IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

La Repubblica delle destre

Il testo integrale della lectio di Antonio Cantaro all’Assemblea delle Leghe Spi-CGIL Emilia Romagna (Cervia, 22 ottobre 2024). La Repubblica che hanno oggi in testa le destre italiane è la Seconda Repubblica. Vogliono riscrivere il futuro più che riscrivere la storia.

La Repubblica delle destre non ci piace. Sentiamo, a pelle, che non ha a cuore le sorti della nostra democrazia. Non a torto, come dirò. Ma perché, più nel profondo, non ci piace? Per le inquietanti analogie, dicono in tanti, che essa condivide con una storia che vorremmo non tornasse più: con il populismo d’inizio ventesimo secolo che aprì la strada al fascismo, con il fascismo regime, con il neo-fascismo degli eredi di Salò nella Repubblica nata dalla Resistenza, con il neo-fascismo eversivo degli anni sessanta e settanta. È difficile non vedere queste analogie. Ne ricorderò, via via, le più macroscopiche.  Ma anticipo subito che non mi persuade la dilagante narrazione “a sinistra” che si ferma al tema delle analogie. La Repubblica delle destre è anche altro. E la “lectio” che svolgerò – la riforma della forma di governo (il c.d. premierato elettivo), la riforma della forma di Stato (la c.d. autonomia differenziata), – mi consente di motivare questa mia ‘impopolare’ e controcorrente convinzione. La Repubblica che hanno oggi in testa le destre italiane – è questo il cuore del mio discorso – è la Seconda Repubblica. Al di là delle analogie con il fascismo e con i fascismi è questo progetto che deve primariamente inquietarci. Se questa diventerà la nostra principale preoccupazione, le idee e le energie che metteremo in campo per contrastare le riforme costituzionali delle destre e le politiche economiche e sociali del governo saranno più efficaci e convincenti. Il compito che mi sono dato non è facile. Mi auguro troverete fondate alcune mie considerazioni e preoccupazioni sulla costruenda Seconda Repubblica delle destre. Ma è difficile resistere, nel vivo della polemica politico-mediatica, alla tentazione di gridare “al lupo al lupo”, magari al canto di “bella ciao, bella ciao”. Resistere al fascino semplicistico di rappresentare la premier Meloni – e i suoi “fratelli” e le sue “sorelle” – come il demonio, come l’incarnazione del male assoluto.

  1. Inquietanti analogie

Il filo sottile e visibilissimo che accomuna una prolusione di Antonio Scurati (Fascismo e populismo. Mussolini oggi. Bompiani, 2023) e un pamphlet di Luciano Canfora (Il fascismo non è mai morto, Dedalo, 2024) può essere riassunto – mi perdoneranno i due noti maîtres à penser – con una semplice ed essenziale formula: “a volte ritornano”.

Per il primo, si tratta del ritorno del primissimo fascismo. Del Mussolini populista assai più che del Mussolini inventore del fascismo, assai più del Mussolini fondatore dei Fasci di combattimento e del partito nazionale fascista.  Del Mussolini, questo interessa a Scurati, ideatore di quella prassi di comunicazione e leadership politica che oggi va sotto il nome di populismo sovranista: quella grammatica psico-seduttiva, nichilistica, demagogica e violenta che, secondo Scurati, accomuna il primo fascismo e le strategie del consenso di Fratelli d’Italia, del Rassemblement National, di Vox, del PiS polacco, del Fidesz ungherese, del PSL di Bolsonaro, del Partito Repubblicano a guida trumpiana.  L’hegeliana “notte in cui tutte le vacche sono nere”; in cui, portando alle estreme conseguenze il discorso, rientra qualsiasi forma di bonapartismo e di populismo, di destra e di sinistra. Una versione aggiornata e forzata del fascismo eterno di Umberto Eco.

Siamo di fronte – spiace dirlo – al venir meno delle capacità analitiche, all’eclisse della paziente arte di cogliere tanto le analogie quanto le differenze (si vadano le perspicue considerazioni di Fabio Frosini in https://fuoricollana.it/il-fascismo-non-e-mai-morto/).  Con buona pace delle ricche e ancora oggi accreditatissime pagine di Gramsci e Togliatti che, già alla vigilia della marcia su Roma, leggevano il fascismo italiano come l’esito estremo di un preciso prodotto storico in cui la società italiana era precipitata a partire dal processo di unificazione nazionale.  A causa non di una debole psicologia popolare, ma della rinuncia della borghesia italiana a farsi carico della modernizzazione capitalistica, degli squilibri di sviluppo tra le diverse aree del Paese, dell’ingresso delle masse sulla scena politica, della combattività della classe operaia organizzata, dell’incapacità di industriali e agrari di ristrutturare le proprie attività dopo la fine dell’economia di guerra, delle difficoltà strategiche del blocco proletario dopo la stagione dell’occupazione delle fabbriche (E. Fantini, Tre letture su fascismo e antifascismo).

