Chi ci segue da tempo sa che Fuoricollana, che partecipa attivamente per il secondo anno consecutivo alla Scuola di formazione politica di “Patria e costituzione”, non ha mai lesinato critiche serrate all’Unione europea che, a nostro giudizio, ha da tempo imboccato la via sbagliata, una via senza uscita.
Qualche mese dopo l’invasione dell’Ucraina, invitavamo l’Europa a svegliarsi a considerare che la “guerra per procura” alla Russia non corrisponde ai suoi interessi strategici, correttamente intesi e contraddice radicalmente l’idea di progresso che ancora circola nelle sue vene. A distanza di più di un anno, constatavamo amaramente che l’Unione europea aveva, invece, abbracciato la causa della guerra totale alla Russia e indirettamente alla Cina, per conto e in nome della Nato. Least but not least abbiamo denunciato il silenzio complice e l’impotenza politica dell’Unione incapace di dire una parola coerente e di assumersi la propria responsabilità storica di fronte alla tragedia mediorientale, riaccesa dall’eccidio del 7 ottobre e dalla risposta disumana e sproporzionata di Israele.
Da questo punto di vista, l’Unione europea non si trova più di fronte ad un bivio, avendo consapevolmente scelto da tempo la strada della spoliticizzazione, del mercatismo fine a sé stesso e della subordinazione agli interessi made in USA. L’Europa deve fare un’inversione a U, fuor di metafora, come sostengono altri contributi di questo numero: riscoprire le proprie radici democratico sociali, quell’eccezionalismo europeo che ancora la identifica nel mondo, combinando libertà economica e giustizia sociale; ri-orientare il baricentro dell’Europa verso il mediterraneo, il luogo in cui si gioca il proprio futuro anche per la dinamica demografica dell’Africa, contenendo il suo allargamento ad est, fonte di inesauribili tensioni con la Russia; fare dell’autonomia strategica non una vuota retorica ma una strategia complessiva a partire da una propria imago mundi, da una interpretazione dell’attuale mondo multipolare caratterizzato dall’avanzata irrefrenabile del Sud Globale.
Da dove veniamo
C’è stata una lunga fase storica in cui una parte significativa del mondo culturale di “sinistra” ha ritenuto che un’autentica «Federazione europea» potesse rappresentare un freno alla vocazione degli Stati Uniti di imporre il proprio modello economico, sociale e culturale al resto del mondo (Cacciari, 1994). Un freno al paradigma della iper-globalizzazione neoliberale a cui contrapporre un modello di sviluppo (relativamente) autonomo capace di conciliare libertà d’iniziativa economica e giustizia sociale (D’Attorre, 2023). Un freno alla vocazione “imperiale” degli USA, cui contrappore un approccio dialogante con le ragioni dei popoli e delle nazioni non occidentali: emblematica la politica mediorientale di alcuni paesi europei (tra cui in primo piano l’Italia e l’Ostpolitik di Brandt).
Lo spartiacque
Ritengo che il biennio 2003/2004 sia stato uno spartiacque per comprendere lo scivolamento dalle aspettative di una pur contraddittoria autonomia politica e sociale dell’Unione ad un atteggiamento di sostanziale subalternità agli interessi della Nato. Gli Stati Uniti hanno promosso l’integrazione tra i mercati europei, tollerato l’integrazione monetaria, a patto che non venisse messo in discussione l’esorbitante privilegio del dollaro, ma hanno sempre, fin dalla CED, ostacolato l’integrazione difensiva tra gli Stati membri, vista come un potenziale concorrente alla Nato.
La Seconda guerra del Golfo del 2003, illegale sul piano del diritto internazionale al pari di quella scatenata dalla Russia vent’anni dopo, segna il tramonto della prospettiva di un’autonomia geopolitica dell’Unione. Sono gli Stati Uniti a demarcare la divisione tra i paesi della “vecchia” Europa, gli Stati fondatori che rifiutano di prendere parte alla guerra e si “attardano” nella difesa del Welfare State universalistico e i paesi della “nuova Europa”, Polonia in testa, che aderiscono alla guerra, insieme al Regno Unito e la Spagna di Aznar e promuovono la “modernizzazione” dei sistemi laburistici e previdenziali.
Una parte dei paesi della “nuova Europa, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia, Bulgaria e Romania nel periodo 2004-2007 furono accolti nell’UE anche con l’intento di sfruttare le disomogeneità economiche e sociali di quest’ultimi per garantire opportunità di de-localizzazione e distacco dei lavoratori alle grandi imprese europee. Contestualmente questi stessi paesi aderirono alla NATO. L’adesione contemporanea a UE e NATO dei paesi dell’ex blocco sovietico, oltre a tradire la promessa non scritta di non estendere la Nato ad Est terremotava l’architettura di sicurezza e cooperazione comune faticosamente edificata a Helsinki (Minolfi, 2023). A seguire nello “storico” vertice Nato di Bucarest (2008), la NATO acconsentì all’adesione di Croazia e Albania. Nella stessa occasione venne dichiarato che anche Ucraina e Georgia avrebbero potuto farne parte: «NATO welcomes Ukraine’s and Georgia’s Euro-Atlantic aspirations for membership in NATO. We agreed today that these countries will become members of NATO».
