Raccontare delle storie è il nostro punto di partenza. Necessario, irrinunciabile. Un imperativo per la nostra Scuola di educazione alla politica Sviluppo umano, Vivere la Costituzione. A partire dal primo modulo, non casualmente dedicato al tema Guerra contro le donne. Esattamente ad una settimana dall’8 marzo.
Raccontare delle storie come passaggio ineludibile per attingere alla Storia con la S Maiuscola e alla Politica con la P Maiuscola. In direzione ostinatamente contraria al senso comune veicolato dai media che si ferma, quando va bene, allo storytelling? No, no assolutamente. Perché noi prenderemo sul serio, molto sul serio, lo storytelling. Per andare oltre. Questo leggiamo nel felice finale di C’è ancora domani di Paola Cortellesi, la visione del film che aprirà i nostri corsi.
Il nostro oltre è, in primo luogo, la Carta degli italiani e delle italiane. la Costituzione, democratica, sociale del ‘48. La sua pedagogia di cui ci parlano, talvolta implicitamente talaltra espressamente, tanti dei contributi contenuti in questo numero. Un numero in progress che verrà alimentato e arricchito dagli interventi e dai contenuti delle prime due giornate. Un programma impegnativo, ambizioso, tutt’altro che retoricamente e vuotamente celebrativo. Antiprovinciale.
E provocatoriamente antiprovinciale è il titolo – Guerra contro le donne – del nostro primo modulo. Un titolo che già ha suscitato interesse e curiosità, ma anche qualche perplessità, se non incomprensione. Non era meglio un titolo più a largo spettro, fotografico, della pluralità delle violenze a cui le donne, ieri come oggi, sono sottoposte? Cultura patriarcale, cultura dello stupro, dominio maschile, maschilismo, sessismo, oppressione, subordinazione.
Più “inclusivo”, “urbano” e politicamente “corretto”, sarebbe stato titolare il primo modulo della nostra Scuola Violenza contro le donne. Ma l’azzardo, è il nostro auspicio, renderà più vitale la discussione e il reciproco apprendimento. Libere e liberi relatrici e relatori, corsiste e corsisti di proporre una propria, personale e insindacabile, narrazione del tema. A dover imparare siamo per primi noi, ideatori e promotori di questa avventura. Sulla base di domande incalzanti che vadano oltre l’emotività legata agli eventi di cronaca e di confuse polarizzazioni. Cosa consideriamo come femminicidio? Di che violenza parliamo? Quali ne sono le cause? Di cosa si parla quando si parla di patriarcato?
Quasi universalmente il patriarcato è stato in questi mesi rappresentato come causa sistemica della morte di Giulia Cecchettin, assunta a simbolo della sua permanenza e recrudescenza. Nessuno può più esimersi dal fare i conti con le parole forti della sorella di Giulia, Elena. Ricordiamole ancora una volta: «Mostro è quello che esce dai canoni normali della nostra società. Ma lui è un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è quell’insieme di azioni che sono volte a limitare la libertà di una donna. Come controllare un telefono, essere ossessivi, fare cat-calling ».
«Non tutti gli uomini – aggiunge Elena – sono cattivi, mi viene detto spesso. Sì è vero. Però in questi casi sono sempre uomini (…). Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto».
Le parole dell’anima di Elena Cecchettin hanno avuto un benefico effetto. Hanno spostato le responsabilità dal piano individuale a quello collettivo e questo ci pare giustifichi l’uso di un’espressione come Guerra contro le donne. La lettura del libro della antropologa e militante femminista argentina Rita Segato La guerra contro le donne (Tamu Edizioni, 2023) ha rafforzato questa nostra convinzione. Per il radicalismo dell’analisi che sostiene i suoi scritti e, allo stesso tempo, per la marcata distanza da quella narrazione che confina la violenza di genere nella sfera del privato.