Anche la più filologicamente accorta penna di Luciano Canfora coglie inquietanti analogie con l’oggi nel rafforzamento, in primo luogo, dell’esecutivo operata dal cosiddetto fascismo impositivo del 1922-1926.  Che viene accostato, con qualche ragione, agli odierni propositi politico-istituzionali del governo di Giorgia Meloni. Omettendo, tuttavia, sorprendentemente, di fare i conti in profondità con il fatto che il fascismo italiano è stato fenomeno assai più complesso. “Nazionalizzazione” delle masse (le lezioni togliattiane sul fascismo come regime reazionario di massa); declinazione del conflitto tra capitale e lavoro tramite la camera di compensazione delle corporazioni e dei sindacati fascisti; nazionalismo esasperato, militarismo, culto della gerarchia.

Né coglie nel segno la canforiana individuazione di un’“aria di famiglia tra fascismo storico e melonismo nella triade “Dio Patria Famiglia”. Anche questa va presa più sul serio di quanto faccia Canfora. La triade è, invero, il segno, di un conservatorismo tradizionalista che non prelude, come fu per il fascismo storico, ad un (sia pur ambiguo) forte ruolo dello Stato (quello “Stato nuovo” di cui ha scritto Fabio Frosini, La costruzione dello Stato nuovo, Scritti e discorsi di Benito Mussolini 1921-1932, Marsilio, 2022). La “sacra triade è, piuttosto, l’icona di un programma politico di neoliberalismo nazionalistico, come esemplarmente testimonia la “popolana” rappresentazione del fisco come pizzo di stato. Per Giorgia Meloni il capitalismo va lasciato crescere liberamente all’interno di un presunto ordine naturale della Nazione (C. Galli, La destra al potere. Rischi per la democrazia? Raffaello Cortina Editore, 2024), smantellando il welfare universale, incentivando le più svariate misure corporative, strizzando l’occhio ai più diversi padroncini (taxisti, balneari, ambulanti), rassicurando la pluralità di ceti che avevano sostenuto il berlusconismo e che sono oggi alla ricerca di nuova protezione. Classi piccolo-borghesi, imprenditori, artigiani, ma anche operai e ceti marginali spaventati dall’immigrazione, dalle delocalizzazioni produttive e dalla conseguente perdita di posti di lavoro e di salari decenti. Tutti da ingabbiare in nuova rivoluzione passiva.

  1. La Seconda Repubblica delle destre italiane

Questa è oggi, dal punto di vista sociale, la Repubblica delle destre. Destre che per consolidare il loro radicamento non stanno facendo risorgere il fascismo storico. Scommettono, piuttosto, su una forma politica funzionale a blindare una democrazia di investitura che, in realtà, è già nella “costituzione vivente” del Paese e che le ha già portate al potere. Questo è il significato autentico del voto del settembre del 2022. Un mandato, in assenza di una vera alternativa politica, a governare senza alcun controllo dell’opposizione parlamentare e delle rappresentanze sociali del lavoro.  Questo è l’obiettivo strategico del cosiddetto premierato e della cosiddetta autonomia differenziata: certificare il fatto che la destra italiana è la madre della Seconda Repubblica, mentre era stata esclusa dal momento originario della Prima Repubblica. Una “Repubblica bastarda”, come la definiva Giorgio Almirante.

Una partita politica, altamente politica. Una partita drammatica, esistenziale, per gli eredi della Carta del ‘48. È questa la principale posta in gioco, non quella tra coloro che vogliono fare rinascere il fascismo storico e coloro che vogliono opporvisi. E, invece, purtroppo, questo è quello che una diffusa storiografia politico-costituzionale continua stancamente a ripetere quando imputa agli eredi del Movimento sociale italiano l’intenzione di voler mettere in discussione la democrazia tout court, di voler instaurare un regime fondato sul principio del capo assoluto.

Vedono il male che non c’è e sono ciechi verso il male che c’è. Che è, come motiverò nella seconda parte del mio discorso, il seguente: un premierato pericoloso perché strumentale ad un disegno politicista e istituzionalmente infantile.