Oltre l’economia di guerra
L’unionismo ha intravisto nella guerra russo-ucraina l’occasione storica per un protagonismo dell’Europa come potenza geopolitica (Olaf Scholz, discorso del 9 maggio 2023 al Parlamento europeo; Mario Draghi del 7 giugno 2023 al MIT di Boston). L’occasione per un rilancio in grande dell’Europa della difesa, prima tappa di una più forte integrazione politica.
Il progetto d’intensificazione della difesa comune, a fronte di una gracile politica estera e di sicurezza comune (sui cui si può decidere solo all’unanimità) e dell’impossibilità di monetizzare il debito o disporre una politica fiscale espansiva per sostenere le nuove spese per la difesa, ha dato vita ad un più modesto funzionalismo bellico (Losurdo, 2023). Nello scenario più generale di ri-militarizzazione delle democrazie (Romano, 2023), l’Unione si pone l’obiettivo di convertire una parte dell’apparato produttivo ed economico alle esigenze della guerra.
Nella prima fase, si è istituito il c.d. European Peace Facility (EPF), un fondo ad hoc, collocato al di fuori del bilancio comunitario, diretto a finanziare le spese delle missioni militari comuni e il sostegno a Stati terzi, come nel caso dell’Ucraina (a cui sono stati già erogati circa undici miliardi e mezzo di euro in armamenti ed equipaggi di ogni genere).
Poi, a luglio del 2023 è stato approvato con un accordo bipartisan tra popolari e conservatori il regolamento Act in Support of Ammunition production (la cui base giuridica è art. 173 TFUE dedicato alla politica industriale). Con questo regolamento si istituisce un fondo europeo per incentivare la produzione di munizioni, si attribuisce alla Commissione il potere di chiedere ad un’impresa nazionale di convertire la produzione (col consenso dello Stato membro in cui ha sede l’impresa) e si introduce la possibilità per gli Stati membri di chiedere una modifica dei propri PNRR per destinare parte dei fondi al riarmo, con “buona pace” dell’obiettivo della transizione ecologica e digitale.
Più recentemente è stato approvato l’Ukraine Facility Regulation. Lo “strumento per l’Ucraina” si impegna a erogare 50 miliardi di aiuti finanziari all’Ucraina per 5 anni, ricalcando il modello dei PNRR in base a cui ogni tranche di aiuti sarà condizionata all’adozione di riforme strutturali e al rispetto del raggiungimento di certi targets e milestones essenzialmente quantitativi, oltre che a generici impegni di rispettare i diritti umani e lo stato di diritto.
L’Unione, si propone, infine, un ulteriore allargamento ad Est sia all’Ucraina che alla Georgia, con il rischio di accrescere ulteriormente la disomogeneità politica, sociale e territoriale dello spazio europeo. Diverso sarebbe il significato di questo allargamento, se si accompagnasse ad una neutralizzazione permanente del territorio ucraino, secondo la lungimirante idea avanzata da Papa Francesco.
Avere un’immagine autonoma del mondo
L’Unione europea sembra oggi priva di una propria immagine del mondo, limitandosi ad “importare”, da trent’anni a questa parte, la visione geopolitica statunitense. È priva di una adeguata politica per il Mediterraneo, appaltata, specie dopo la Guerra d’Iraq, agli USA con gli effetti oggi sotto i nostri occhi. Ha “rimosso” la questione dello sviluppo economico e sociale dell’Africa (questione posta sia pure strumentalmente al centro della Dichiarazione Schuman del 1951), il continente in cui si gioca anche il nostro futuro, prima di tutto, per la dinamica demografica.
Quello che qui si è chiamato “funzionalismo bellico” è in fondo il capovolgimento del celebre discorso di Sandro Pertini nel pieno della guerra fredda per cui occorreva «svuotare gli arsenali e colmare i granai». Classi dirigenti, memori degli ideali dei Padri fondatori, dovrebbero progettare e perseguire un’autonoma politica estera e di difesa comune rispondente agli interessi strategici del continente europeo, alleato sì degli USA ma non subalterno al suo disegno di assoldarla nel suo prossimo conflitto con la Cina (Cantaro, 2023). È questa la reale posta in gioco anche per il nostro paese: il rischio che si infranga l’equilibrio tra il vincolo “interno” della sovranità popolare e sociale e il vincolo “esterno” dell’appartenenza all’Unione. Senza dimenticare che l’Europa è vittima anche dell’ottusità di una parte delle classi dirigenti tedesche. La Germania ha, infatti, eroso lo spazio della cooperazione e della solidarietà europea con il suo mercantilismo e l’egoismo che ha dimostrato nell’imporre una politica monetaria funzionale ai suoi interessi (Guazzarotti, 2023).