Ogni femminicidio, che l’immaginario comune continua a erotizzare, è per Rita Segato la conferma che anche l’ordine attuale del mondo poggia sulla subordinazione delle donne, sulla loro esclusione e riduzione a vittime. La disuguaglianza di genere, il controllo sul corpo della donna, accompagnano la storia del genere umano. Solo che, contrariamente a ciò che pensiamo, l’umanità non cammina in epoca moderna nella direzione opposta. I dati sembrano dire, al contrario, che le violenze sulle donne sono in aumento.
Il patriarcato è per Rita Segato sì una struttura trans-epocale ma è anche una struttura storicamente determinata. La violenza patriarcale in un contesto tanto specifico quanto esemplare come quello latino-americano non è il generico portato di una «questione femminile». La guerra odierna alle donne non è solo una manifestazione del dominio maschile sul «territorio privato» della sfera domestica, ma è soprattutto il portato di violente trasformazioni che investono la società nel suo complesso.
Qui, dice l’antropologa argentina, si può incappare nell’errore di credere che sia stata l’emancipazione delle donne a rendere gli uomini più fragili, che poi reagiscono con violenza, ma questa non è la mia posizione. La loro precarietà dipende dalla precarietà della vita, che a sua volta è causata da una precarietà economica. Oggi si ha un lavoro, domani non più. Quello che indebolisce gli uomini, e che li rende impotenti, è la mancanza di lavoro, la difficoltà di accedere a forme di welfare, l’indebolimento dei legami familiari. Un contesto che fa vacillare l’idea di virilità, per cui l’uomo deve essere forte e potente. Come conseguenza, la mascolinità agisce per mostrare una potenza che non possiede più e che non può più esercitare (https://altreconomia.it/femminismo-e-pensiero-come-desiderio-intervista-allantropologa-rita-segato/) .
Il femminicidio come sintomo. Sintomo di una società che ha bisogno di una pedagogia della crudeltà per distruggere e annullare la compassione, l’empatia, i legami e i vincoli locali e comunitari. Tutte qualità che rappresentano un ostacolo per un capitalismo “predatorio” che si fonda su una spinta incontrollata all’accumulazione. Certo può esserci l’aggressione di uno psicopatico, ma il maggior numero di violenze sulle donne non sono fatte da psicopatici, ma da persone che vivono in una società che pratica l’aggressione di genere in mille modi. L’aggressione come normalità, una normalità alimentata dai media quando mostrano l’aggressione alle donne fino alla nausea, riproducendo i dettagli scabrosi e agendo cosi – consapevolmente o inconsapevolmente poco importa -come il “braccio ideologico della strategia della crudeltà”.
Sprovincializzante, dicevamo. E, tuttavia, una Scuola di educazione alla politica non può fermarsi a questa coraggiosa e perspicua rappresentazione delle violenze sulle donne. Sulle cause della loro recrudescenza molteplici e tutte degne di attenzione sono le interpretazioni che si contendono il campo anche nel mondo femminista. «La violenza maschile contro le donne – sosteneva già nel 2008 Tamar Pitch – è indizio non del patriarcato, ma della sua crisi».
«È adesso, infatti, che la si riconosce come violenza, che la si chiama così, piuttosto che giusto controllo, correzione adeguata, legittimo uso di mezzi di disciplina. Essa inoltre “si allarga, a misura che le donne acquisiscono libertà e, a loro volta, quote di potere”, poiché è proprio quando, come adesso, le identità, le comunità, si rivelano illusorie, le famiglie inesorabilmente plurali e diversificate, i legami costitutivamente fragili, che il controllo diventa violenza esplicita, segno di impotenza e frustrazione, piuttosto che di un senso di autorità legittima» (https://che-fare.com/almanacco/politiche/lessico-della-violenza-patriarcale-patriarcato/).