La narrazione che sottolinea l’esistenza di una sorta di mussolinismo latente delle odierne destre è variegata (da ultimo Gaetano Azzariti e Michele della Morte (a cura di), Il Führerprinzip. La scelta del Capo, Editoriale scientifica, 2024). Gli esponenti più accorti di questa storiografia rintracciano le analogie più evidenti e inquietanti nel “paradigma costituzionale” anti-antifascista portato avanti, sin dal secondo dopoguerra, dagli eredi di Salò e tutt’ora viva e vegeta tra gli esponenti di punta di Fratelli d’Italia (Donato Caporalini in https://fuoricollana.it/anti-antifascismo-per-riscrivere-il-futuro/).

Altri ricordano, in particolare, come l’ideologia del capo nasca nel nostro Paese a destra. È sostenuta, sin dalla sua formazione, dal Movimento sociale che la pone al centro del suo programma già alla vigilia delle elezioni del 1948: «un capo eletto dal popolo e non scelto con un compromesso tra i partiti». Per i nostalgici del regime il nemico allora da abbattere non era genericamente l’assetto democratico delineato dalla Costituzione, ma specificatamente la democrazia parlamentare incardinata sul sistema dei partiti. Definita, dai suoi detrattori, una democrazia acefala, senza capo, una deviazione dal principio della sovranità popolare (Claudio De Fiores in https://fuoricollana.it/ideologie-costituzionali-della-destra-italiana/ ).

La soluzione per superare questa presunta anomalia è individuata in una svolta in senso presidenzialista della forma di governo sul modello della quinta Repubblica francese al fine di ripristinare, anche in Italia, l’autorità di un «capo responsabile della Nazione». La Repubblica presidenziale quale momento di ricomposizione delle lacerazioni del passato alimentate dalla guerra partigiana, quale strumento per schiacciare il partito comunista e spostare a destra l’asse politico dell’Italia. Una svolta autoritaria che sarà dichiaratamente al centro di trame occulte, tentativi golpisti e strategia della tensione che, in varia guisa, si proponevano di concentrare tutto il potere politico nelle mani di un Capo eletto direttamente dalla Nazione.

Questa filologicamente attenta storiografia non nasconde che a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta dello scorso secolo la retorica del capo ha travalicato gli stretti confini dei reduci di Salò e sia stata sposata anche da significative parti della sinistra politica e giuridica che, a fronte del declino della centralità del Parlamento e del sistema dei partiti, vi ha intravisto una soluzione per garantire la governabilità del Paese.

Tramontato il presidenzialismo craxiano, l’idea di un regime del Primo Ministro – l’investitura popolare diretta del “capo del Governo” e non del “capo dello Stato” – è divenuta a partire dagli anni novanta la bandiera che quasi tutta la politica italiana ha fatto propria. Nella speranza di rivitalizzare la vita democratica del Paese a partire dal livello locale e territoriale (Sindaci e Presidenti di Regione) e, in prospettiva, anche a livello nazionale.

Secondo questa tutt’altro che peregrina ricostruzione il premierato elettivo delle destre si colloca all’interno di questo orizzonte, portando a compimento proposte e suggestioni veicolate negli ultimi decenni anche dal centrosinistra. Ciò che non persuade di questa narrazione è la perentoria affermazione che l’attuale progetto di premierato elettivo incarni essenzialmente e semplicemente la smania di rivincita del revisionismo costituzionale missino nel corso della “prima Repubblica”, sia pur combinato con le trasversali istanze del “nuovismo democratico” degli anni Novanta dello scorso secolo.

C’è una enfatizzazione di analogie che impedisce di vedere lo specifico significato storico-politico del cosiddetto premierato elettivo. Le odierne destre guardano, in realtà, più al (loro) futuro che al (loro) passato: vogliono più che “riscrivere la storia” “riscrivere il futuro” (Donato Caporalini, in https://fuoricollana.it/anti-antifascismo-per-riscrivere-il-futuro/), vogliono certificare qui ed ora – ripeto – che Giorgia Meloni è la madre della Seconda Repubblica, così come la sinistra lo era stata della Prima Repubblica. Roba questa, per le destre odierne, del passato. Un relitto da abbondonare al suo infausto destino.

  1. Il contesto

Questa è la più autentica posta in gioco del premierato meloniano, come emerge da un esame anche sommario del contesto in cui la proposta è nata e da un’analisi ravvicinata dei suoi contenuti specifici. Dei suoi simbolici punti di forza, così come delle sue debolezze ed aporie. Sulle quali è ancora possibile fare leva, a patto che prevalga tra i suoi oppositori un discorso di verità e che a partire da esso conducano una battaglia di verità.

