo apprendere dal liberalismo. Soprattutto, l’antagonista non ha saputo apprendere quello che costituisce il secondo grande punto di forza del liberalismo, il problema decisivo della limitazione del potere. Assumere l’eredità di questa tradizione di pensiero è un compito assolutamente ineludibile».

 C’è vita oltre il neoliberalismo?

Domenico Losurdo non c’è più. Se ci fosse mi piacerebbe discutere con Lui, nella sua accogliente dimora di Colbordolo, un tema, per me, di fondamentale rilevanza politico-teoretica. Abbiamo qualcosa da imparare anche da quella pervasiva costituzione neoliberale che disciplina oggi le nostre vite e che sta riscrivendo il nostro catalogo dei diritti e dei doveri?

Penso che Mimmo si appellerebbe, in prima battuta, alla ‘legge’, perspicuamente declinata nella sua opera, della permanente dialettica antagonistica tra emancipazione e de-emancipazione come una peculiarità costitutiva della modernità. Una dialettica che espone la hegeliana “libertà concreta”, incardinata nella dimensione pubblico-politica dello Stato, ad essere rimessa continuamente in questione (F. Fistetti, 2022).

Presumo che direi, bene. I nuovi diritti civili, o incivili che siano, i nuovi diritti umani o disumani che siano, i nuovi doveri che l’individuo neoliberale si autoimpone, i populismi, di destra o di sinistra che siano, sono la forma ‘postmoderna della de-emancipazione, nel mio lessico della de-costituzionalizzazione.

Ma dove sono oggi, chiederei a Mimmo, i processi antagonistici che attivano conflitti e meccanismi di emancipazione e cittadinanza? Quali sono, in potenza, i ‘sostituti funzionali’ del suffragio universale, del partito di massa, del diritto di contrattazione collettiva? Quali sono le “strategie antagoniste” alle strategie infinite di infantilizzazione della moltitudine di cui parla Michele Prospero nella sua perspicua interpretazione di Domenico Losurdo.

Il diritto al lavoro come diritto di partecipazione politica

Il gramsciano pessimismo dell’intelligenza fa dire, non solo a me, che non solo allo stato quelle “strategie antagoniste” non si danno, ma che le nostre democrazie liberali si stanno trasformando di fatto in regimi neo-censitari pur in assenza di restrizioni formali del suffragio, dei diritti politici, del pluralismo.

Il gramsciano ottimismo della volontà ci obbliga ad andare oltre. A scavare più a fondo nell’attuale ordine neoliberale, a scavare nelle ragioni che ne alimentano agli occhi di tanti l’ineluttabilità.

Ho abbozzato il tema anche nella presentazione urbinate de La questione comunista quando ho apoditticamente invitato a prendere sul serio la sfida della libertà neoliberale. Quel diritto/dovere all’’autodeterminazione di ognuno nella forma della performance, nella forma del principio del massimo rendimento nel tempo del lavoro e dello sfrenato godimento nel cosiddetto tempo libero. Un autosfruttamento, una nuova forma di schiavitù che ci autoimponiamo in nome del “capitalismo che è in noi”. In nome del “dovere antropologico” di pensare positivo, dell’“obbligo” intellettuale di pensare a dialetticamente.

Una libertà del volere, denunciavo, pagata al caro prezzo di diventare la maschera di sé stessi, di praticare una autodeterminazione nella forma paradossale di essere altro da sé, di vivere la propria soggettività nella forma della foucaultiana impresa permanente di sé e del consumo compulsivo. Sempre connessi, tutto l’anno, tutti i giorni dell’anno, ad ogni ora del giorno.

Questo assolutistico diritto/dovere all’autodeterminazione individuale e singolare è il tratto caratterizzante l’homo neoliberale. Una narrazione di fatto recepita anche dalla nostra giurisprudenza come una antropologia progressiva, emancipante, meritevole di tutela nei più svariati campi, dalle scelte procreative a quelle relative al genere, al fine vita. Salvo per ciò che concerne il lavoro, privato ideologicamente della sua autonomia (il lavoro come capitale umano) e fattualmente, prima ancora che giuridicamente, sempre più eterodiretto.

Io penso che grandi siano, da questo punto di vista, le responsabilità del nostro mondo per avere acceduto ad una declinazione del diritto al lavoro come un diritto esclusivamente economico-sociale. Una rimozione dell’ethos più autentico e vitale che esso si era guadagnato nelle costituzioni del novecento.

Il suo essere primariamente un diritto politico, un diritto di partecipazione alla vita della polis di coloro che altro non hanno per essere ‘riconosciuti’ nello spazio pubblico. Il marxiano, hegeliano, gramsciano, losurdiano diritto all’emancipazione e all’autorealizzazione da parte delle classi subalterne. Dei governati, come preferisco dire nel mio lessico.

 Riferimenti bibliografici

Alfieri, Chi ha spento le luci della pace?, in https://fuoricollana.it/chi-ha-spento-le-luci-della-pace/

Cavallo, Stato e democrazia nel pensiero di Domenico Losurdo, in S. Azzarà,

Ercolani, E. Susca (a cura di), Domenico Losurdo tra filosofia, storia e politica, Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2020.

Fistetti, Un pensiero sul quale dovremo ancora a lungo tornare, in Materialismo Storico, n° 2/2021 (vol. XI).

Prospero, Democrazia, Bonapartismo, Populismo, in Materialismo Storico, n° 2/2021 (vol. XI).

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