Se l’Europa sacrifica le sue promesse di benessere economico, mobilità sociale, solidarietà tra popoli, gestione razionale del fenomeno migratorio e scarica il costo esorbitante della guerra sul Lavoro, come ha mostrato la più recente politica anti-inflazionistica della BCE e il “nuovo” patto di stabilità, il popolo non si sente più rappresentato: non vota più o, se vota, sceglie coloro che sono contro l’Europa a prescindere.
L’ecologia di guerra
Inoltre, non andrebbero sottovalutati gli effetti delle guerre, che oggi imperversano nel globo, rispetto all’obiettivo tanto decantato della transizione ecologica. Una documentata ricerca del “The Guardian” ha evidenziato, ad esempio, che la guerra israeliana a Gaza ha avuto, oltre ad un catastrofico impatto umanitario, un impatto climatico altrettanto drammatico. Secondo l’autorevole testata, le emissioni di fonti fossili, generate dalle bombe, dalle scie degli aerei, dai carri armati, ma anche dalle colonne di camion che trasportano beni di prima necessita oltre il valico di Rafah, nonché dalla futura ricostruzione hanno una ricaduta misurabile sul riscaldamento globale. Se si considera la scala assai maggiore, è facile immaginarsi quanto possa essere l’impatto sull’ecosistema della guerra russo-ucraina nel suo ciclo distruzione-ricostruzione.
L’unione europea ci “rassicura”: è possibile coniugare il “funzionalismo bellico” con la transizione ecologica. A tal proposito, le istituzioni di Bruxelles hanno coniato l’ultima formula magica di «military green» o «greening the armies». Questa formula, pur alludendo al giusto intento di limitare l’inquinamento fossile degli equipaggiamenti e delle strutture militari, sembra evocare una sorta di “greenwashing” dell’economia di guerra.
Quello che dovrebbe fare l’Unione
Prendere esempio da quanto prova a fare, non senza contraddizioni e perseguendo i propri legittimi interessi, la Cina. La Cina, grazie al suo consueto pragmatismo e sguardo di lungo periodo, ha prospettato una soluzione realistica del conflitto russo-ucraino, l’unica praticabile se si vuole evitare l’escalation della guerra atomica “tattica” (la Lama docet): immediato cessate il fuoco con congelamento delle attuali linee del fronte e, a partire da qui, un negoziato internazionale sui reciproci confini con la garanzia delle grandi potenze. Di contro, l’Unione ha fin ora adottato l’approccio idealistico che raffigura la guerra come lo scontro tra Bene e Male, tra i valori della democrazia e di dis-valori dell’autocrazia, un atteggiamento già evidente nella risoluzione del 2019 con la quale il Parlamento europeo ha equiparato senza vergogna comunismo e nazismo.
Altrettanto costruttivo e pragmatico è parso l’approccio cinese rispetto al fronte mediorientale. Già prima del 7 ottobre, aveva promosso un riavvicinamento tra i nemici storici dell’Arabia Saudita e dell’Iran, prefigurando una cooperazione tra loro nel quadro dei Brics allargati. Recentemente, a Pechino è stato organizzato un incontro tra tutte le componenti politiche palestinesi, oltre a Hamas e Fatah, un primo teorico passo verso quello che potrebbe essere un governo di unità nazionale dopo la guerra a Gaza. Da ultimo, Cina (e Russia) hanno invitato il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas a partecipare al prossimo summit dei BRICS che si terrà nella cittadina di Kazan il prossimo ottobre.
Piccoli passi, certo. Motivati – lo si ripete – anche da una propria visione del mondo multipolare, dalla sua contesa strategica con gli Usa, dai vantaggi contingenti derivanti dall’alleanza con la Russia.
Sarà L’unione europea in grado finalmente di muoversi come un soggetto politico internazionale autonomo, capace di elaborare i propri interessi strategici, perseguirli e sulla base di questi di ridefinire il proprio rapporto con l’alleato americano?
È questo uno dei tanti complessi temi che proveremo a indagare nell’imminente scuola di formazione politica a Roma e nelle altre iniziative della nostra Scuola di educazione alla politica “Vivere la costituzione, sviluppo umano” la cui prossima tappa si svolgerà presso l’Istituto Don Orione di Fano il 13-14 settembre.
Testi di riferimento
Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994.
Cantaro, L’orologio della guerra. Chi ha spento le luci della pace, NTD-Media, 2023.
D’Attorre, Metamorfosi della globalizzazione, Bari-Roma, Laterza, 2023.
Guazzarotti, Neoliberismo e difesa dello Stato di diritto in Europea. Considerazioni critiche sulla costituzione materiale dell’UE, Milano 2023.
Losurdo, L’ordine di Maastricht e l’economia di guerra. Il nodo gordiano del debito, in https://www.regione.emilia-romagna.it/affari_ist/rivista_S_2022/Losurdo.pdf
Minolfi, Le origini della guerra russo-ucraina. La crisi della globalizzazione e il ritorno della competizione strategica, Istituto Italiano per gli studi filosofici, 2023.
Romano, La democrazia militarizzata. Quando la politica cede il passo alle armi, Longanesi, 2023.