Cominciamo dal contesto. Un contesto apparentemente favorevole. Favorevole perché nella cosiddetta “cultura alta” il disegno di legge di riforma costituzionale che va sotto il nome di premierato elettivo non gode di buona stampa. Gli aggettivi denigratori si sprecano. Confuso, contraddittorio, torbido, pericoloso, autoritario, eversivo e decine altri, tutti poco lusinghieri. Ammettiamo pure che si tratta di argomenti costituzionalmente corretti. Possiamo per questo dormire sonni tranquilli? Lo potremmo se fossimo certi che questi argomenti incontrano un largo consenso. Ma le cose non stanno propriamente così. La narrazione ‘costituzionale’ meloniana, così come accade per la narrazione delle politiche del governo, continua a godere a livello popolare di un suo tutt’altro che marginale appeal.

L’argomento principe delle destre è che le forze che si oppongono al premierato elettivo vogliono continuare con gli “inciuci” a tradire la volontà che si forma nelle urne. Un argomento che continua a funzionare.  E funziona perché troppe volte di questa prassi sono stati protagonisti le forze del centro-sinistra e i Presidenti della Repubblica espressione del centro-sinistra.  Un’autentica autocritica sarebbe quanto mai utile, opportuna, un segnale di sana trasparenza. Non siamo in Spagna, un Paese in cui un leader socialista per “non tirare a campare ha di recente affrontato la prova delle urne”. E l’ha vinta.

L’autorevolezza non è acqua, discende da comportamenti politici coerenti. E una sana autocritica non è mai tardiva, a cominciare da quella che ha giustificato comportamenti trasformistici sulla base dell’imperativo di rispettare un malinteso “vincolo esterno”. Dobbiamo, viceversa, tornare ad essere quelli del “vincolo interno” postulato dall’art.1 della Costituzione quando questa inequivocabilmente recita che “L’Italia è una Repubblica democratica” e che “la sovranità appartiene al popolo”. Dobbiamo tornare ad essere quelli che dicono che non esistono nel nostro ordinamento costituzionale agenti solitari del vincolo esterno, si chiamino pure Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella. Il richiamo a questo ethos democratico è l’unico modo efficace per competere politicamente con la retriva triade Dio Patria Famiglia.

Se vogliamo essere autorevoli e credibili è poi necessaria una seconda, altrettanto sacrosanta, autocritica. Fare seriamente i conti con il presidenzialismo che è in noi, con quelle pratiche di acclamazione plebiscitaria che abbiamo, anche in epoche relativamente recenti, tutt’altro che disdegnato.

Abbiamo anche in questo caso da scalare una montagna. Il fatto che negli scorsi decenni abbiamo flirtato con proposte di riforme semi-presidenzialiste e con ipotesi, più o meno soft di premierato è un problema serio. Ma forse è il problema minore. Il problema maggiore è un altro. È la mistica della personalizzazione della politica alimentata da una retorica decennale, da parte del centrosinistra e dei democratici, della scelta immediata e diretta dei propri leader e dei propri rappresentanti. Primarie di coalizione, primarie di partito, e quant’altro.

La scelta dell’attuale leader del principale partito di opposizione è avvenuta in modo addirittura dissonante rispetto all’orientamento degli iscritti. Per carità, io apprezzo alcune doti caratteriali della segretaria del Pd. Ma questo non toglie che la sua sia stata una tipica scalata al potere dell’homme peuple, della femme peuple. Lo ha riconosciuto Ely Schlein nella sua prima dichiarazione da neo-segretaria. “Non ci hanno visto nemmeno arrivare”, come si addice ad una fulminea scalata in borsa di una società per azione, più che alla vita di un partito veramente democratico.

La politica vive anche di simboli. E come glielo raccontiamo ora agli elettori del Partito Democratico che la scelta del capo politico della nazione con il voto diretto di tutti i cittadini italiani è il diavolo che porterà all’instaurazione di un regime autoritario? Non voglio dire che chi semina vento raccoglie tempesta. Ma è dovere di chi semina vento preoccuparsi di come e dove indirizzarlo. Altrimenti la battaglia contro il premierato elettivo sembrerà dettata da mero occasionalismo. Altrimenti si dirà che il centro-sinistra teme di non farcela con le nuove regole. E che è per questa ragione che alza la bandiera della forma pura di governo parlamentare. Che la sinistra delle élite si sente più a suo agio in un sistema politico nel quale i governi vengono “costruiti in laboratorio, dentro il Palazzo”. Nei salotti frequentati dall’establishment, aggiungerà Giorgia Meloni con la malizia da pasionaria che certo non le difetta.

Questi affondi ci saranno. Per essere credibili dobbiamo mettere a tema tutte le nostre scelte e oscillazioni passate. Non possiamo essere un giorno per la scelta diretta dei capi e un altro giorno demonizzare la personalizzazione del potere.