Il patriarcato di oggi – si dice da più versanti – non è lo stesso di quello dei nostri avi. Ha una matrice comune, ma oggi sembra connotarsi anche come reattivo ad una sua generalizzata messa in discussione. La sua accezione antica è più ristretta di quella attuale. Nella sua accezione antica il patriarcato si riferisce al sistema, derivato dalla legge greca e romana, in cui il capofamiglia maschio ha un potere legale ed economico assoluto sui membri della famiglia, maschi e femmine, che dipendono da lui. Il patriarcato – si precisa – è iniziato nell’antichità classica ed è terminato nel XIX secolo con la concessione dei diritti civili alle donne.
Una rappresentazione contestata. Sia perché distorcerebbe la realtà storica: il dominio patriarcale dei capifamiglia maschi sui loro parenti sarebbe molto più antico dell’antichità classica (inizia nel terzo millennio a.C. ed è ben consolidato al tempo della scrittura della Bibbia ebraica). Sia, soprattutto, perché nel XIX secolo il dominio maschile nella famiglia ha semplicemente assunto nuove forme: quella dell’estensione dell’oppressione maschile sulle donne alle quali viene di fatto negato l’acceso al potere in tutte le più importanti istituzioni sociali.
Ma è veramente l’oppressione il Dna del patriarcato nella sua declinazione tanto antica quanto moderna? V’è chi ritiene che il termine oppressione descriva in modo inadeguato il dominio paternalistico che, pur avendo aspetti oppressivi, comporta anche una serie di obblighi reciproci che fanno sì che il dominio paternalistico non venga percepito con la stessa intensità da tutte le donne come oppressivo. L’espressione “oppressione delle donne” evoccherebbe il confronto con gli altri gruppi oppressi e induce a pensare in termini di comparazione dei vari gradi di oppressione come se si trattasse di gruppi simili. Meglio parlare di “subordinazione” delle donne al “dominio paternalistico”, di un’accettazione dello status di subordinato in cambio di protezione e privilegi, una condizione che caratterizza gran parte dell’esperienza storica delle donne.
Siamo, come è evidente, di fronte ad un quadro interpretativo molto ampio, articolato, problematico, attraversato da divisioni. Un quadro che esige di essere ulteriormente arricchito e problematizzato anche con ricerche e sensibilità distanti dalle plurali culture del femminismo. E, tuttavia, un quadro che consente già di cominciare a “interrogare” la Costituzione, la sua “pedagogia”, distante materialmente e idealmente mille miglia dalla “pedagogia della violenza” dei nostri giorni.
Chiediamo troppo alla Carta delle italiane e degli italiani? È anche questo tema che lasciamo aperto, senza pregiudizi, all’approfondimento e alla discussione. La costituzione non è un farmaco da bancone. È un progetto e un programma di civilizzazione dei rapporti sociali e umani. Oggi quel progetto e quel programma potrebbero non bastare. Educare alla politica è anche questo. Prendere laicamente atto anche dei limiti delle nostre lenti e andare oltre.
È la ragione sociale di fuoricollana.it e di Itinerari e incontri che congiuntamente condividono, sin dal nome, la titolarità di questa Scuola di educazione alla politica. Le rappresentazioni caricaturali e demonizzanti le lasciamo ad altri. Noi siamo altro. Chiediamo ai nostri “docenti” e “alunni” di scagliare parole che suonino, al pari di quelle di Elena, come pietre. Pietre scagliate contro tutti i qualunquisti dei nostri giorni, di tutte le latitudini, di “centro”, di “destra”, di “sinistra”. Chiediamo per il nostro esordio di prendere sul serio la guerra contro le donne. Quella di ieri, quella di oggi, quella che si consuma privatamente come quella che si consuma in pubblico. È il nostro biglietto da visita di una Scuola in cui poter un giorno scrivere una icona che non esige alcuna spiegazione. Una scuola per amico. Per questo chiediamo a noi stessi, ai nostri lettori, ai nostri sempre più numerosi sostenitori di aiutarci a fare un cambio di passo. Poi, come auspicato dal “Manifesto” che apre questo numero 19 (anzi 0 più 19) “faremo quello che potremo, arriveremo dove potremo arrivare, con tutti quelli che vorranno fare con noi una parte del cammino”.