  1. Un premierato infantile

Queste autocritiche renderanno più credibili la nostra contrarietà al c.d. premierato elettivo e più incisive le nostre puntuali e radicali riserve su di esso. Riserve che ho già in passato manifestato quando, in sette pensieri che mi pare conservino intatti la loro attualità (Antonio Cantaro in https://www.lacostituzione.info/index.php/2023/12/04/sette-pensieri-sul-premierato-infantile/), ho definito il premierato meloniano un premierato infantile.

Primo pensiero. Il premierato elettivo è la peggiore forma di presidenzialismo ipotizzabile, prova ne sia che non esiste in nessuna parte del mondo “conosciuto”. Israele la introduce nel 1996 ma l’abbandona già nel 2001. Perché? Perché non funzionava. Dopo cinque anni e tre elezioni aveva prodotto una frammentazione partitica e una instabilità politica ancora maggiori. Nessun governo “premierale” che riuscisse a portare a termine la legislatura. Un disastro, tant’è che in nessuna delle nuove costituzioni approvate e riformate per il mondo negli ultimi 20 anni si è tentato di riproporre un sistema simile.

Si obietta. Il premierato elettivo è già il modello che regge i comuni e le regioni italiane. Obiezione impropria. In nessuna parte del mondo è un metodo prescelto per governare uno Stato (Roberto Bin in https://www.lacostituzione.info/index.php/2023/11/12/una-riforma-da-ridere/ ).   Perché, dunque, copiarlo per la Repubblica italiana? La ragione per i fautori della formula “Sindaco d’Italia” è da ricercare nelle presunte qualità magiche della clausola “insieme staranno oppure insieme cadranno” (simul stabunt vel simul cadent) che tiene compatta la maggioranza con il ricatto dello scioglimento anticipato. Ma davvero questa formula consentirà al premier eletto di governare con una compagine governativa compatta? Non stimolerà, viceversa, la concorrenza tra potenziali leader a coagulare attorno a sé nuove confraternite? Chi terrà le forze politiche compatte e “fedeli” alla femme du peuple?

Secondo pensiero. Le forme di governo coerentemente presidenziali possono piacere o non piacere. Coloro ai quali non piacciono sottolineano che esse si sono storicamente dimostrate difficilmente esportabili al di fuori delle loro patrie di origine e che oggi non godono nemmeno lì di buona salute. Francia docet, ma anche gli Stati Uniti non scherzano.

In ogni caso, se si vuole che funzionino, devono essere una cosa seria. Presidenzialismo significa attribuzione di forti poteri di governo al Capo dello Stato. Ripeto: al Capo dello Stato. Questa attribuzione di potere può essere massima, è il caso della repubblica presidenziale statunitense. Oppure minore, o comunque non ‘permanente’, è il caso della repubblica semipresidenziale francese. E, tuttavia, nel caso in cui sia massima, come nel presidenzialismo statunitense, è necessario che vengano preservati due capisaldi del costituzionalismo moderno: il principio democratico e il principio garantista. Traduco. “Doppia legittimità democratica” del Presidente e del Parlamento, frutto di due elezioni distinte. Rigida separazione tra potere presidenziale e potere parlamentare. Il che non accade compiutamente nel semipresidenzialismo francese – forma di governo in parte presidenziale in parte parlamentare – ove comunque vige, Macron permettendo, la regola della distinta derivazione e legittimazione popolare di Presidente e Parlamento.

Terzo pensiero. Il meloniano premierato elettivo è lontano anni luce dal fornire le garanzie delle pur problematiche e critiche esperienze statunitensi e francese. Il meloniano premierato elettivo è una forma degenerata di presidenzialismo. Un Capo senza Costituzione, frutto di una cultura che non conosce la differenza tra governare e comandare. Nelle democrazie parlamentari, quando c’è una crisi politica, si torna in Parlamento, magari facendo ricorso all’istituto della sfiducia costruttiva.

Quarto pensiero. La ‘terza via’ meloniana ignora come funziona l’orologio della democrazia. La sua brama di comando, Signora Meloni, è senza forma e senza limiti. Ignora le virtù di pesi e contrappesi diretti a evitare che il potere politico sia concentrato in una sola persona, in una persona che decide per tutti.  Un rischio mortale. Rischio che le forme non degenerate di governo parlamentare, presidenziale, semipresidenziale hanno ben presente nel momento in cui si guardano bene dall’esautorare il ruolo del Parlamento. A garanzia delle opposizioni, il sale della democrazia. A garanzia del pluralismo, il sale della libertà politica. A garanzia della sovranità popolare, fonte permanente di legittimazione del potere, come è limpidamente scritto nel fondamentalissimo articolo 1 della Carta degli italiani. L’Italia è una Repubblica democratica, la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione.

Quinto pensiero. Il suo, Signora Meloni, è un presidenzialismo sconcertantemente immaturo, quanto mai lontano dal risolvere il problema della governabilità, da Lei solo retoricamente invocato. L’infantilismo del suo progetto è reo confesso. Le sue norme antiribaltone non anti-ribaltano un bel niente. Ipotizzano che il Capo di un Governo morente non possa mai essere sostituito, se non da un ‘parente’, da uno di ‘famiglia’. A fronte del fallimento di un governo, delle sue politiche, il suo disegno di legge prevede l’assunzione della carica di Premier nelle mani di «un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto» e al quale spetterebbe da quel momento il compito di operare in sua vece «per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia». Accanimento terapeutico, altro che governabilità.

Sesto pensiero. Il retroterra delle sue pseudo-disposizioni è palese. Rancore e paura. L’opposizione è niente, il gioco dei ribaltoni all’interno della maggioranza è tutto. Nelle scommesse alle corse dei cavalli si chiama accoppiata. Punto su Meloni vincente e Salvini secondo, ma per incassare la vincita va bene anche Salvini vincente e Meloni seconda. Niente governi tecnici, per carità. Ma il trasformismo costituzionalizzato no, va bene. Sbrighiamo tutto tra noi. Non siamo, d’altronde, quelli di «Dio, patria e, soprattutto, famiglia»?

La madre di tutte le riforme nasce, insomma, vecchia, anzi vecchissima. Basta leggere un qualsivoglia enciclopedia alla voce trasformismo: «Prassi di governo fondata sulla ricerca di una maggioranza mediante accordi e concessioni a gruppi politici eterogenei allo scopo di impedire il formarsi di una vera opposizione come la prassi inaugurata da Agostino Depretis negli anni successivi al 1880». Sono stato ingeneroso, la Signora Meloni, più che di Agostino Depretis, è una fan della Legge 18 novembre 1923, n. 2444., quella Legge Acerbo che attribuiva due terzi dei seggi alla lista vincente. Su questo punto – sul raggiungimento di una soglia di voti del primo arrivato alle elezioni – il disegno di legge che costituzionalizza il premio di maggioranza ambiguamente tace. Nella speranza di sfuggire alle censure della Corte costituzionale sulla palese incompatibilità del disegno di legge con i supremi principi di eguaglianza del voto, di pluralismo politico, di tutela delle minoranze. Furbizie infantili, di corto respiro.

Settimo pensiero. Sostiene il Presidente del Consiglio che tutti questi pensieri sono frutto di un processo alle intenzioni. Ad esempio, non sarebbe vero che vengono toccati poteri e funzioni del massimo garante dell’unità nazionale, del Presidente della Repubblica. No, Signora Meloni, il suo premierato infantile fa di peggio. Il Presidente della Repubblica è messo in cantina e non tra i vini pregiati. Un passacarte. «Conferisce al Presidente del Consiglio dei ministri eletto l’incarico di formare il Governo», recita il novellato terzo comma dell’art. 92. Ma, si obietterà, Giorgia Meloni è una signora di mondo, declinerà il verbo conferire nell’elegante significato che ne danno i dizionari della lingua italiana: «Conferire con qualcuno, intrattenersi a parlare, avere un colloquio su cose importanti». Il cerimoniale è salvo. Forse. La Repubblica no. Al suo posto una Seconda Repubblica nelle mani del Capo di turno di una maggioranza elettorale, quasi certamente una minoranza del Paese.

Chi vince alle corse dei cavalli prende tutto: le cariche di Capo dello Stato, i giudici della Corte costituzionale, i componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura. Roba da “Grande Fratello”, anzi da Repubblica delle banane.

  1. Guardare oltre la contingenza

Tutti questi argomenti non basteranno per vincere la battaglia parlamentare e potrebbero non bastare per vincere la battaglia nel Paese. Basterebbero se, come già detto, l’infantilismo del premierato elettivo fosse semplicemente opera della mente del Presidente del Consiglio.

Sappiamo che non è così. La Signora Meloni è semplicemente un agente, l’ultimo, di una perniciosa infantilizzazione della politica, di una esasperata personalizzazione del potere che è stata negli ultimi decenni legittimata e alimentata anche a sinistra. Al contrario di quanto era a lungo accaduto nel secondo dopoguerra, quando lo sviluppo del processo di democratizzazione – estensione del suffragio e partecipazione alla vita politica tramite i partiti di massa – aveva progressivamente contribuito ad una adultizzazione del popolo.

Qualcosa è andato storto. Più di qualcosa, e faremmo bene a guardare in faccia e in profondità ciò che è successo. Il processo di infantilizzazione delle masse non risparmia oggi nessuna società occidentale. E, in una sorta di circolo vizioso, alimenta sotterraneamente la domanda popolare di agitatori di folle in grado di blandirle e rassicurarle con la promessa di renderle spettatrici morbose della società dello spettacolo. A noi tocca mettere politicamente in una forma sana il momento plebiscitario, dargli uno sbocco progressivo. Se non vogliamo che lo facciano altri, nuovi agitatori di folle interessati alla loro passiva acclamazione.

Dobbiamo, cioè, ingaggiare una sacrosanta polemica storico-politica con i fautori del presidenzialismo all’italiana e del premierato assoluto senza, tuttavia, mai perdere di vista le motivazioni del loro fascino presso i ceti popolari. Come aveva fatto a suo tempo Gramsci quando metteva in guardia sulla necessità di distinguere tra usi regressivi e usi progressivi del cesarismo.

Non serve rimuovere il presidenzialismo che è dentro il ventre della società e che è anche dentro di noi. Serve capirne le radici e le origini. Serve capire a che condizioni e in che limiti è giusto fare un uso progressivo della personalizzazione del potere nella vita di partito, della nazione, dello Stato.

Anche noi abbiamo avuto i nostri “capi”. Enrico Berlinguer su tutti, il quale non ha mai chiesto per sé una acclamazione plebiscitaria ma si è costantemente adoperato per adultizzare ed emancipare il suo popolo. Più che commemorarlo e farne una figurina, dobbiamo cominciare a metabolizzarne intimamente l’ethos etico-politico. Il progetto di un partito detentore di un carisma collettivo che subordina a sé il carisma personale dei capi e dei leader. Un progetto, una prassi, che fa dei capi e dei leader dei funzionari al servizio di una superiore causa: tutti necessari, nessuno indispensabile, come si amava dire un tempo.

Guardare, insomma, oltre la contingenza per essere meglio attrezzati ad affrontare le sfide del presente e del domani. Guardare oltre la contingenza per ricreare le condizioni per una nuova, più alta e moderna adultizzazione del popolo.

La strada maestra è la nostra Carta costituzionale. Ma dobbiamo smettere di darne una lettura sola retorica e imbalsamata nelle sue pur sacrosante disposizioni testuali della seconda parte, quelle che disciplinano l’Ordinamento della Repubblica. La nostra non è semplicemente una Costituzione garanzia. È anche, anzi soprattutto, una Costituzione programma. Una Costituzione che contiene nei principi fondanti e nella Prima parte sui Diritti e sui Doveri dei cittadini un programma fondamentale di trasformazione e di emancipazione sociale, economica e politica dei lavoratori e delle classi popolari.

Una “Costituzione programma” è una Costituzione che va vissuta nella vita di ogni giorno, una Costituzione in cui ogni generazione narra la sua polemica politica e sociale rispetto “allo stato delle cose presenti”. È avvenuto con lo Statuto dei lavoratori – la nostra seconda Costituzione del lavoro – e con le grandi riforme degli anni sessanta e settanta che hanno modernizzato e civilizzato il Paese. Riforme tutte fatte in nome del programma fondamentale contenuto nella Carta del ’48: dall’istituzione delle Regioni alla riforma del diritto di famiglia, dalla riforma tributaria all’istituzione del servizio sanitario nazionale, a tante altre.

La Costituzione con il suo bagaglio di diritti civili, sociali e politici – si disse allora – entrava in fabbrica, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle Università, nelle professioni. Oggi che tutta la società è diventata ancor più di allora una società fabbrica, in cui crescono a vista diseguaglianza e discriminazioni, quel programma fondamentale di trasformazione e di emancipazione sta diventando ancora più urgente. Possiamo, dobbiamo, farlo diventare di nuovo attuale.

  1. La battaglia contro l’autonomia differenziata come modello

Che questo sia possibile lo stiamo già concretamente sperimentando con la battaglia politica e referendaria sulla cosiddetta autonomia differenziata.

In questo caso è giusto dire, senza alcuna riserva, a volte ritornano. Un tempo erano le gabbie salariali. Che oggi le destre vorrebbero che tornassero “più belle e più forti che pria”. Anche nella veste di gabbie sociali.

Se la parola autonomia non vuole essere una finzione, se le si vuole restituire spessore etico-politico, bisogna fare l’esatto contrario di quello che si propongono di fare gli ineffabili Calderoli e Cassese tramite la cosiddetta legge di attuazione dell’autonomia differenziata e i tentativi in corso di peggiorarla ulteriormente. Bisogna tornare ai fondamentali del disegno costituzionale. Quei fondamentali che esigono dalla Repubblica più autonomia progettuale per tutti gli enti territoriali e meno differenziazione di risorse tra essi. Bisogna prendere sul serio la previsione della Carta degli italiani nella parte in cui prevede (l’art. 119, comma 3) l’istituzione di un «fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante». Un fondo capiente per il finanziamento di tutte le funzioni regionali.

I fautori dell’autonomia differenziata non vogliono solo fare le nozze con i fichi secchi. Vogliono proprio mandare all’aria quel matrimonio di storia e di amore tra le diverse popolazioni e territori dello stivale che l’articolo 1 della Costituzione chiama Italia e che l’articolo 5 esige sia una nazione. «Una e indivisibile». Il principio a cui si ispirano Calderoli e compagnia è, al contrario, espressione del più bieco classismo ed egoismo corporativo: chi più ha più deve ricevere. Nessuna perequazione. Anzi, si intende perniciosamente collegare l’ammontare delle risorse finanziarie da trasferire alle Regioni richiedenti nuove competenze al gettito dei tributi dei residenti nel territorio regionale. Si scrive residuo fiscale, si legge a chi più ha, più sarà dato (Mauro Dogliani in https://www.piemonteautonomie.it/quer-pasticciaccio-brutto-del-regionalismo-italiano/). Una vergogna! Una vergogna sociale.

Per fortuna oggi, grazie alla straordinaria mobilitazione popolare di questi mesi, possiamo celebrare due buone notizie. La prima non era affatto scontata: la raccolta delle firme sulla cosiddetta autonomia differenziata è andata bene, molto bene. Grazie, innanzitutto, alla Cgil. La seconda notizia è altrettanto positiva. Le forze che sostengono la legge Calderoli hanno paura, paura di perdere il referendum. E la paura e la premura sono cattive consigliere.

Già prima che la scadessero i termini per la raccolta delle firme, il Ministro Calderoli ha scompostamente gridato a destra e a manca che il referendum sulla sua legge è inammissibile. Un errore di grammatica politica, prima ancora che di grammatica costituzionale. L’errore di grammatica politica è palese. Il Ministro si appella impropriamente alla Corte costituzionale affinché promuova di fatto il suo compitino, un compitino scritto male e pieno di errori. Un errore di psicologia comunicativa che porta allo scoperto un desiderio infantile: il desiderio che il popolo non si esprima direttamente su una questione di capitale importanza per il futuro del nostro Stato sociale. Se il Ministro fosse così sicuro delle sue ragioni dovrebbe auspicare un giudizio di ammissibilità del referendum, invece che fare un pressing preventivo sulla Corte.  Ma sicuro non lo è affatto: bocciato, bocciato in psico-politica.

Bocciato non solo dalla Cgil, dalle opposizioni, da tante istituzioni. L’elenco è lungo – Ufficio parlamentare di Bilancio, Banca d’Italia, Corte dei Conti, Unione europea – e le motivazioni convergono tutte su un punto. Maggiori costi per le imprese, maggiori oneri per la pubblica amministrazione, maggiori aggravi per le nostre già malmesse finanze pubbliche. I conti non tornano. Bocciato Ministro Calderoli, bocciato in aritmetica.

E poi ci sono le decisive bocciature di tanti che denunciano, dati alla mano, le crescenti ingiustizie territoriali e sociali che questa autonomia differenziata produrrà. L’extra-finanziamento per le Regioni ad autonomia differenziata di cui parla la Svimez. Le diseguaglianze sanitarie denunciate dalla fondazione Gimbe. L’allarme dei vescovi italiani per la rottura del vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni del Paese. Altro che destra sociale. Bocciata anche la premier che, in ragione di un calcolo di corto respiro, non esita a mettere da parte il suo pur retrivo, reazionario e retorico Dna.

E, tuttavia, anche in questo caso, come per il premierato elettivo, non possiamo dormire sonni tranquilli. Ancor più se nei prossimi mesi verranno modificati gli equilibri all’interno della Corte costituzionale. Un colpo di mano è possibile. E anche l’oscillante e non del tutto univoca giurisprudenza costituzionale sull’ammissibilità dei referendum autorizza le destre a sperare che la mobilitazione popolare di questi mesi venga vanificata.

Possibile, tutt’altro che già scritto. Tocca alla nostra intelligenza, alla mobilitazione che sapremo attivare, far pendere il pendolo dalla parte giusta. Dalla parte della Costituzione programma, del suo progetto emancipatorio ancora vivo e vitale.

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